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sabato 10 agosto 2024

La mia Recensione: Leech - Sapperlot


 

Leech - Sapperlot


Il cielo, dalle parti di Strengelbach, nel canton Argovia, è un testimone cosciente di flussi energetici pregni di astensione e gentili esercizi melodici che provengono dal quintetto svizzero che con l’ultimo lavoro si è concesso una navigazione tra le nuvole, in un binomio continuo tra l’essenza della musica che pilota i sogni e i fantasmi indecenti della realtà.

L’emozione vince sulla fisicità immersa nell’astratto e il concetto che insegue le somme della bellezza, in cui la contaminazione è una freccia contemplativa che si attacca alla sperimentazione, nell’imbuto dello smarrimento il senso di perdita acquista sensualità e l’esistenza ultraterrena converge in uno stato di sospensione.

I cinque manipolano ventotto anni di carriera per sintetizzare il poderoso imprinting post-rock e dirigersi verso una mastodontica foresta colma di colorati fiori ambient e in un pop pieno di vette attrattive che cambiano lo sguardo del loro percorso. Ecco che la loro arte si trasforma in un abbraccio seducente fatto di segnali luminosi che modificano il passato in un presente non più ipnotico e cadenzato, bensì in un groviglio di magia che bacia il battito con riff meno adiacenti alla tristezza e un uso più evidente di tastiere, piano, vibrafoni, per rendere sottile il dolore di un caos che in queste sette tracce è evidente, come domanda e non come risposta al trambusto sonoro quotidiano.

Si sale in montagna, con una pragmatica propensione a trovare due situazioni per ogni singola canzone: un loop su cui l’insieme si fa adiacenza mutante, e un secondo momento nel quale il cambio ritmo, reale o apparente, muta gli accordi e le percezioni. Questo è un atipico stratagemma per fare un concept album, non per argomenti (no, non si commetta l’errore di pensare che un album strumentale non possa essere anche un concept sonoro…), ma grazie alla costruzione aritmetica che diventa un aquilone in grado di trascinare le pulsioni verso il senso di vuoto che viene obbligato  a compiere un percorso di riempimento, riesce a realizzare il desiderio.

Quando la poesia non ha bisogno delle parole allora si rimane basiti, defraudati delle proprie abitudini (stupide), e si corre il rischio di imparare che da queste sette tracce esiste la scorciatoia nei confronti della flessibilità mentale.

Nel gioco delle visioni tutto si rimpicciolisce perché la band svizzera sfrutta l’ossessione del dettaglio, della ripetizione, in una corsa pirata nell’individuazione dello stretto necessario, per rendere l’ascolto un manichino di seta, in una giornata nella quale ciò che arriva è una valanga, sostanzialmente lenta, quindi ancora più greve e spavalda.

Il post-rock degli esordi rimane una intuizione, una necessità che riduce l’impatto verso la perdizione, ma, in questo gioiello balsamico, fa da spalla e non riveste il ruolo principale, per nutrire una vorticosa aspirazione di schemi stilistici ormai saturi, tra ripetizioni che ogni genere musicale tende a vivere.

Sorpresa, rinnovamento, percorsi nuovi che riempiono le strade degli ascolti verso una tempesta al rallentatore, in cui il proprio destino è quello di scrivere, nella propria mente, una storia che ci vede sconfitti con onore…

Sapperlot è una sfida segreta alla vita, nessuna foto, poco cinema, qualche proiezione, solo una lenta tazza di caffè che entra nel cuore, lasciando un gusto afono, un brivido di paura e sgomento, con carezze vitaminiche che ci riportano al tempo in cui la musica era una carneficina, data la somma di emozioni che si subivano, senza potersi opporre. Ed è ciò che accade in questo contesto: la clessidra scivola, tutto si fa sghembo, e una lucidità nucleare fa esplodere i nostri spasmi.

Il rock dei Leech è un'anestesia, un piacevole inganno, una viscerale protesta nei confronti dell’affanno e una cura razionale verso le esagerazioni di un'industria musicale che non coltiva più la bellezza vergine della magia.

Non è chiaro da dove nasca questa attitudine del gruppo a sorprendere gli ambitissimi spazi dello smarrimento, della perdita, in un quasi silenzio che opera in frequenze a stretto contatto con l’assimilazione di giochi prospettici diretti, diritti, mai abitati dalla ingenuità. Si piange sorridendo, si sogna camminando, si fa l’amore tremando, e ci si dirige nella periferia del tempo, con  il dono di perderlo del tutto.

In questa simbiosi di stili e generi musicali, niente è vacante, e la melodia, un tempo conferita dagli incroci di chitarre piene di sale e pepe, oggi preferisce dare alla tastiera la guida, per rendere più tiepidi i raggi solari di queste morbide frustrate, in un bacio tra rive piene di acqua e tormento. Un’orchestra che pare comprendere tutti i 540 strumenti musicali, nell’apoteosi che mette il cielo in ginocchio.

Urs Meyer come sempre prende la sua sei corde e cammina tra le ortiche, Marcel Meyer fa lo stesso, utilizzando però anche le tastiere. Serge Olan suona la batteria come se dovesse farci toccare la vibrazione del tempo, in un applauso all’Olimpo continuo. David Hofmann gioca da playmaker, distribuendo il suo talento tra il basso, le chitarre e la tastiera. Alessandro Giannelli siede su uno sgabello per illuminare l’armonia con la tastiera, il vibrafono e spostandosi per percuotere tenui tamburi.

Sono cavalieri silenziosi di una solennità che turba, entra nei nostri balbettanti contorsionismi, distribuendo pillole di saggezza, proferendo una sola parola in tutto l’album: Love…

Ed è proprio l’amore da cui arriva l’idea, il concetto di una espiazione minimalista che induce chi ascolta a riflettere sul significato di un rapporto impari: sono canzoni che ammutoliscono, non permettendo assolutamente di rivelare cosa la cassa toracica stia vivendo.

Ossessionante è la ricerca di una produzione capace di guarire l’anomalia moderna che non la vede più come parte integrante di un percorso di costruzione. Qui, invece, si assiste a un patto, compatto, di alleanze e proiezioni.

Ed è shock, che si attacca alla speranza che il disco non finisca, in quanto in ogni rapporto salute e malattia diventano complici di un progetto celeste: sono note che scendono per volare nell’acqua, nella rovente estate dell’esistenza, dove il calore rende secca la gioia. 

Vengono colpite, secondo dopo secondo, le zone del pressapochismo, del dilettantismo osceno, con un esame di maturità di cui il Vecchio Scriba è certo non verrà compresa l’importanza: con un lavoro come questo si diventa gnomi nel circo delle aquile volanti, senza becco, senza cibo ma con la pancia degli occhi sazia…

È tempo di perlustrare questi vicoli: allacciate le cinture e bevete un bicchiere di vino rosso, perché nella lentezza del sapore vive il segreto di ogni scintilla di intelligenza…


Song by Song


1 - Knock Knock 


Knock Knock è uno shock: scintille di Beautiful People dei Marilyn Manson sembrano confiscare una intera carriera ma è solo un attimo, basta avere pazienza e noterete come le note grasse e distorte si combinano con la strategia ipnotica delle tastiere e del piano, per legittimare il volo di un masso…



2 - Rotor Heart


Ancora un suono denso iniziale, e poi il ritmo si mette una corsa sulle spalle, con il basso che grattugia le scie del cielo e il verticale ingresso delle tastiere fa oscillare la sensazione che un ciliegio abbia abbandonato la stabilità per divenire una impronta di luce. Il drumming dipinge la traiettoria, la tastiera sembra un sax in una giornata priva di nuvole e il fiato diventa la prigione di un sogno senza più piume…



3 - Crown Me With Whisper


Una ipnotica danza del pensiero si traveste, nel circolo atmosferico di una tastiera che circonda l’asfalto, in un sottile approcciarsi a drammatiche visioni tipiche della western music, per collaudare l’approccio all’ambient e alla world music, consentendo alla lentezza di essere una spugna, dove i drammi delle nuvole arrivano ai nostri sensi. Il drumming è una marcia che pare portare le chitarre a dormire sul ciglio di una strada senza pareti…



4 - Pick A Cloud 


Nyman e Sakamoto, uniti anche se in due dimensioni diverse, prendono appunti nei primi secondi del brano, e poi è un vistoso e antico gioco mnemonico di cosa fosse il post-rock agli albori, un dilemma ritmico che non riesce a togliersi di dosso il fiato di una pulsante radioattività melodica: poche note possono bastare a rendere lucido il volto…



5 - Starmina


Si rallenta il ritmo, ma aumenta il senso di perdita, di struggimento che plana in una zona in cui le note paiono in attesa: non di una esplosione bensì di una fuga sommessa, pacifica e silente. Invece no: tutto si fa mistero e, come in un film di Bergman, il precipizio sembra un piacevole luogo dove rendere mute le stelle. Un carillon dei sensi che diviene più pesante, irrobustito da una chitarra che gratta via la pelle, lentamente…



6 - Alfonso’s Night


Di cosa è fatto il vento? Qual è la sua velocità ideale? Dove vorrebbe andare e cosa gli impedisce di raggiungere l’obiettivo? Chiedetelo a Alfonso’s Night: in questa gemma poliedrica sicuramente troviamo custodito il mistero, in una seduta psicologica dove l’ipnosi è data da un rovistare tra le vene di una emozione ridotta al minimo, ma urlante… Si piange con ossessione e gravità, in un cilindro che sembra aspettare la traiettoria ritmica che arriva quando Serge batte il suo piede sulla grancassa e i suoni si fanno più sibilanti. Momento strategico che ci riporta alla mente il brano di Peter Gabriel nel film Birdy - Le ali della libertà, quando lui riesce a volare ed è evidente che accada anche qui: siamo tutti uccelli in un volo pieno di tristezza celestiale…



7 - Everything Will Be The Same


Lottare contro il destino, l’ostinata volontà dell’uomo di ripetere ogni sciocchezza viene evidenziata da questa litania sepolcrale, summa dell’intero lavoro: si alzano le spalle, sgomenti, si trovano brillantini sonori che sembrano carezze davanti al cadavere della esistenza. Rimane l’amore. Pronunciato. Descritto con questo assione che rende i circuiti elettrici del cervello in trepidante attesa, un addio che  non si può fermare. Il brano mostra più varietà rispetto agli altri sei in quanto deve ospitare una serie di addii, di congedi, un abbraccio liquido che con coraggio ci riporta nella condizione di intendere che quello che abbiamo ascoltato è uno spettacolare volo di piume abbandonate per sempre alla loro bellezza… E in questa lacrima la loro musica si siede per baciarci, nel tempo di un sodalizio che avrà reso noi tutti esseri viventi fortunati…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
10 Agosto 2024


Su Bandcamp l'album uscirà il 13 Dicembre 2024

venerdì 8 dicembre 2023

La mia Recensione: The Churchhill Garden - Dreamless



The Churchhill Garden - Dreamless



Anche gli angeli chiedono aiuto, vuotano il sacco, tendono la mano, si afferrano al non so pur di ritrovare la luce. E se a farlo sono due artisti sempre in stato di grazia, che mai ci farebbero pensare a un momento di difficoltà, ecco consegnata una notizia sorprendente: accade tutto nelle note di questa canzone con il pigiama, una meteora lenta che cerca il rientro nell’atmosfera celeste, nella vita, nella condizione terrena. Sono pensieri che scivolano tra le mani di Andy Jossi, sempre più concentrato ad attraversare gli spazi con le sue atmosfere delicate ma piene di tensioni, rese ubbidienti dal suo inconfutabile talento. E nelle parole e nella voce di Krissy Vanderwoude, qui più che mai una fata dalla faccia triste, raccolta nella sua nuvola, alla ricerca del raggio giusto. Brano strepitoso, un concentrato del marchio di fabbrica del duo svizzero-americano, capace di rivelare come la vera amicizia diventi l’ambiente per una scrittura complice, aderente alla realtà, lasciando il tutto al destino destino di questi quasi sei minuti, nei quali ciò che accade è un grido addomesticato da chitarre in modalità alternative prima, dream pop poi, e infine shoegaze, per circolare nella palude di un testo che sembra privo di ossigeno e che viene interpretato dalla cantante di Chicago con un trasporto che non rinuncia alla delicatezza, ma che questa volta comprende gocce di amare lacrime. Senza sogni si potrebbe precipitare, musicalmente parlando, in un putiferio sonoro, nella rabbia, o smettere proprio di suonare. Invece…
Invece ascoltiamo sussurri che accolgono momenti specifici degli ultimi trent’anni, raccolti come ispirazione da Andy che poi, nella sua camera piena di artifizi splendenti, cuce sul manico della sua chitarra un disegno melodico che ancora una volta ha il suo stile, riconoscibilissimo. Dal canto suo Krissy lavora come sempre con il gioco delle doppie voci, con il suo angelico respiro che questa volta ha gli occhi bassi ma potenti, con la scorza doverosa che fuoriesce per portare a compimento il suo bisogno: ritrovare i sogni e farli camminare nel suo cuore. Sia la musica che il testo visitano, con classe e leggerezza, l’inferno: nel groviglio di note colme di liquidi in salita verso il cielo, le parole scendono in un'indagine che trova la verità.
La drum machine apre la danza lenta, poi sono le chitarre che si fanno accompagnare da una delicata tastiera e, sempre delicatamente, si arriva al ritornello che scuote con la sua leggerezza, come se fosse una goccia di brina di fronte all’ingresso del dolore. Appena finito, Andy entra dritto come un fuso in un arpeggio straziante e la voce ritorna, per compattare questa poesia invernale nel centro dei nostri ascolti.
Si piange abbracciando questa coppia di artisti e si esce sudati ma convinti che a volte l’arte compia dei miracoli: ci ritroviamo tutti insieme a brindare a questa sincera canzone, umile e che farà del nostro ascolto una benedizione celeste…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
8 Dicembre 2023






sabato 22 aprile 2023

La mia Recensione: Morgersten - Hass ihn

 Morgersten - Hass ihn


I muscoli Svizzeri scendono dalle montagne e con fare preciso si mettono quintali di Industrial Metal sulle spalle, proseguendo un cammino che rivela la classe: non ci sono solo i Rammstein a produrre questo tipo di musica, e che diamine! Il brano è infestato, violento, crudele, con le mani piene di tagli, e le ferite sono un dono degli Dei del metallo. Sorprendente il breve cantato in italiano, che, insieme a quello in lingua tedesca, imprime al testo una maggiore fascinazione.

L’elettronica avanza, installa un dominio senza esagerazione, in cui tutto è equilibrato, portando, come risultato, un senso di profondo attaccamento al connubio ritmo/evocazione, che raggiunge qui vette elevatissime…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino 

23rd April 2023


https://morgensternndh.bandcamp.com/album/hass-ihn






mercoledì 15 febbraio 2023

La mia Recensione: Leech - If We Get There One Day, Would You Please Open The Gates?

Leech - If We Get There One Day, Would You Please Open The Gates?


Gocce di vita sulla grandine di ogni tensione scendono dalle Alpi, nella variopinta Svizzera, come un giorno lavorativo da spegnere solamente con l’urgenza di disegnare un quadro nel quale sia contenuta la creatività come risposta continua alla fascinazione della ricchezza del vivere da una parte e dall’altra di un fremito che ingloba miriadi di espressioni tra il grigio e il giallo, colori dal carattere acido ma pieni di calore, basta osservare bene.

Il vinile, 500 copie in edizione limitata, e la certezza di avere la storia delle lacrime tra le mani: le note al suo interno sono disciplina, accostamento al pudore, una corsa lenta dentro il mistero, un agitare il vetro di ogni paura per stabilire una necessità nuova. Ascoltare questo album è diventare gnomi, splendide creature alle quali l’altezza non impedisce realtà, altro che limitarsi ai sogni! E così, mentre la musica viaggia dentro il nostro corpo e nell’emisfero delle emozioni, ci ritroviamo piccolissimi ma eretti, perché i Leech (la miglior Post-Rock band di sempre) sono i maestri dell’equilibrio, sovrani del meraviglioso luogo dove tutto è residenza del dolore trasformato in ebbrezza respiratoria, continua.


E questo quarto epocale tratteggio sonoro è un dispetto clamoroso: non trovi spazio per discutere eventuali approssimazioni e sbagli, per sgridarlo o quant’altro. La band nata a Ofringen, nel cantone di Argovia, fa esplodere la genuina propensione all'architettura sonora, strabordando, coinvolgendo l’ascoltatore in un lago di sudore, per un bagno imprevisto dentro le proprie vene. Il vecchio scriba scrive mentre le lacrime avanzano verso il computer per definire con precisione l’enorme fascio di luce che queste dieci composizioni generano, in un crocevia delizioso fatto di entusiasmi, disperazioni, silenzi, luccichii continui e un senso di arrendevolezza, perché questa band disegna sul pentagramma una vistosa capacità di sorpassare i sogni: dalla musica si vogliono e pretendono molte cose, ma basterebbe l’ascolto di questo disco per tacitare l’egoismo.

L’approccio nei confronti di un album di questo genere musicale comporta già di sé per un grande sforzo, aumentato dal fatto di essere completamente strumentale. In un mondo avviluppato all’esagerato bisogno di parole, troviamo qui quelle mute, quelle straordinarie che provengono da strumenti in calore, assatanati e contemporaneamente capaci di carezze senza limiti. 


Tutto è strutturato per essere un racconto visivo, una poesia senza voci se non quelle dell’anima che escono dagli amplificatori per dirigersi al cuore. Un lungo tintinnio, uno scampanellare la vita tra le montagne che dalla Svizzera si dirigono nei pressi dei nostri apparati uditivi non più dediti ad accogliere certe modalità stilistiche che contemplano perlomeno un piccolo sforzo. Il rischio con questo enorme quadro alpino è quello di sentire il trambusto del nostro ventre misurare le nostre gravi lacune: quanto siamo davvero disposti a rimpicciolire i nostri egoismi?

Volete sapere meglio cosa state ascoltando?


Domanda sbagliata: siamo dentro un film, un racconto che incontra la Filosofia più sottile, dove il baricentro è la consistenza di un sentire non comune perché siamo davanti a una miscela unica, altro che semplice Post-Rock…

Le Chitarre sono corsare, streghe, sirene, ortiche, lastre, rughe, balestre, lepri, abeti in un giorno di vento. Sono agenti atmosferici corrosivi, sono la febbre del cuore che trova pace e in grado di sostenere anche la guerra, con impeto e la volontà di estremizzare gli incroci tra il Rock, l’Hard Rock, il Progressive e il Dreampop. Sempre presenti come luogo delle trame, della melodia e del sogno che conosce anche bufere e smottamenti. 

Il Basso è il Niesen, il Monte Svizzero che spesso scompare ma, quando lo vedi, con la sua forma triangolare, non puoi che sorridergli e ringraziarlo, perché sa essere efficace. Ecco, nell’album questo prezioso strumento è l’indiscusso pilastro, con i suoi cambi ritmo, per come nelle note sembra scivolare come un sassolino lungo il pendio del ghiacciaio, per come dirige il traffico di bellezza sonora con rigore e capacità.

Il Piano è un leone che sbadiglia e bacia le note con eleganza e stupisce per il modo in cui ogni suo movimento sa donare poesia e un grande piacere cerebrale: seppur poco pesante, rivela la sua importanza.


Il Sintetizzatore è il veicolo che equilibra la compattezza effervescente della band donando petali, coperte, tappeti, fiammate, sogni acidi, in una visibilità totale per dare colori diversi ma perfettamente sensati alle notevoli trame chitarristiche.

La Batteria è la Dea del senso, il pilota unico che è esteriore e interiore, il fluttuante che accoglie la melodia e la ingrossa, la educa, donando saggezza tramite i consigli delle sue bacchette e dei suoi pedali, in un ristoro continuo perché questo elemento non solo salda, ma amplifica le proprietà di note venute al mondo per avere il giusto ritmo.


Ecco che la loro musica diventa non soltanto un paesaggio perfettamente disegnato, ma anche un raccoglitore, prezioso di odori e impressioni, sentimenti, stati d’animo in pellegrinaggio verso l’incandescente incontro con il bacio di Dio. A volte spigolose, come rocce in sgretolamento, altre lievi come la stagione dell’accoppiamento tra anime pacifiche, le composizioni alla fine sono fiabe dagli umori saldati, con braccia possenti e mani delicate, cosicché è impossibile scappare dal progetto di libellule operaie sulla schiena della poesia. 


Nulla può essere definito digressione elettrica dilatata, in quanto occorre qualificare il discorso con un ascolto che colga le scintille composte di particelle di vento e grandine che conferiscono alle note un senso di estraneità nei confronti, appunto, delle digressioni. Gli Svizzeri immergono l’intenzione e la piacevolezza del suonare nel mare delle possibilità, di incastri, di flussi di coscienza che non hanno sosta nemmeno quando il ritmo rallenta: tutto è pregno della volontà di essere veloci, di non tergiversare, di non illudersi che la lentezza sia la sorella gemella della qualità. Loro sono veloci dentro, nei pensieri, negli arti che, insieme, schizzano via verso il pianeta della magnificenza. Non più musica, né letteratura, tantomeno fotografia, ma dimensioni al di fuori dell’umano in cerca dell’abbraccio eterno, perché queste canzoni non invecchieranno mai…

Romantici, assassini, quieti e ribelli, i Leech hanno raggiunto l’infinito: ascoltare questo album è un po’ come illudersi di poterli seguire…


Avanguardia, teatro, cinema, fotografia, a tratti pure un insieme di accenni di un cabaret timido, fanno di questo percorso l’apertura del genere Post-Rock verso un cavallo che non vuole briglie, una vergine pura ma libera di infangarsi a suo piacimento. Suite non ve ne sono, però ne sentiamo il profumo, e nulla assomiglia a divagazioni, sperimentazioni del momento nel segno della libertà, che invece è presente nelle trame di questi grappoli di luce che miscelando gli strumenti producono il nettare del vino più pregiato: un liquido dalla pelle nebulosa ma dal gusto limpido…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
15 Febbraio 2023







My Review: Leech - If We Get There One Day, Would You Please Open The Gates?

 Leech - If We Get There One Day, Would You Please Open The Gates?


Drops of life on the hail of all tensions descend from the Alps, in the colourful Switzerland, like a working day to be extinguished only with the urgency of drawing a picture in which creativity is contained as a continuous response to the fascination of the richness of living on the one hand and on the other of a quiver that encompasses myriad expressions between grey and yellow, colours with an acid character but full of warmth, just watch closely.

The vinyl, 500 copies in a limited edition, hold the certainty of having the story of tears in your hands: the notes inside are discipline, a juxtaposition of modesty, a slow rush into mystery, a shaking of the glass of every fear to establish a new necessity. To listen to this album is to become gnomes, beautiful creatures to whom height does not prevent reality, anything but dreams! And so, as the music travels inside our bodies and into the hemisphere of emotions, we find ourselves tiny but erect, because Leech (the best Post-Rock band ever) are the masters of balance, sovereigns of the marvellous place where everything is the residence of pain transformed into respiratory intoxication, continuous.


And this fourth epochal sonic hatching is a resounding spite: you don't find room to discuss any approximations and mistakes, to scold or whatever. The band, born in Ofringen in the canton of Aargau, explodes their genuine propensity for sound architecture, overflowing, involving the listener in a lake of sweat, for an unexpected bath inside their veins. The old scribe writes while the tears advance towards the computer to precisely define the enormous beam of light that these ten compositions generate, in a delightful crossroads of enthusiasm, despair, silences, continuous shimmering and a sense of surrender, because this band draws on the stave a conspicuous ability to surpass dreams: one wants and demands many things from music, but listening to this record would be enough to silence selfishness.

Approaching an album of this genre of music already involves a great deal of effort in itself, increased by the fact that it is completely instrumental. In a world enveloped by the exaggerated need for words, we find here the mute ones, the extraordinary ones coming from instruments in heat, at once capable of limitless caresses. 


Everything is structured to be a visual tale, a poem without voices except those of the soul coming out of the amplifiers and heading for the heart. A long tinkle, a ringing of life in the mountains that from Switzerland head towards our auditory apparatuses no longer dedicated to accepting certain stylistic modes that contemplate at least a little effort. The risk with this huge alpine picture is that we will hear the hustle and bustle of our bellies measuring our serious shortcomings: how much are we really willing to shrink?

Do you want to know better?


Wrong question: we are inside a film, a tale that meets the subtlest Philosophy, where the centre of gravity is the consistency of an uncommon feeling because we are in front of a unique mixture, more than just Post-Rock...

Guitars are corsairs, witches, sirens, nettles, slabs, wrinkles, crossbows, hares, firs on a windy day. They are corrosive atmospheric agents, they are the fever of the heart that finds peace and is capable of sustaining even war, with impetus and the will to go to extremes between Rock, Hard Rock, Progressive and Dreampop. Always present as a place of textures, melody and dreaming that also knows blizzards and mudslides. 

The Bass is the Niesen, the Swiss Mountain that often disappears but, when you see it, with its triangular shape, you can only smile at it and thank it, because it knows how to be effective. Here, on the album, this precious instrument is the undisputed mainstay, with its changes of rhythm, for the way in which its notes seem to slide like a pebble down the glacier slope, for the way it directs the traffic of sonorous beauty with rigour and skill.

The Piano is a lion that yawns and kisses the notes with elegance and amazes with the way its every movement is able to give poetry and great cerebral pleasure: although not very heavy, it reveals its importance.


The Synthesiser is the vehicle that balances the effervescent compactness of the band by giving petals, blankets, carpets, flames, acid dreams, in total visibility to give different but perfectly sensible colours to the remarkable guitar textures.

The Drums are the Goddess of sense, the unique driver that is exterior and interior, the floater that welcomes the melody and swells it, educates it, bestowing wisdom through the advice of its sticks and pedals, in a continuous refreshment because this element not only steadies, but also amplifies the properties of notes that have come into the world to have the right rhythm.


Here their music becomes not only a perfectly designed landscape, but also a precious collector of smells and impressions, feelings, moods on a pilgrimage towards the incandescent meeting with the kiss of God. At times angular, like crumbling rocks, at others as gentle as the mating season between peaceful souls, the compositions are ultimately fairy tales with welded moods, with powerful arms and delicate hands, so that it is impossible to escape from the project of worker dragonflies on the back of poetry. 


Nothing can be defined as a dilated electric digression, as it is necessary to qualify the discourse with a listening that captures the sparks composed of wind and hail particles that give the notes a sense of extraneousness with respect to, precisely, digressions. The Swiss immerse the intention and the pleasure of playing in the sea of possibilities, of joints, of streams of consciousness that have no pause even when the rhythm slows down: everything is imbued with the will to be fast, not to prevaricate, not to delude oneself that slowness is the twin sister of quality. They are fast inside, in their thoughts, in their limbs, which, together, sprint away towards the planet of magnificence. No longer music, nor literature, let alone photography, but dimensions outside the human in search of the eternal embrace, because these songs will never grow old...

Romantic, murderous, quiet and rebellious, Leech have reached the infinite: listening to this album is a bit like deluding yourself that you can follow them...


Avant-garde, theatre, cinema, photography, at times even a set of hints of a shy cabaret, make this the opening of the Post-Rock genre towards a horse that wants no reins, a pure virgin but free to muddle along at will. There are no suites, but we can smell the scent, and nothing resembles digressions, experiments of the moment in the sign of freedom, which is instead present in the textures of these clusters of light that, by mixing instruments, produce the nectar of the finest wine: a liquid with a hazy skin but a clear taste...


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
15th February 2023







sabato 28 gennaio 2023

La mia Recensione: Grey Lips - MASQUERADE

 Grey Lips - Masquerade 


Perrine Berger e Matthieu Hardouin sono nel mirino del vecchio scriba da tempo e ora con la band Grey Lips può affermare che la loro unione in  questo progetto offre la possibilità di godere di spazi sismici e turbolenze musicali nella rarefatta Svizzera, un paese che sa produrre il rumore giusto, quello che affascina e dona potenza. Un debutto simile merita attenzioni e specificazioni, in quanto il loro campo di azione è vasto e comprende zone temporali di origine dei generi musicali che loro hanno saputo rendere ancora più credibili e attuali. Tre singoli che hanno dato un’idea, ma è l’album che conquista senza dubbio: il rock trova la sua antica fiamma genuina, affianca la necessità di integrare pillole salate di Post-Punk allucinato, quasi sudato, quasi imbevuto di trame Industrial, con la voce di Matthieu che sa creare legami con il dolore e la poesia, come Justin Sullivan dei New Model Army sa contemplare. Le onde sonore scavalcano le Alpi e planano su Ginevra, dove i due hanno studiato strategie per fare del nostro ascolto una situazione antica: trovarsi in una sala prove ad ascoltare degli amici, perché tutto vibra di calore e immediatezza. Le chitarre spesso sono nella zona di Daydream Nation dei Sonic Youth, poi si spostano veloci per solleticare altre band a bere una birra insieme. 

E così, non per caso, sentiamo come abbiano il desiderio di portare il suono verso il luogo dove tutto graffia e spinge la mente a viaggi verticali. Si scende verso quella forma d'arte che rende possibili pulsioni e isterie, si rimane con il sudore e la netta sensazione che queste canzoni siano sporche di un petrolio per una volta bellissimo e di un respiro che vuole far uscire la rabbia che non sia solo urla. Meriterebbero una descrizione tutte le stelle qui presenti, ma vi invito ad avere fiducia: l’ascolto vi farà scoprire che sanno essere dinamici e alterati in quel modo che rende ciò che fanno il giardino del Re, quello della musica…

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

28 Gennaio 2023

https://greylips.bandcamp.com/album/masquerade





mercoledì 27 aprile 2022

La mia Recensione: E-L-R / Vexier

 La mia Recensione


E-L-R * Vexier



"Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere allora? La pesantezza o la leggerezza?"
(Milan Kundera)


Qualcosa, nell’ascolto della musica, sembra destinato alla sofferenza, alla digestione che trova la sua occlusione, alla fatica di percezioni che quando si accoppiano con il desiderio creano una grande confusione. Il senso di libertà tra le note è spesso il territorio dell’inganno, dell’inutilità e di un successivo, pesante, imbarazzo. Tutto questo alla fine si coniuga alla pesantezza di questi istanti.

Sono momenti che si ricordano, non ci è concessa scelta, con il gusto che finalmente muore, così pericoloso e dannoso, se ci pensate bene. Non ci resta che essere curiosi estremi, nomadi perenni, viaggiatori forsennati, con luoghi sempre da trovare.

Berna, la città federale, la donna elegante e sempre attiva, che vive e scatena le sue energie su un altipiano incantevole, è anche la spiaggia delle Alpi, dove gli E-L-R seguono la loro folle propensione a creare massi di suono come stregoni con la bava alla bocca.

Sì, davvero, credetemi, le loro canzoni sono rocce metamorfiche con all’interno ghiacciai storditi e curvi, in volo sul tempo e sui nostri sguardi, che fanno gocciolare il sudore della paura che nasce e muore in questi terrificanti e piacevoli quarantasei minuti. Un insieme di passaggi tra le montagne delle nostre vibrazioni, con il loro Doommetal effettivamente ipnotico e pesante, per poi cercare e trovare un pò di leggerezza quando le loro mani accendono la parte meno ruvida, quel Doomgaze sempre più volenteroso di mostrare le sue possibilità di sviluppo. Senza dimenticare il Postrock dalle piume battagliere e meno incline alla malinconia.

I tre svizzeri creano chili di musica che sono lapidi, parassiti capaci di stimolare la cancrena e di ridere mentre noi ci ritroviamo con lo stomaco ribaltato. 

Due donne, I-R, bassista e cantante, S.M. chitarrista e cantante, e un uomo,  M.K., batterista, creano il concetto del suono come un luogo oscuro in cui rendere possibile le vie di fuga da melodie leggere, dal disimpegno, dalla futilità.

Loro non scherzano: ago e clava, a picchiare con trame corrosive e diaboliche, con fulmini rock con la mano sanguinante. 

Si entra nel deserto: dove esiste una possibilità di frantumare anche il minuscolo granello di sabbia loro lo fanno per diventare sirene che nuotano tra le dune, il martello di M.K. è una punizione che vola dentro il nostro respiro e le due responsabili del fragore e del disagio sono assatanate senza dover arrivare a musiche violente come il black metal e affini.

Loro ci concedono il sogno ma lo macchiano di sensi di colpe, cercano di affondare le velleità e le loro creazioni producono orticaria, rossore sulla cute della mente.

E’ un ascolto che è piacevole in quanto il loro coraggio, il  metodo usato per graffiare la mediocrità è pieno di candore: sembrano canzoni perennemente vergini, congiunte al desiderio di esplorare il fastidio e di ingentilirlo con spruzzate di dolcezza che quando arrivano creano sollievo e buonumore, se non anche una allegria scomposta, nevrotica, folle.

Stupisce che tutto ciò possa giungere dalla pacifica Svizzera, per quanto già in passato abbiamo avuto band capaci di essere dure, acerbe, sanguigne: valga l’esempio degli Young Gods. Qui però si va oltre per la continuità, i piani di battaglia programmati ed eseguiti perfettamente, come chirurghi allenati alla precisione, senza possibilità di sbavature. E le loro rocce rotolano dentro anche se vorresti opporti: è questa la loro validità, dono, capacità, un volo continuo dove le tumefazioni ricevute, alla fine dell’ascolto di Vexier, sono necessarie e subito desiderose di ripetere la liturgica modalità di fruizione.

Un secondo album che segue il percorso incominciato con l’altrettanto sorprendente esordio di “Maenad”, intento però ad essere edera corrosiva e acerba, con un profumo che non ti aspetteresti mai. All’interno delle cinque, lunghe composizioni, ci ritroviamo dentro film decadenti,  fotografie piene di olio, uno spettacolo teatrale che confonde lo spettatore e lunghe camminate acide, dove la possibilità di respirare serenamente è solo una ipotesi che loro sanno definitivamente affondare.

Lo consiglio vivamente perché anche la poesia ha le sue rogne, le sue crepe, i suoi ostacoli faticosi da superare. Quello che si prova alla fine di questo percorso è un senso di beneficio che non considereresti mai e la loro mastodontica capacità risiede proprio in questo inspiegabile evento.



Canzone per Canzone



Opiate the Sun


Su un territorio lunare che attende il fragore gli svizzeri seminano proiettili con la custodia: la lenta Opiate the Sun è un finto organo del cielo che prepara l’insurrezione. Timidi parallelismi, nei primi minuti, con i Dead Can Dance e poi il detonatore viene attivato per verificare se la potenza dei tre è ancora oliata: missione raggiunta.



Three Winds


Il Doommetal meno acerbo ma sempre sanguigno si manifesta con chitarra bastarda e il drumming vertiginoso che chiama a sé il lavoro del basso che è granito puro e pesante. Voci lontane scoperchiano il cielo nei loro pochi secondi di presenza sopraffina. Poi il Postrock reclama spazio, tutto si fa più cupo ed il sangue aspetta nuove esplosioni che, felicemente, accadono.



Seeds


Deliziosa: colla lavica in mutazione, spasmi di attesa con voci spiritate e poi il feedback apre la strada alla martellante esibizione di forza e tutto si incrocia, tra generi musicali e tensioni snervanti. La chitarra fa il giro del cielo, quando si assenta capisci come la sezione ritmica sia costituito da uppercut continui.



Fleurs of Decay


Il Desertrock si sposta sulla Luna dove i tre lo aspettano: grovigli di schegge metalliche dal fiato pesante si affacciano ed è una progressione di tagli, graffi e slavine di incubi dal respiro greve.




Fôret


Un temporale lascia l’acqua cadere per pochi secondi e poi entra l’apocalisse, tra tamburi e stilettate di un basso fortemente desideroso di piegare la morbidezza che la Luna richiede: le quattro corde vincono e si fanno aiutare da una chitarra lenta e sorniona, quasi timida nell’arrivare. Ma poi è delirio sonico sino ad un sorprendente cantato melodico come una finestra chiusa con malinconia. Il doppio pedale è attivato per un drumming cupo ma possente. Ed è gioia ritrovarsi in questo caos dove le ali si spezzano e cadendo possiamo mettere la faccia sulla Luna e annusarla. Il finale è il respiro che rallenta con annessa la celebrazione per un atterraggio che ha conosciuto la dolcezza.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

28 Aprile 


https://e-l-r.bandcamp.com/album/vexier


https://open.spotify.com/album/6WNRwaFxTc4GFX30EPINLB?si=4hjSLwPTR0GfEaynUe7aHQ







mercoledì 30 marzo 2022

La mia Recensione: Sofsky - Sofsky

 La mia Recensione:


Sofsky - Sofsky


Una pila di libri, due enciclopedie, la voglia di accendere il fuoco delle memorie lasciate a riposo e una infinita necessità di ascoltare come la notte canti canzoni al cuore.

Sono anni di torce elettriche, di neon, di illuminazioni non naturali che ingannano e che quindi fanno male: io voglio le luci dell’elucubrazione e dell’emozione provenire dal cielo.

Prendo la mia memoria e fingo una trasferta  a Lugano, cittadina da me amata molto in un tempo lontano, e mi accuccio nell’ascolto che diviene subito esperienza dei sensi che flirtano tra loro senza tentennamenti.

In questa vallata che sembra un oceano in quota ecco che cinque anime mi soddisfano completamente: si chiamano Sofsky e sono laureati in Bellezza e Profumi.

Perché quando la musica è davvero bella allora profuma di unicità, rinvigorendo e rafforzando le voglie più intime.

In queste dieci composizioni abitano sfumature di blu sulla pelle del grigio, perché la morbidezza e l’infinito incontrano la malinconia e la solitudine.

Si sobbalza sulla poltrona perché le domande e lo stupore crescono, in questi secondi diamantati e pieni di spigoli resi morbidi con sapienza e volontà, per poter dare la sensazione che ogni attimo possa scappare dalla nostra capacità di comprensione.

Dovremmo conferire alla parola “delirio” un significato bellissimo: i Sofsky modernizzano i termini perché governano tutto ciò che è stantio, sporco, privo di importanza. 

Ci sono abbracci sonori di decadi e generi che come astuti saggi mostrano solo degli accenni: tocca a noi divenire cani da tartufo e sporcarci le mani per trovare i segreti dell’arte dei ragazzi di Lugano in profondità.

E allora come un libro che accende il cuore in queste scosse elettriche troviamo i colori del tempo, i voli delle immagini che separano la bellezza dalla sporcizia, si entra nel tunnel della luce notturna che illumina la coscienza sempre più sopita.

Ci si ritrova a piangere copiosamente, si danza come pecorelle gialle di fronte ai raggi lunari, si riflette come esseri umani che nascono continuamente con questo album e ci si perde con tonnellate di piacere e spasmi.

Lo ascolti e pare che le località emergano in quel momento dopo un terremoto che ha zittito tutti. Si continua a tacere ma stavolta con i brividi, un atto sensoriale che viene attivato da queste voci che sono crampi sottili e morbidi, da questa chitarra e dalla tastiera che sono le regine dell’incanto, dal basso e dalla batteria che specificano il tutto come ballerini con il tempo saldamente in pugno in mani davvero capaci.

Tutto è raffinato, colto, libero, strutturato così bene che sembra di bere un vino rosso prodotto dalle vigne delle nubi.

Piccoli accenni di elettronica donano a questo lavoro la specificazione di un debutto spettacolare, dove la chitarra regna ma senza strafare.

Nella silente Lugano emerge questa celestiale identità e propensione a creare miracoli, a chiudersi con la convinzione che la vera apertura verso se stessi sia accogliere tutto questo.

Tutto ciò che ci sembra famigliare e noto dura pochissimo: inutile perdere tempo in citazioni e paragoni perché ci si ciba dello spettacolo di una montagna che nuota nel bacino universale di emozioni limpide e brillanti.

Ora nel silenzio dell’ascolto possiamo essere testimoni di che suono e odore abbia un monologo di sensualità e irruenza educata.

Visitiamo queste creature come studenti con la penna a stilo e la consapevolezza che la musica sia l’unico miracolo che si può ripetere senza fare soste e che non abbisogna di invocazioni e preghiere: Sofsky è un segno di pace nel ventre di una notte che attraverso melodie corpose elettrizza e sospende l’ansia.

Via allora: ché parlare di cose perfette è l’occasione giusta per sentire la vita ancora come una pianura dove il vento porta gocce di mare e non solo di lago…





Song by song


Sleep Cat


In pochi secondi le chitarre e le voci diventano stelle filanti per un volo che con un iniziale Postrock, che contempla un bel cambio ritmo, plana sulla coda finale con un clamoroso vortice Shoegaze.



Slowly Breaking


Sanno essere versatili e sorprendenti: questo brano è una poesia che colora la pelle, una esibizione di classe per i saliscendi, i voli che ci portano panorami intensi e pieni di nostalgia. La tastiera di Flavio Calaon con la chitarra di Stefano Chiassai sono un delirio di luci, dove gli altri due componenti sanno deliziarci in un modo altrettanto strepitoso.



Clusterphobia 


La ricchezza del loro talento ci conduce ad aprire le ali, come un’aquila reale che sa essere gentile. Il basso di Giona Mattei è una strega educata ma potente, mentre il cantato di Nicola Poretti ci ricorda che si può migliorare rispetto al passato: riesce a rendere lo Shoegaze ancora più interessante per questo metodo che conferisce maggior pathos.



Paradox


Il cappello vola in alto per via dell’emozione, dello stupore, del senso di leggerezza che abbraccia la pesantezza: in questo brano seducente e potente, che include un cambiamento che fa piangere come bambini ai quali si è tolta la marmellata, tutto accade quando mancano due minuti e quattordici alla fine e si è catapultati con un approccio Postpunk iniziale in un nuovo pianeta. Poi sono chitarre Shoegaze che mostrano la loro bellezza, con in contrasto il cantato che è Alternative, quasi rock. Un gioiello.



Her Shoes Are Wings to Fly


La bocca ancora spalancata, le sorprese continuano con questa canzone dal gusto amaro, una freccia di piombo che attraversa le nostre paure. Senza dubbio il loro momento più elevato per la capacità di coniugare il loro talento con la loro progettualità artistica. Non puoi opporti a questo lampo che accoglie diversi generi musicali e li trasforma in un diamante blu, eterno. 

La tastiera sembra sospendere il respiro, la chitarra è una ferita che come un dipinto ad olio sospende la fatica, la sezione ritmica semplicemente perfetta ed il cantato una esperienza onirica straordinaria.



Different Keys


L’indie rock sa mutare la pelle con i ragazzi di Lugano e qui va a farsi un giro negli anni 90 per poi saltare nel presente con estrema capacità. Un brano che allarga i polmoni e ancora una volta ci fa sentire la profondità dei testi, che a dire il vero è tale per tutto l’album. Ed il falsetto, inaspettato e morbido, dona al tutto un vestito elegante. Classe.



Mon Ologue 


Che bello è lo stupore intenso che viviamo con l’attacco iniziale: tra la tastiera e la voce siamo rapiti. Poi, come se il trip-hop potesse diventare meno prevedibile, accade che qui si associa ad una chitarra che è una goccia d’acqua nell’aria.



Origami Dog


Il Postpunk più segreto di Jeff Buckley appare nei primi secondi, per poi andarsene via come una danza Dreampop che si manifesta nelle splendide montagne svizzere.

I ragazzi sanno, hanno studiato e hanno trovato il loro stile, che è notevole e regala gioia e sogni.

Tracce di Adorable dell’album “Fake” nel cantato per offrire ancora più magie. Immenso.




Tennis Table


Chiedi chi erano i Roxy Music, i Can, i Durutti Column e poi guarda a Lugano: tutto si evolve per prendere un sentiero di grande effervescenza mista alla malinconia, una corsa prima lenta e poi più veloce, e ci ritroviamo tra i ciuffi di erba estasiata. Non puoi stare senza questa ricca dimostrazione di bellezza.




Whirlpool 


Per un attimo si vola in Inghilterra, all’inizio degli anni 90, quando lo Shoegaze e il Dreampop sapevano convivere senza problemi.

Come ultimo brano di questo gioiello l’atmosfera sembra un “ciao, ci vediamo presto”, per donarci una dipendenza dall’ascolto che benediciamo.

Un cantato generoso e sentito si appiccica ad una musica che, partendo dal ritmo sincopato, arriva ad una leggerezza che ci fa riflettere.


Un esordio da applausi continui, una standing ovation più che meritata: forza, prendete le valigie e fatevi un bel viaggio nella montagna dei sogni e dei pensieri che i cinque sanno offrire con grande generosità.


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

30 Marzo 2022


https://sofsky.bandcamp.com/album/sofsky





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