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sabato 7 dicembre 2024

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us


 Midas Fall - Cold Waves Divide Us


La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che appassiona le anime in ascolto e in visione, trasportando le ombre sotto i riflettori. Ciò che ne consegue è estasi in ripetizione, tra oscillazioni e tremori. La musica può rappresentare tutto questo come tramite, indagine e una fitta ragnatela contenitiva. Se a farlo è la band scozzese Midas Fall, allora la paralisi del miocardio è garantita all’istante, come genesi di fragilità in cerca di ossigeno. Il duo (ora trio) compie il miracolo più notevole che si possa solo lontanamente sperare: scrive una genuflessione dal vivo, un concerto invisibile, direttamente nelle nostre stanze, come una vicenda privata, unica, difficilmente evitabile, per segnalare un primo incandescente atto di totale innamoramento, come coda di una lunga carriera in cui il quinto disco non fa altro che raccogliere, seminare, inventare dalle ipotetiche oscillazioni umorali un impianto definito, preciso, una invasione di corsia del nostro finto equilibrio.

Tabula rasa sì, ma piumata, ossigenata di algida bellezza proteica, in mezzo al circolo di emozioni che sono solo la coda di un palazzo mentale che verbalizza istinti, radiose giornate in penombra e la fatica di manifestare il talento di queste composizioni che attraggono il battito verso la fatica del contenerle tutte.

Più intimo, meno sognante (pare un ossimoro, una bestemmia, ma prima o poi capirete che non è così…), crudo con la malinconia che sottolinea la potenza di queste gocce che, anche quando cadono forte, sanno usare il rumore come una piuma inzuppata di sole…

Elizabeth Heaton e Rowan Burn sono due fate che ignorano il successo, le pose, i bisogni pubblici che seminano solo dispersioni. Loro raccolgono i respiri, i pensieri, e, con una frusta da cucina, fanno condensare la loro intima ricerca in un casco dorato dove tutto viene amalgamato e messo nel frigo del cuore. Sono cresciute, hanno generato pillole sonore non come figli ma come pennelli e colori da gettare nel vento. Ora più che mai vivono di giochi continui, un andare e venire dal nucleo delle forme, un utilizzo attentissimo delle diramazioni, nel quale post-rock, progressive e shoegaze si incollano alla materia della penetrazione mentale, operando la scelta che ogni bisturi sia capace di non fermarsi sul primo strato della pelle di queste canzoni. Questo spiega l’intensità, la contenuta esplosione per generare, piuttosto, un fragore più silente, circostanziato dal bisogno di usare le note come colla, come carta su cui scrivere un dna incontenibile: quello della descrizione. 

La volontà di chiamare a sé Michael Hamilton, anche lui polistrumentista e produttore, ha permesso l’ampliamento della fase di scrittura dei brani, come se davvero un membro in più rendesse questo “concerto” che è Cold Waves Divide Us un irripetibile scambio di doni, in un periodo non di grazia bensì di reali capacità in cerca di un fissativo permanente, per permettere a questa esibizione dal vivo di non terminare mai.

Ci si ritrova nella visione del mondo, nella serratura di una porta dove ognuno di noi vive la segretezza della sua esistenza, nella discarica di sogni sbiaditi, di volontà prive di mordente per poi anestetizzare la gioia al fine di farla rinsavire con queste piccole note che, incastonate, diventano massi pieni di fiori di montagna, in volo, incantato e incantevole, senza fine.

I tre sono l’imbuto nel quale cade ogni lacrima, ogni intima resurrezione emotiva, perché sanno scavare nelle peripezie delle singole espressioni delle note musicali, per correggere invece la scelta non astuta della musica contemporanea di cercare il successo. La vera arte dà sempre le spalle al pubblico…

Cunei, petardi, baci col rossetto blu e damigiane di vino entrano in queste canzoni per inebriare, stordire, commuovere e fare dell’ascolto un inferno roteante.

Musica eterea che scalda il fuoco sepolto nelle vene, adrenalina che esce dall’anestesia di ascolti mediocri, elaborazioni continue sulle strutture che rendono ogni secondo di ascolto un millennio nei battiti del nostro cuore. Angeli storditi, che vagano tra le culle di bisogni a noi non concessi, riproducono incanti e suggestioni, disegnando impeti e riflessioni, congiuntamente.

I movimenti, le torsioni, le conduzioni delle chitarre si legano agli archi, al drumming raramente potente, al basso che misura la condizione di forma dei sogni e li sorregge e poi all’espressione dell’ugola, su cui prima o poi il Vecchio Scriba scriverà un libro.

Ma, diversamente da tutti i colleghi, vorrei sottolineare che le parti musicali sono il vero pozzo pieno di petrolio, la miccia della voce, un abbraccio che consente a ognuno dei membri della band di esplorare un universo diverso. Certo, la sua è la migliore degli ultimi vent’anni e il suo cantato è di una   bellezza semplicemente devastante, incontenibile, la madre di ogni lacrima dai brividi accesi, una molla sensoriale che imbratta il viso di liquidi in dispersione continua.

Ma non è sola. Non solo lei conquista e penetra. Si deve avere il coraggio di affermare che la musica perfetta suggerisce alla voce perfetta di stare sul medesimo palco e di portare l’ascolto laddove la mediocrità non ha accesso.

Arte come nuvola in attesa di un tuono, di un tuono in attesa di dormire su una nuvola, con un pianoforte in mezzo e degli archi a sillabare vocali desueti, nella fantasia di un incontro inverosimile. 

Non è Dream Pop, non è gotica, non è un genere: ciò che è rimane relegato al mistero. Pellicole di film mai esistiti, dipinti in una bottega lontana dall’accessibilità, consentono al freddo contenuto nel titolo dell’album di tremare, di divenire frammento frenetico, di far evaporare le pretese e di conturbare l’animo. Incalzante, incastrato nella pillola magica del non conosciuto, questo percorso di note crea sinfonie prog in modo velato, tuffandosi nella modalità del goniometro e dell’inchiostro: definire, senza sbavature.

La grazia, la piuma che non accelera troppo, il dondolio della voce tra graffi e grappoli di svisate, introducono il pensiero in una locazione mai considerata prima: la confusione dello smarrimento davanti a questa bellezza insostenibile.

Gli archi, i synth, non solo aleggiano ma puntano i piedi, reclamano spazi e penetrano i timpani con quella dolcezza che disarma e sovrasta. Uniti alla voce e alla chitarra diventano piombo con i petali in bella vista…

L’avanguardia, l’originalità sono terreni che appartengono alla memoria (in ambito musicale sicuramente), ma quanto è bello constatare l'eccezione che vive in questo sciame, in questo alveare, in questo ruggito dalle corde gentili?

Armonie evocative, lampi di note, colpi di basso sincopato, patterns quasi invisibili e poi il lampo, in un sudore del sangue che dalla Scozia parte per fare un bel viaggio dentro la nostra oscena ignoranza. Ecco, quindi, questo disco divenire il maestro di una gioia perversa.

Il suono è onnivoro, divora le pareti del pentagramma, e descrive perfettamente quanto tutto derivi dalla musica classica, da quel pentolone che ancora oggi fa bollire l’acqua dell’arte musicale, senza tentennamenti. La quiete disturba chi vive maremoti, lo spettina e lo fa imbestialire. I tre, giovani marmotte nella foresta del dolore, cercano le foglie per far diramare le pellicole intuitive, oltrepassando i confini del conscio, immobilizzando l’inconscio,  per poi stabilire i turni di lavoro dei pensieri che nascono, si inseguono, ci inseguono, e ci abbattono.

“Fredde onde ci dividono”: questa la traduzione del titolo, un inganno, una verità, una precisazione, un perfetto escamotage per convogliare l’attenzione  sui rapporti, con se stessi, con gli altri, per creare una giungla emotiva nel polo artico. Il freddo non scioglie bensì sceglie solamente la temperatura migliore per conservare e, quindi, per ricordare. E l’album ci ricorda di come gli antichi fragori abbisognassero di un richiamo, come una cocaina mentale da tirare su, nel nostro cervello annebbiato.

Piangere è un regalo che l’anima offre alla tua convinzione di essere più forte di ogni cosa. Quando le canzoni cambiano il tuo umore e il flusso di pensieri diventa intollerabile e ingovernabile, allora ti rendi conto di trovarti davanti a un potere enorme, non uguale al tuo e quindi fai i conti con una fragilità enorme. In questo caso positiva e capace di renderti un pulcino nel suo primo giorno di vita. Queste sono informazioni ignote, non brani, pillole di atomi in una sfera quadrata, non brani, fiamme gassose in cui svenire per la bellezza e sicuramente non per la loro tossicità, ma mai brani: sarebbe ridurne il valore se pensassimo questo. 

I Midas Fall giungono nell’emisfero del vuoto: il loro sublime talento (non toccabile, ma fruibile solo a patto di non entrare nelle loro discariche gassose), scende nel perimetro della perfezione con l’unico vero Capolavoro degli ultimi dieci anni musicali.

C’è un noto e un ignoto che insieme squarciano il certo e lo programmano per una fuga doverosa.

Se proprio vogliamo considerarlo un album, diciamo pure che le moltitudini forme di comunicazione qui vengono assemblate e amalgamate per lasciare del tutto esterrefatti. 

Spostiamo la luce, dietro le nostre spalle, ed entriamo in questi crateri floreali, uno a uno…


Song by Song


1 - In the Morning We’ll Be Someone Else


L’inizio di questo capolavoro è un’indagine della forma stilistica, un accenno dei nervi, un battipanni che fa cadere la polvere: asciutto, melodico, nucleare nell'effetto di una intimità che frana, utilizza l’atmosfera del sogno, con la lentezza e il drumming che tenta di fare avanzare i pennelli di questi fragori tenuti lontani, mentre la voce prende per mano la parte elettronica del pezzo, nell’avamposto chimico di un’eterea manifestazione di luce che se ne va, abbandonando ogni paragone con quello che la band aveva scritto in precedenza. Ouverture e tortura: si piange subito con la chitarra shoegaze che alza le note verso un cielo lontano…



2 - I am Wrong


Il ritmo entra come lo spettacolo di una foresta decadente in fase di contenimento: il piano prospettico è quello di una corsa, invece, sebbene la cadenza musicale suggerisca una danza tribale, la tristezza e la malinconia governano queste pillole di chitarre antiche, molto prossime ai primi anni Ottanta, in cui per dire molto bastava poco… La coda del brano è un circuito elettrico di nuvole e drumming che ipnotizza la forma canzone, per concedere il ritorno di Elizabeth che rende giustizia con la sua disciplina vocale.

Diversi i generi musicali che qui fanno la muta, si incrociano per poi essere spettatori negli ultimi secondi dove tutto diventa sintesi…



3 - Salt


Memorie di Evaporate tornano, ricordandoci il loro ultimo album di cinque anni fa: vi sono composizioni nate per essere frastuono dentro la sei corde, con il supporto di vocalizzi eterei, archi quasi pudici e l’orchestrazione che passa dall’antico al moderno con disinvoltura, per poi divenire una pillola del post-rock più addentro alla tristezza e alla miseria…



4 - In This Avalanche


I testi di Elizabeth sono punture, la musica il tessuto su cui lei spazia nella sua contemplazione dolce e gentile solo all’apparenza. Un carillon, sotto forma di loop, spiana la strada a una armonia che centellina le energie, per poi esplorare il cielo quando la voce si chiude nel silenzio. Il pianoforte e il synth fanno l’amore con una chitarra che odora di Dream Pop ma scevra da condizionamenti. E infatti non manca l’appuntamento con un’attitudine fantasiosa che la porta altrove. Una ninnananna sa essere anche una perfida ma incantevole freccia…



5 - Point of Diminishing Return


L’unico brano strumentale è invece un coro gregoriano atipico: tutto si eleva alla preghiera, moderna, atea, sganciata dalla fede, per divenire un parto di post-rock vicino a quello dei Leech, per dare alle note uno spazio su cui inserire inserti e trame che ne concludano il percorso inventando la regola del limite improvviso. Glaciale, austera, di una tristezza sublime, la canzone fa da ponte perfetto tra la prima parte dell’album (attenta e premurosa) e la seconda (rantolante con un giacca di seta tra i capelli), al fine di stordire i sensi e captare l’attenzione: dove una splendida voce si assenta può esistere una musica che ne riproduce l’effetto e ciò accade, inesorabilmente, in questa occasione…



6 - Monsters


C’erano una volta  i Mazzy Star. I Low. E una pletora di band che cercava la voce per perfezionare il percorso artistico. Accade, in questo caso, che due universi paralleli si frequentino. Nell’attesa tutto diviene uno straziante episodio in cui le chitarre guardano l’orizzonte sottile tra post-rock e shoegaze per divenire la forma progressiva di un rock antico. E quella di Elizabeth uccide ogni ritrosia, sino ad appannare il vetro di singhiozzi dati dal rullante e dalle chitarre in esplorazione gassosa…



7 - Atrophy


Dove finisce il cielo vive Atrophy: il senso di morte tra le bolle di un cantato che violenta il cuore e un’orma di chitarra che avanza sino a divenire un sogno etereo e rarefatto, ci convincono che questo episodio sia talmente in grado di distruggere le difese che l’anima si concentra nello straziante commiato di forze in caduta libera. Un mantra che lascia le bave nel mattino di una intuizione clamorosa: disegnare per davvero il luogo in cui tutto finisce…



8 - Cold Waves Divide Us


La sintesi, la profezia, la ventata passionale di un giorno in cui si stabilisce il contatto con il disagio: questo brano è la cassaforte del nuovo impeto della band, la sonda che dalla lentezza e dalla precisione concettuale esce allargando il ritmo, il perimetro visivo, e fa brillare il loop e il delay della chitarra per concentrare una verità musicale per loro indiscutibile, che è quella di non ripetere mai un giorno di pioggia senza concedersi ingressi multipli. Ecco che allora i generi musicali qui presenti sono diversi ma, data la fattura della composizione, nascondono il naso lasciando intravedere solo le braccia…



9 - Little Wooden Boxes


La natura diventa nota musicale.

Il respiro degli strumenti un battito di ciglia.

Parole come cigni in un volo inquinato.

Ciò che vive nella penultima composizione dell’album è un rafforzativo, gentile e pulito, della cifra stilistica di questo incredibile viaggio: dilatazioni, incursioni di singoli accordi e la lentezza della progressione così vicina al Post-Rock senza però entrare in quei parametri. La voce, con la sua modalità evocativa, esplora la progressione senza seguirne le ombre, ed è miracolo puro di un combo perfetto…



10 - Mute


L'incipit è cavernoso, un rottame su un’onda nervosa, un malessere che si affida alla voce per creare un boato breve, non secco, ma perennemente costretto dalle poche note di un piano stregato e pregno di malefica bellezza, per impedire al tutto di morire.

Non necessita di ritornelli, di espedienti beceri in quanto è del tutto simile alla modalità tipica dei vecchi Bad Seeds di Nick Cave: dare al basso lo scettro e poi investire sul mantello fluorescente di un apparato musicale che lo supporti. 

Per approdare alla dilatazione, alla duttilità dello Shoegaze che governa il mistero e al Post-Rock, qui in veste di mago contenitivo.

Sacra, vergine, nefasta nell’accezione positiva, la canzone chiude come una goccia di rugiada questo Capolavoro: si festeggi la bellezza tra il roseto di lacrime senza fine…


Alex Dematteis (Vecchio Scriba - Old Writer)

Musicshockworld

Salford

7 Dicembre 2024


https://open.spotify.com/album/7HE5PoausnMjJAoco3miw2?si=V95H52lZQR2Q9v5PtT94zg


https://www.midasfall.com/home




 







lunedì 1 luglio 2024

La mia Recensione: Boulder Fields - With All the Other Ghosts




Boulder Fields - With All the Other Ghosts


Anche i musicisti hanno un pedigree e spesso è la base di una serie di sicurezze che avvolgono l’ascoltatore togliendo paure e incertezze. Quello dello scozzese Cam Fraser è impressionante, una meravigliosa cavalcata nei territori di ciò che è difficile da definire ma di cui, facilmente, ci si ritrova a godere con grande semplicità. È proprio quest’ultima che circonda, definisce e trasporta l’esperienza della sua musica verso una forma di rilassatezza davvero notevole. Siamo nella zona di un indie folk accogliente, gentile, educato, abile nell’approcciarsi anche ad altri generi quasi di nascosto, con classe e gentilezza. Si trovano, quindi, disseminate lungo le undici farfalle piene di onde sensuali e talvolta lievemente malinconiche, tracce di lo-fi, di un folk che pare graffiarsi con miscele rock, ma sempre sottovoce. Il fuoriclasse di Edimburgo si fa affiancare da musicisti che riescono a esaltare la minimalistica ondata di canzoni per far sembrare il tutto il frutto di una band con migliaia di anni di attività alle spalle, quando invece si tratta di un esordio, almeno con questo nome. Il Vecchio Scriba sottolinea come il mondo paia attraversato da questi paesaggi, da questi protagonisti di storie che ti incollano in una riflessione accomodante e profonda. Molto accade con pinte di birra, tavoli affollati, sguardi lunghi, le mani che afferrano le zolle di terra dei parchi e la sensazione netta che gli strumenti traducano le oscillazioni di queste esperienze di vita. Tutto profuma di permanenza nel reale, senza tentazioni ma assumendosi la responsabilità di dare dignità agli accadimenti. Cam sussurra, canta con la voce matura sfiorata da magneti magici, con la capacità di modularla con grande tecnica, usando bene i cori, mai invadenti, mentre il pianoforte, il mandolino, la chitarra acustica e l’organo sono i condottieri di strategici flussi pieni di calori, bersaglieri dalle piume colorate che fanno la loro splendida figura sia nelle storie cittadine sia quando gli spazi offrono la gioia della natura. Il basso acustico è uno stupore continuo, come le spazzole della batteria, che sembrano pilotare le ondulazioni verso l’applauso delle nuvole.

Caldo, fisico, metafisico, emblematico, essenziale, l’album offre panoramiche mentali, visive, in un affollato collettivo di sentimenti in costante ebollizione, dove il sale lo getta proprio Cam con la sua esperienza maturata in tutti questi anni, nei quali ha trafficato con la sua vecchia band The Cateran, supportando nel 1989 i Nirvana nel Regno Unito. Ma nessun caos, nessun disagio da rovesciare nelle nostre orecchie, bensì messaggi portati da piccioni educati alla pazienza, allo storytelling più sensuale che si possa immaginare…

Non ci sono canzoni da preferire, ma un insieme di fascinazioni da conservare sotto la pelle aspra della nostra realtà: se cercate una solida collaborazione con il benessere, questo lavoro vi renderà davvero contenti…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1 Luglio 2024


https://boulderfields.bandcamp.com/album/with-all-the-other-ghosts



 

sabato 18 maggio 2024

La mia Recensione: Man of Moon - Machinism


 

Man Of Moon - Machinism


Sono comparse, ormai da diversi anni, nuove rivalità, coesistenze problematiche ad appesantire le nostre esistenze, a rendere le relazioni individuali e di massa estremamente complicate. L’avanzamento della tecnologia, l’immobilismo fisico e mentale, con la conseguenza di una massiccia dose di pigrizia stanno generando tensioni che è impossibile non vedere e sentire.

Parte di tutto ciò confluisce nello strepitoso secondo album della band Man Of Moon, titolare nel 2020 di un lavoro a lunga distanza che aveva permesso alla gioia e allo stupore di abbracciarsi e quell’effetto dura ancora oggi: Dark Sea è stato uno degli esordi più significativi degli ultimi anni. 

E dopo quattro, Iain Stewart (il nuovo batterista) e Chris Bainbridge (voce, chitarra, basso, electronics), offrono un lavoro perfettamente accordato ai temi sociali affrontati e a musiche che sanno spaziare in modo sopraffino, trovando il modo di dare lievi segnali di continuità con il primo lavoro, ma soprattutto la volontà di creare un tema sonoro che specifichi intenzioni e direzioni, un laboratorio a cielo aperto, un'indagine, una metamorfosi, un lento cammino nel cuore di fantasie e bisogni perfettamente in sincrono.

È un lungo sguardo all’interno delle immagini, delle abitudini, di ciò che è mutato e ha portato all’eccesso il bisogno di porre se stessi costantemente sotto i riflettori, con la conseguente morte della privacy, del pensiero profondo, consegnando il tutto nelle mani spietate del Mercato, con i valori antichi che esalano gli ultimi respiri e quelli nuovi che sono ad appannaggio di una nuova gioventù non più in grado di rimanere connessa con quella più vecchia.

L’album è una scudisciata, gentile, una morsa sonica dentro le abitudini, un evidenziare gli sconvolgimenti con lo sguardo che fa da base ad atmosfere che spaziano tra il cupo e l’allegria: Chris e Iain non vogliono consegnare un atteggiamento dimesso ma essere messaggeri dotati di forza, coraggio, togliendo alle allucinazioni e agli estremismi spazi pericolosi e dannosi. Musica per educare, per cercare un contatto diverso per creare presupposti di miglioramenti che possano far scattare nuove strategie, anche attraverso la danza, antichissimo sistema per compattare le anime.

Per fare tutto questo l’utilizzo degli strumenti, gli stessi dell’esordio per intenderci, qui trova la raffinata capacità di estendere i colori, i suoni, con l’abilità di convogliare pensieri in emozioni limpide, seppure anche mediante una inevitabile dose di drammaticità. Ma si sente il progetto, l’intenzione che scorre dentro gli undici episodi, per creare un mood e un mantra che tiene alta la tensione, un urlo educato che mette addosso quei brividi capaci di non lasciare impassibili le menti all’ascolto.

 Cresce la sensibilità, l’accortezza di adoperare dosi di impianti razionali che non siano fraintesi, facendo in modo che l’insieme sia un’opportunità, innegabile, per compiere un balzo portentoso verso  qualcosa non fatto in precedenza, non necessariamente da definire ma che di sicuro bisogna vivere, creando il terreno di una novità che renda il comportamento univoco, dando una bastonata all’eccessivo desiderio di libertà, un leitmotiv che alla fine è la causa di quasi ogni male odierno.

Viene riesumato il rispetto, l’orgoglio dell'intelligenza umana che vuole rifiutare quella artificiale, anche se accoglie la seconda, ma stabilendo confini diversi. Un lavoro estremamente accorto, profondo, talmente efficace da lasciare completamente sorpresi, sconvolti, con alla fine dell’ascolto l’urgenza di dire basta e di tirarsi su le maniche.

Le composizioni arrivano sull’epidermide per poi entrare nei circuiti venerei, nei labirinti del pensiero, nelle ossa che decidono danze frammentate ma possenti, uno scuotimento continuo senza pause: non sono di certo le canzoni più lente che concedono la calma, perché nulla di tutto ciò esiste in questo fragoroso album, che nulla è se non una slavina gentile ma impossibile da fermare da parte nostra, con il risultato di gridare all’unico miracolo attuale generale necessario, che è da stabilirsi nel risveglio della coscienza, uscendo dall’avvelenamento e dal successivo torpore.

La luna qui è per davvero divisa in due e l’uomo che la guarda deve muoversi, cambiare prospettiva nello sguardo, pensare alla sopravvivenza della ricchezza vera, quella integra, e farsi scuotere dai raggi che arrivano da lì, senza nessuna resistenza. Sempre più isolato dal contesto sociale, l’essere umano di Machinism può godere di una concessione fragorosa e importante: vedere per davvero le distanze, il senso dello spazio interiore ed esteriore, e cercare dentro di sé quelle capacità che rendono il contatto l’unica forma di salvezza possibile.

I flussi musicali sono la base di ispezioni importanti, di generi che si mischiano cercando la propria elevazione, in un circolo terrestre dove melodia, armonia e ritmo vivono un gemellaggio intenso, consegnando canzoni che, oltre ai pensieri e alla danza, sono in grado di consolare, di vedere la band conservare le proprie iniziali radici ma con la grande volontà di disegnare nuove trame, ispezioni, per quelle possibilità stilistiche che conferiscono, in modo innegabile, un applauso massiccio. Tante novità, un sali e scendi di “giochi” siderali, perlustrazioni che finiscono per consegnare un’ossatura davvero miracolosa, per fare di quest'arte un clamoroso appiglio, senza sbavature. 

L’elettronica vive una nuova stagione, meno separata dalla struttura rock/indie/alternative, per un connubio che mette radici diverse, offre il gancio per connessioni desiderate ma impossibilitate, prima, di divenire una devastante realtà. Iain esalta la ritmicità, creando spazi innovativi, in grado di unirsi alle praterie sonore di Chris in un combo che avvolge, semina nuovi sogni diversi che in pochi minuti risultano essere reali e credibili, in una corsa sensoriale che esalta, perfettamente, una geniale macchinazione preventiva.

Il basso e la chitarra sono uniti maggiormente rispetto all’esordio e le basi di tastiera sono meno isolate, meno appariscenti ma più consoni a un messaggio unito, che parte proprio da ciò che si ascolta nella sua interezza, finendo per far emergere una complessità che scivola perfettamente nella gradevolezza. La forma principale è quella di far diminuire il desiderio della strofa e del ritornello, per far concentrare l’ascolto maggiormente nei segnali, nei suoni, nelle dinamiche, nei flussi che sembrano diventare materia, secondo dopo secondo, con un elevato controllo delle strutture espressive.

La produzione, eccelsa, valorizza una sensazione generale che è più intuitiva che pratica, un non concept album sonoro che pare tale, per compattarsi perfettamente con i testi che sono decisi, spigliati, energetici, determinati con pitture di versi poetici che incantano e sorprendono. 

La prima parte di Machinism vive di maggiori espressioni di elevate propensioni ritmiche, dove la velocità è un’urgenza metodica bilanciata verso la comprensione dei messaggi. La seconda, dove non manca di certo il ritmo e una certa “aggressività” sonora, pare essere un sonno agitato, un viaggio nelle attività oniriche che debbono essere interrotte in quanto c’è un compito da svolgere in fretta. Perfettamente unite queste due sezioni, si capisce immediatamente che l’ordine delle canzoni ha comportato un buon lavoro razionale, per un risultato che evidenzia genialità, capacità e l’individuazione di quell’aspetto culturale che la musica di oggi pare voler non considerare. Ma i due ragazzi di Glasgow hanno le spalle larghe, un intuito sveglio e brillante, intenzionati a essere non compagni di ascolti bensì gli ispiratori di nuove vitalità, in un’urgenza gravida di scintille e raggi lunari perfettamente amichevoli.

Armiamoci di curiosità e tuffiamoci in questi undici episodi: c’è la bellezza che ci aspetta, a braccia aperte, piena di fiducia nei nostri confronti…


Song by Song



1 - RISE

L’atterraggio sul pianeta Bellezza inizia con lo stile della band subito riconoscibile, il suono della chitarra lungo che fa da collante a un senso di attrito che affascina e scuote allo stesso tempo e poi via, con una tribalità rock che strizza l’occhio a una sperimentazione elettronica appena accennata. 

Magnetica.



2 - YOU AND I

Terz’ultimo singolo prima dell’uscita di questo secondo album, ha la capacità di dare alla modalità del canto la facoltà di catturare l'attenzione per poi approcciarsi a una forma espressiva vicina allo space rock meno marcato. Cupa, elettrica, sensuale, la canzone ci fa compiere un salto temporale vistoso, con gli anni Settanta a marcare quanto non siano necessari molti cambiamenti per rendere interessante e valido un brano. Nel finale l’atmosfera vive splendide alternanze ritmiche.

Sexy.



3 - SWIM

Atomi iniziali di Industrial ed Ebm per poi diventare una torcia che contempla solarità e ritmicità con la pelle della psichedelia che corre insieme al ritmo, per una danza ipnotica che tatua la melodia breve nel circolo dell’eternità. I Suicide applaudirebbero, così come i Front 242: da una minimalistica forma di approccio a un’era ormai superata, i Man of Moon colorano istinti e pulsioni con un riff che inchioda al muro.

Vistosa.



4 - VIDEO

Nel penultimo singolo si rimane folgorati dal perfetto equilibrio tra il ritmo e l’atmosfera, che sembrano ambienti separati ma con innesti magici che ci fanno vibrare regalandoci una sensazione di grande preoccupazione e melanconia, dove la realtà viene trasportata attraverso questa minimalista forma espressiva. Dal sapore tragico, spaventoso, potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un film di Akira Kurosawa, perché permette alla paura di essere un compagno intelligente, utilizzando gocce di Krautrock e brandelli di psichedelia.

Devastante.



5 -  TIME

Tocca all’ultimo singolo definire la maturazione, la progressione, i nuovi spazi visivi e sensoriali che la band vuole maneggiare, mediante una forma robotica che contempli un cantato che pare piangere senza troppo dolore, donandoci una strana sensazione che è quella che ci fa innamorare di questa canzone, la quale non è nient’altro che un gioiello misterioso che mette in disordine il nostro tempo. 

Magica.



6 - THE TIDE

L'iniziale approccio ci porta in casa dei Velvet Underground per poi scappare via, lentamente, nei crateri di una sospensione che toglie il fiato. Con la lentezza la melodia del duo diventa un’aurora boreale, uno spettacolo infinito. E quando un brano semiacustico ci rende magneti in stato di contemplazione, allora possiamo affermare che la band sa come paralizzare le convinzioni, generando uno splendido marasma interiore…

Ipnotica.



7 - IN THE WATER

Ecco il combo che scrisse lo splendido Dark Sea ricordarci quell’album attraverso un imbuto di nervi tenuti miracolosamente in piedi dal loro carisma, dalla capacità innegabile di sospendere le atmosfere, di essere espressione di una nuova melodia in trasformazione, allegando una ritmicità che trascina senza mai esplodere.

Miracolosa.



8 - REIGN

Nevrotica, drammatica, esplosiva con stile, fascio lunare in uscita dalla propria orbita, la canzone è una frustata baciata da coralli elettrici, un alternative che cerca legami con l’elettronica che si affaccia ma non contamina, per conferire al tutto una sensazione di sacralità moderna.

Misteriosa.



9 - MACHINE THAT BREATHE

La lacrima più incandescente esce da note magnetiche di un piano che subito ci fa sprofondare e ci rende obbedienti, per poter ascoltare un dolce tormento che scaturisce dalla voce sussurrata di Chris, qui il magnete che stordisce senza alcuna esitazione. Circonda i sensi con il suo tono quasi dimesso, un applauso con i guanti di seta, che trasferisce un dolore cercando e ottenendo una dolcezza come consolazione…

Fragorosa.



10 - RUN AND HIDE

Uscita nell’ottobre del 2021, la canzone conosce un accattivante ritocco, una maggiore propensione al misticismo, una preghiera caustica, una introversa preoccupazione che arriva alla constatazione del dubbio sulla nostra sopravvivenza, mentre la struttura minimalista, con la chitarra finale a stordire l’amarezza, fa di questa composizione la stella polare che ci guida verso la nostra ultima possibilità di comprensione…

Lunare.



11 - THE WILD

Lo stupore maggiore arriva con il brano di chiusura, una genuflessione che prevede una decadenza anomala, un vortice che assomiglia a un sibilo, con le note della tastiera del piano (circondate da un synth spettrale che ipnotizza l’atmosfera) a essere un canto triste che precede quello di Chris, in un idillio che spacca il cuore, un avamposto di una tristezza che non ha appigli ma rilascia tossine in grande quantità. Un cantato mai espresso in precedenza, capace di essere un’altalena nel vento, un andare e un tornare graffiando la nostra anima con una strana dolcezza. Poi il suo finale, nebulosa chimica in trasparenza, ci offre l’ultimo pugno in faccia…

Ingovernabile.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18th May 2024


Lo potete prenotare qui:

https://manofmoonband.bandcamp.com/album/machinism-2


Written and Recorded by Man of Moon 
Produced by Man of Moon and Paul Gallagher 
Mixed and engineered by Paul Gallagher 
Mastered by Ryan Shwabe 
Artwork by Peter Kelly

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...