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venerdì 17 marzo 2023

La mia Recensione: OBWSESSION - Mind the gap

 OBWSESSION - Mind the gap


Il Sud dell’Italia che vive malinconie e ambasce, e che non sempre è pieno di sole, che gravita dentro morbide zone come strisce di grigio, viene portato alla luce della nostra ignoranza dal talento puro di Alessandro Diciolla.

Il ragazzo della provincia di Bari scrive, con questo brano, un melodico tributo all’attenzione, emotiva e cerebrale, frutto di un albero che cresce sul suo petto, e che fuoriesce attraverso un dettato di suoni raggomitolati dal cammino di foglie di musica grasse che saltano sui tasti di un piano e l’abilità di richiami Neo Folk, dati da un sapiente utilizzo di fruscii e l'intervento dell’elettronica.

Ci si stringe in un sospiro: una punta di dolore precipita in queste note, ma nulla di cui avere paura in quanto la musica è veloce, rapace e capace di trovare l’allegria sui suoi tocchi che mette bene in fila.

Tutto è mistero: il mittente scrive al cielo con un indirizzo che non si può certificare, non possiamo immaginare un ipotetico ricevente se non il suo stupore, il suo danzare con questo approccio jazz che mostra l’interesse, la voglia, la capacità di respirare il desiderio di allargare la forma canzone e di invitare a bordo chiunque possa sognare di baciare le nuvole. Una poesia che chiede attenzione (Mind the gap…), perché se non si raccoglie una bellezza tale si può cadere e farsi molto male…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

17 Marzo 2023


https://obwsession.bandcamp.com/track/mind-the-gap




venerdì 28 ottobre 2022

La mia Recensione: Lalli - Tempo di vento

 Lalli - Tempo di vento


Carcassonne

“L’unico castello costruito
 verso l’orizzonte è quello degli uccelli.

L’altro è un rifugio per i poveri
 che sempre esigono autorità

mettendo in scena il teatro delle cameriere
 nelle voci nascoste della sera.

Il trovatore inzuppava il pane nelle fontane,
nelle taverne più nascoste,

beveva da quell’altro campo,
 prelibato come la merda dei re.”

Juan Arabia


Esistono anime protette, perché non possiamo infierire su di loro. Per volontà celeste. 

Anime pregne dell’essenza del tutto cosmico che hanno avuto il compito di illuminare gli stolti, di seminare la verità degli abissi, di glorificare i doni avuti.

Uno di quelli è la voce, la prima porta di comunicazione. 

Poi la scrittura che passa attraverso quella voce.

Lalli è piccola, come Samira (una sua canzone), di quella statura che ti porta a guardarla dall’alto verso il basso vedendone i piedi per primi, la radice di ogni gravità. Lei ti porta alla genuflessione della coscienza, particella siderale il cui destino è quello di abitare le anime profonde. 

Lalli.

L’inizio di un canto che è preghiera pagana, spirituale, generosa, calda, scuote e abbraccia e genera il bisogno di abbandono.

Donna dalla carriera immensa ma poco nota, ha sbeffeggiato il successo sin dalla tenera età: altri erano i cieli a cui lei ambiva e ancora li segue, raggiunge, descrive.

E dopo la formidabile palestra di vita dei Franti e alcuni passi in altri progetti, eccola aprire i suoi forzieri, metterci le mani e pilotare l’arcobaleno verso la perfezione. In una fascina dove i colori della temporalità vengono accesi, sparsi verso acute osservazioni, riportati dentro il suo cuore e poi direzionati verso Lei, la sua voce, impianto al di fuori di ogni definizione.

Lo fa con un album che continua a sconquassare, a nutrire, un uragano che con la sua maestosa bellezza concima mentre straripa nel cuore, nella mente circondata da una umanità unica e quindi intoccabile.

Perché non si tocca il vento.

Lalli lo prende e lo incolla dentro noi con canzoni come fiori di assalto, una sommossa per far scongelare le nostre pochezze. Sono undici folate atte a svegliare i sentieri fatti di diverse guerre e dove uguaglianze e mancanze di rispetto attraversano la sua penna per erudirci, informarci, svegliarci.

Perché il tempo non dorme mai e lei sveglia il vento per farcelo sapere.

Un album scritto da un’adulta con la saggezza di una bambina, una scrittura che mostra tutte le diramazioni che un sole nasconde solitamente, per desolata complicità di esseri umani così lontani dalle vicende quotidiane che loro stessi causano.

Lalli mastica e sputa pallottole, la forza delle donne che hanno rughe più marcate perché chi partorisce la vita soffre di più. Lalli cammina e lascia orme, mentre Pollicino mangia la sua maturità che viene sparsa dal vento…

E allora la sua potente propensione a non disperdere le gravità dell’animo umano la conduce ad abitare dentro la responsabilità di essere un respiro che alza per un attimo lo sguardo con testi che, tra poesia e mistero, arrivano alla nostra mente, sperando che il tempo del vento sia in grado di far nascere una scintilla intelligente.

Canzoni come bombe, che finiscono sulla neve che nulla può fare se non testimoniare la follia lasciando tracce di sangue sulla sua pelle. 

E poi l’amore.

Sceglie e prende Marlene. 

E basterebbe già questo.

Invece lei cammina lenta, dentro ogni rosa, per mostrare l’orgoglio e il diritto di esseri con identità mai davvero conosciute del tutto.

Racconta la vita con storie antiche dentro questa attualità violenta e ossessionata, dove ogni contrasto sembra generare entusiasmo e perdizioni. Come sempre, l’artista Astigiana si oppone, come una fiaccola dentro una bufera, destinata allo spegnimento, ma lei ha la forza di riaccendersi ogni volta, in ogni canzone, in ogni nota che la sua voce permette. Ed è un delirio di incanto struggente, la consapevolezza che in quella donna dalla bassa statura fisica esiste un infinito di concreta capacità di analisi che la rende vasta e immensa come la volta celeste.

"Tempo di vento" è il miracolo che la canzone italiana quasi quasi non merita: dove tutto è fatto per stupire, per portare consensi, qui invece abbiamo la maturità che vive da sola e si dissolve nel silenzio dell’indifferenza generale. Talmente potente che viene abbandonato sui pochi scaffali dove faticosamente è arrivato, al limite ascoltato e poi lasciato nella polvere, che mangia l’anima. Ma di cosa è fatto questo viatico?

Degli elementi della natura che si stringono dentro la necessità di una convivenza con l’unica bestia che ha distrutto il sogno, quell’uomo capace di creare catastrofi non necessarie. E lo spirito anarchico di Marinella continua a esistere, per una necessità che la rende sempre più piccola, sempre bella, sempre ostinata nel non cedere di un passo, malgrado quegli elementi sempre di più cancellati dal vento umano.

Simboli, immagini, racconti, memorie, l’amore che fa impazzire, la crudeltà: lei ne rimarca la validità, la presenza, per seminare speranze che arrivano solo dopo attente riflessioni. 

La musica di questo album è un vestito di perle, di scorie, di arpeggi, di arrangiamenti celesti, di schegge che lacerano la pelle, di generi musicali che attraversano i versi per portare la sua interpretazione verso l’eternità, in un matrimonio artistico che ha l’appuntamento con l’autenticità e la speranza. Ogni nota entra chiedendo permesso, un gran lavoro di limatura trasferisce un’unicità dentro il nostro abbraccio, tra oriente, occidente e il sud del mondo. La storia parte con la guerra e la musica non fa che evidenziarne le gravità, le bassezze. Quando è il futuro che necessita respiri, ecco che l’apparato sonoro dipinge l’atmosfera e le giuste propensioni per donare agli occhi di Lalli il terreno che si fa ancora più fertile. La luce e l’ombra entrano nell’aria dagli strumenti che sanno perdonare i nostri fragori illuminati dalla violenza, per riuscire a perfezionare ogni intenzione che l’ex cantante dei Franti cerca di fissare.

Gradevolissimo l’ascolto anche quando le lacrime accendono gli occhi e i battiti si fanno irruenti e spaventati, ma tutto di questo album profuma di amore, perché capire come vanno le cose è l’atto più grande che lo riveli. 

Lalli sa come fare, ci sa fare per davvero, e i suoi pugni sono poesie che cercano un orecchio, perché la sua voce, vellutata come un tuono che seduce invece di creare timore, ha il compito di spalancare l’anima. 

Non si può negare come gli argomenti trattati, la modalità, siano la legittima conseguenza di uno spirito indomito, e anche questo è l’insegnamento che ribadisce la sua forza. Non spreca un centimetro della sua esistenza, continua con l’elmetto e i fiori a calpestare le chiavi dei nostri guai, per farci vedere oltre lo specchio, che non va usato per riflettere una identità che non viene mai discussa seriamente. Lei lo fa con parole come sequoie, resistenti al vento, al tempo, alle banalità. Vocaboli attaccati a esigenze comunicative che hanno una scadenza, perché tutto precipita, e in queste undici tracce lo evidenzia perfettamente, mettendo gentilmente fretta ad ogni nostro gesto sbagliato, tracciando nella mappa dell’insistenza l’appuntamento con un agire diverso.

Genitori, donne in attesa perenne di un cambiamento che non arriva, bambini impolverati dalla violenza adulta, città squartate, bombe che precipitano senza sosta , giardini che si spengono tra quindici e più pietre, i sorrisi e i gesti che lei immortala meglio di un fotografo.

Questo è solo un milionesimo di ciò che si trova in questo album, terremoto allucinante per gli egoisti, l’opportunità di accendere il sole del futuro per altri, per un viaggio che cambia l’identità, un passaporto morale che va rivisto, mentre la sua ugola vibra di pioggia e polvere da sparo, esempio unico di un sentire universale condannato a essere privilegio per pochi. Nel tempo in cui i petali sono senza profumo, lei ci porta l’odore del vento, testimone di quello che accade in questo pianeta sempre più brutto. Lalli, guardiana della verità, scrive ciò che va assolutamente scritto, con il groppo alla gola e lo sguardo sempre vigile. Nulla cambia dentro la sua anima attenta e queste canzoni confermano che la sua abilità non possa avere un sorriso largo, debba divenire un fiume in piena in punta di piedi, con la fragilità che giocoforza deve trasformarsi in una proposta che scombussoli il gioco delle prepotenze.

Lei non è alla finestra per vedere il tempo passare: sale sul vento e ci porta tutto ciò che vede, dove sono certo che non vorrebbe parole ma un abbraccio silente, il migliore dei pentagrammi possibili.

La cosa che l'autrice evidenzia maggiormente in queste tracce è la necessità di vocaboli che consentano la convivenza tra l’agio e il disagio, per un processo di impegno che possa dipingere le brutture di colori colmi di sole, con la temperatura che veicola respiri morbidi e agili.

Da quel processo si arriva alle canzoni che devono essere preferite, basta che nascano al mattino anche se impazzite, ma con l’intenzione da parte di chi canta di vederle volare serene.

Indubbiamente un lavoro che farà fatica ad avere l’ingresso facilitato, dovrà alzare i gomiti delle persone che cercano nella musica il territorio del conforto, del disimpegno, di benedizione del vuoto. L’arte della musica per Lalli è cultura, opportunità di messaggi viandanti che devono atterrare, e il suo vento è proprio questo che fa. Ce li porta, tutti.

Abbiamo post-punk, alternative, respiri sudamericani, parvenze pop, jazz e blues sapientemente mascherati e incrociati a tutto il resto, echi di musica classica tra le pieghe del vento di note bisognose di essere un mappamondo stilistico senza bavagli. Del Rock si sente l’urgenza e il sudore che finisce sulla sua pelle consumata da fatiche alle quali Lalli ci dà l’accesso, e in certi momenti è proprio lui che sembra il guardiano del tempo e del vento che lei descrive perfettamente con canzoni che odorano come un incontestabile raccolto di frutti che dobbiamo saper masticare.

Ma, ancora una volta: tutto questo costituisce solo una parte, perché gli ascolti qui vanno ripetuti e precisati, senza dispersioni.

In alcuni frangenti però giunge qualcosa di morbido, di sostenibile senza dover gocciolare tensioni e paure.

E tutto questo è posto in modo vistosamente leggero, per consentire alla sua voce di volare dentro “cieli più sottili”…


Song by Song


1 Brigata Partigiana Alphaville (A mio padre)


È subito magia, tra violoncello, chitarra, basso e batteria, per un incrocio stradale di melodie e parole piene di riconoscenza. Un grazie per una memoria che costruisce rispetto e identità, dove la Storia va imparata e codificata attraverso un contatto umano che renda le anime vicine.


2 Tempo di vento


Buia, quasi cupa, la parte iniziale del secondo brano è una finestra rotta che lascia entrare panorami esistenziali pregni di fatica e abitudini che svelano il cuore mentre impazza. Quasi trip-hop, dal vestito mutante, la voce delinea la faccia triste della poesia quotidiana, per un’immersione intima che, attraverso la modalità cantautorale, ci fa ascoltare il tutto con grande partecipazione.


3 Aria di Buenos Aires


Le civiltà si incontrano sebbene esistano distanze pesanti e ingombranti. Lalli unisce Torino e Buenos Aires in un gemellaggio intellettivo attraverso arcobaleni fermi, la musica sottile, chitarre accennate e la storia che lei disegna tra le nuvole. Ci penserà quello che potrebbe essere un desueto lungo ritornello o, meglio, una strofa che cambia pelle, a dare un nerbo improvviso a un brano che gridava già dentro la testa.


4 La mia faccia


Leonard Cohen anticipa la cover che più avanti prenderà posto nell’album e lo fa per via di una brano proprio di Lalli: è magia cupa che inonda le strade, quelle delle identità che soffocano dentro i giorni. Per farlo bene la musica è un ronzio, un sibilo, con la batteria che batte pesantemente sulle verità che escono fuori dalla poetica della cantante. E la voce è una richiesta di aiuto, per scacciare la solitudine, in una modalità dirompente e raffinata. La perfezione esiste e dura duecentosettantuno secondi.


5 Fuochi I


Rintocchi di piano che galleggiano sul fiume e sui coralli, un cerchio drammatico, intimo, un canto quasi Navajo, una invocazione che diventa evocazione, sino a divenire una corsa che coinvolge gli strumenti, come una sciabolata progressiva, con il compito di amalgamare il terremoto emotivo che Lalli descrive con incredibile precisione.


6 Mostar


Quando la crudeltà sanguina sul bianco della neve…

È ipnosi che fagocita l’ascolto, tra un organo, un suono soffocante e la storia di una guerra che graffia il confine tra la gente e i potenti. Un frastuono che ghiaccia la nostra resa davanti all’inesorabile per una canzone che disegna ombre e orme in cui sprofondare. Una marcia che stanca ogni euforia, mentre la neve si ingolfa di macchie rosse e i suoni penetrano l’anima. 


7 Famous Blue Raincoat


Lalli prende il cantautore dalla penna più eccelsa e interpreta, canta, piange sul microfono dentro la poesia che veste la malinconia e la nostalgia. Ed è jazz camuffato, pieno di un'anima blues che si nasconde pure lei, mentre il sax di Stefano Giaccone viaggia sornione tra note sensuali. Si chiudono gli occhi, si viaggia dentro ciò che non si può catturare ma solo avvertire: è la poesia che dal suo trono ci guarda e racconta ciò che non siamo pronti a perdere.


8 Fuochi II (Occhi lucidi nella notte)


Il secondo tempo di fuochi che stavolta conoscono la modalità di un crooning che ci solleva dalla percezione verso la conoscenza di una storia che si conficca negli occhi nostri, pesti. Magnetica, gravemente pregna del connubio tra poetica sublime e una storia fatta di sofferenza. Tutto pare accennato, sul piano musicale, con la convinzione che l’ascolto ci porti dentro il Virus, centro sociale chiuso e che determina l’ennesima sconfitta.


9 L’uomo col braccio spezzato


Una chitarra quasi perversa lascia posto a una melodia che si ingentilisce per far entrare gli occhi di Lalli che viaggiano nell’abisso del mare. Poi accenni di arpeggio, le bacchette della batteria che battono quasi gentilmente sui tamburi sino a quando tutto si fa tempesta, per pochi, interminabili secondi. Il registro della voce sale nel cielo e noi davanti a questa bellezza ci facciamo piccoli.


10 Le donne quando restano sole


Una delle canzoni più belle di sempre arriva con l’amarezza ai lati della bocca, per sprofondare dentro la pochezza maschile e la sua violenta propensione a spegnere la lealtà. Una donna nasce e cresce con consapevolezze che la rendono estranea davanti ai giochi di potere dei maschi, e l’amore nasce proprio lì, nello stringersi senza aver bisogno di loro. Musicalmente siamo davanti ai soffi, ai sussurri di note che sanno aggravarsi al momento giusto per meglio definire certe pesanti precarietà. Un alternative rock efficace e perfettamente cucito addosso a parole che sono di piombo solo per chi è insensibile con uno dei lati della identità umana…


11 A Donatella


Questo capolavoro trova la perfetta conclusione con una ninnanna disegnata da un pianoforte essenziale, comprendenti il cantato caldo di Tommaso Cerasuolo e Rosalma per un finale toccante e profondo. Tenco  entra nella sensibilità di Lalli e l’abbraccia, consentendole l’ennesima prodezza stilistica con una interpretazione sicura, che salda l’amore mancante.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

28 Ottobre 2022


https://open.spotify.com/album/2WgWu9df1Wu4Cldrj8Ai7W?si=Eh6i-aO3T2mpgckINMsqeg





venerdì 13 maggio 2022

La mia Recensione: Area - International POPular Group / Crac!

 La mia Recensione:

Area - Crac!


I veri monumenti dovrebbero avere pianta stabile nella nostra mente, quotidianamente, come presenza tangibile di un’importanza riconosciuta.

Da dove partiamo?

Direi da Gianni Sassi, un monte, un’anima densa di impegni e qualità che ha continuato a smuovere le coscienze impegnandosi a tutto tondo, comprendendo anche la creazione della rivista d’arte ED912 e la casa discografica CRAMPS, insieme a Sergio Albergoni e Franco Mamone. 

Dopo aver ideato fantastiche copertine per album divenuti importanti e rilevanti, Gianni con la sua etichetta ha dato modo a diverse band di portare avanti un discorso di qualità a 360 gradi.

Gli Area ne sono l’esempio più fulgido.

La loro è stata una militanza politica che ha difeso pensieri, attitudini, ha modificato il significato di libertà in modo nobilissimo e attraverso la musica ha fatto del rock un insieme di luoghi, immagini e sostanza che ha stimolato un collettivo di notevole spessore. 

Sono qui per parlarvi del loro terzo album, Crac!, un Levitico moderno, potente e velenoso per chi fa del disimpegno un’attitudine di vita.

Ascoltare questo disco è sconsigliato per questo tipo di persone: davanti a pagine di storia che rappresentano la coscienza, per loro credo sia conveniente starne lontano.

L’abilità tecnica, ineccepibile, è funzionale a visitare l’ignoto con progressioni, stacchi, rallentamenti e accelerazioni sempre con la necessità di messaggi da approfondire. 

Il Jazz qui è un pulsare continuo che sa attendere il suo momento in quanto l’avanguardia e il progressive sono tuoni che vogliono illuminare il cielo. Le progressioni strumentali sono le voci di anime a testa bassa che vogliono alzarla, in un percorso evolutivo perfettamente raggiunto: non più generi mischiati, bensì l’evoluzione ascensionale di coinvolgimenti che sono stati educati.

 Il motivo?

Vi era la necessità che tutto fosse evidente, specificato, perché non diventasse solo catarsi, ma soprattutto indagine sonora e lirica per un tutto che non manifestasse solamente un puzzle concluso, quanto piuttosto un unico insieme di bellezza e coscienza dalla lampadina accesa.

Crudo, impegnativo, necessario, rappresentativo, questo insieme di suoni rarefatti e potenti va ascoltato avendo presente cosa accadeva in quei tempi, la progressione di eventi che determinavano posizioni. Non è musica: è vita che cerca la manifestazione di una legittima volontà, avendo al suo interno il desiderio di toccare i diritti di farlo e non sentirsi in colpa. Si muove molto bene questo insieme di brani, rapidamente, con tonnellate di piombo per via dei testi di Gianni Sassi: Demetrio Stratos ha compiuto una impresa colossale, unica, devastante, con un cantato assolutamente inimitabile. 

Fatto di estremi, come una perversità che non prevede cambiamenti di rotta, questo fascio artistico è un atto unico che va oltre la bellezza: vi saranno sempre individui che diranno che non è il loro capolavoro, che è meno suggestivo eccetera, ma sono chiacchiere da Bar, non in grado sicuramente di coglierne la magnificenza. Innovativo, consequenziale al loro percorso ma con la qualità di aver appreso anche da altre culture e album, Crac! è in grado di ipnotizzare e condurre l’ascoltatore ad assentarsi davanti al gusto e a scelte determinate negli anni.

Qui esiste la rivoluzione della rivoluzione, voluta e programmata, dove il consenso diviene un elemento sterile.

Ciò che è espresso desidera uno studio e non una valutazione: è il principio di nuove identità nascenti. Non esiste un caos che produca crescita se prima non è assistito dalla curiosità e in questo manicomio di bellezza ne troviamo quintali. La follia sta nell’intento, nella programmazione e nella sua esecuzione, che insieme devastano e certificano una elevatissima distinzione tra la bravura e il compimento di qualcosa di inafferrabile e sconvolgente. Si può ancora godere di qualcosa che appartiene (per stupidità, che conviene sempre esibire…) al tempo passato, ad una decade ormai lontana dalla nostra osservazione? Se fossimo abituati alla ragionevolezza non ci porremo questa domanda. Crac! è una bilancia che soppesa l’utile fastidioso con l’inutile che tiene l’impegno in una cassaforte blindata.

Sentirsi inadeguati all’ascolto di questo album è chiaramente come essere una rosa pronta a schiudersi: è solo una questione di tempo perché poi l’incanto diverrà sequestro, puro e sublime. Chi passava ore a sentire questo disco in quel periodo sapeva che farlo facilmente era l’ultima delle preoccupazioni: vi era un grembo mentale pronto ad essere fecondato, senza paura.

L’attualità di quel tempo era crudele e andava esaminata: per i testi ci ha pensato Sassi con gli scandali disgustosi della Democrazia Cristiana, il franare del buon senso, la tensione che l’aria voleva polverizzare, il terrorismo che divideva l’ideologia con azioni determinate e cruente, in una Via Crucis dalle tappe infinite.

Per quanto concerne la musica: libera di essere vincolata da temi così densi, ha spiccato il volo verso l’abbondanza, nutrendosi di una capacità innegabile di fare il giro del mondo tra generi e intuizioni massicce, come il muschio che si affianca ad una spugna senza confini. 

Pregno di genialità, colpi di fulmine, propensioni senza catena, tutto diventa non digeribile se lo stomaco è abituato all’acqua, che non appesantisce troppo. Sono canzoni come pranzi lunghi e impegnativi, senza dieta, ma con tutti quegli ingredienti che sembrano eccessi, smisurati ma essenziali.

L’analisi del tempo, distinta e messa a fuoco, non può mai essere sinonimo di disimpegno e leggerezza: le orecchie della nostra coscienza in quei momenti si ingrossano, studiano, conoscendo anche la stanchezza facendo ciò. 

Erano tempi duri per alcuni Paesi (Portogallo su tutti) e il ritiro delle truppe Americane nel Vietnam dava al Comunismo mondiale una forza diversa, attesa e voluta. C’era anche bisogno del giusto linguaggio artistico per continuare un discorso che fosse mondiale e l’ascolto di questo gioiello ne dà una misura precisa. Testi diretti e metaforici si univano alla musica che sapeva fare altrettanto. Si doveva guardare avanti nel tremolio di pensieri ancora balbettanti che cercavano posizione e stabilità. Un disco che contesta, motiva, eccelle per un minor tono buio rispetto ai primi due, ma con in dote una maggior consapevolezza ed una metodica diretta, che frantuma e offre nuovi elementi per un confronto/scontro più che mai necessario. Si avverte la propensione al dialogo, che nasce da un’improvvisazione capace di stimolare il litigio sonoro che non si conforma ma induce a un allargamento verso lo scintillio magnetico di talenti. Essi esercitano continuamente la loro influenza: tutto ciò non aveva mai raggiunto questi livelli, perché nei due album che precedettero questo vi erano chiaramente altre necessità. Come corsari senza benda sugli occhi, gli Area ci tolgono il gusto di essere anime apatiche con esercizi culturali da capogiro, insostenibili ora più di allora, vista la nostra totale propensione alla comodità. Note, progressioni, diversificazioni, deliri di ogni tipo si danno appuntamento tra questi solchi che, come estasi crescente, ci restituiscono un piano intellettivo ragionevole e che arriva in zona Cesarini con le menti in stato soporifero. La crescita verticale ottenuta e dimostrata con queste sette composizioni stupisce per precisione e ampiezza, mettendo a dura prova la capacità di accoglienza: in tempi in cui il nomadismo era tenuto lontano dal fare politico chiuso e ottuso, ascoltare Crac! significa, perlomeno, sentirsi profughi e sconnessi. 

Ora il fiato e i battiti si mettono di fronte. Le pistole della verità stanno per sparare sette proiettili e, se siete pronti, andiamo a guardarli da vicino, per morire in pace…



Canzone per Canzone 


L’album della militanza più evidente che mai incomincia con la corsa di un ragazzo che viene invitato a guardare avanti. Vertigini ritmiche, richiami sonori alle zone dove Demetrio Stratos è nato (Egitto) per poi andare oltre fanno de L’ELEFANTE BIANCO un esempio di connubi multipli. in modo da poter poter esercitare il potere dell’idea che trova radice solo se avanza. I musici sono Benedetti dallo stato di Grazia con un mantra che genera ampi respiri sulla strada del ritmo. E la voce stabilisce la certezza che il migliore cantante italiano di sempre sappia cantare le parole scritte da Gianni Sassi provocando ulteriori brividi.

La puntina avanza e ci fa sobbalzare: la natura di LA MELA DI ODESSA, resa strepitosa dal contrabbasso di Ares Tavolazzi, vive di momenti, tutti estasianti, sin dalla sua introduzione. Si avverte la sensazione di un viaggio alla ricerca di contaminazioni continue. Con ritmiche lontane dai 4/4 della batteria, Giulio Capiozzo dimostra di essere fantasioso e tecnicamente eccelso, trascinando Patrizio Fariselli in scorribande con la sua tastiera verso paradisi collinari per sconfiggere “il mondo che era ancora piatto”.

Non hai nemmeno il tempo di assimilare che i ragazzi sfoderano l’asso nella manica che riesce a mostrare il lato psichedelico californiano e un progressive alieno, per fattura tecnica e sperimentale: giunge MEGALOPOLI a complicare le cose e quindi a renderle perfette. Demetrio gioca con le ottave, la chitarra di Paolo Tofani duella tra la sabbia con Fariselli: sono rimandi, echi, riflessi eleganti per coinvolgere Tavolazzi a fare del Jazz il tifoso del rock con idee fresche e rigeneranti. Suite che incanta, determina cosa significhi essere dei fuoriclasse in un’Italia pigra nel conferire loro la patente della Bellezza.

Stiamo attenti ora, per il prossimo capitolo: gli Area prendono i Doors, li semplificano e poi dimostrano loro come connettere il pianoforte e il sintetizzatore per esplorare mantra ed evoluzioni anti-cliché, allontanandoli poi del tutto.

Questa è NERVI SCOPERTI, la giostra elettrica che sconvolge per la latitudine della sua radice, sirena che allinea i talenti in assoli e giochi sottili a migliorare le intenzioni di colleghi illustri, semplicemente devastante.

Il collettivo, la propensione e la volontà di connettere il testo alla musica genera un’apoteosi plurigemellare per un incantevole esercizio di contrazione pelvica: GIOIA E RIVOLUZIONE fa tanto male alla testa, spiazza ma rinvigorisce, una spinta ideologica che trova il modo di trasferirsi in una musica quasi giocosa. Tutte le dita combattono, c’è qualcosa da capire e da far capire e tutti si dannano. Sentiamo una coralità sonora che comprende pure una chitarra ritmica semiacustica per dare alla canzone la sensazione che bisogna coinvolgere tutti, in modi diversi, la band desidera sparare, nella strada dove l’amore attende. Stupefacente, quasi goliardica, tribale ma sorridente, lancia semi pop in modo da poter essere compresa meglio data l’urgenza del tema di cui è composto il testo.

Il genio di Tofani crea con il suo sintetizzatore una grandiosa introduzione per la successiva IMPLOSION, viaggio robotico, lunare, con oscillazioni del suono degne dell’avanguardia tedesca. Il delirio si fa concreto, come un pugno lisergico che accarezza gli Stati Uniti ma poi li lascia, come dispetto necessario. Il basso di Ares è uno stregone occidentale, bianco, dalle dita mosse da un impeto incontenibile e che consente al brano di essere l’esempio di una improvvisazione senza briglie e dove il drumming di Capiozzo è uno sciopero poderoso contro la tecnica maldestra di molti addetti alle pelli e ai piatti: lui dimostra cosa sia l’applicazione e il talento. Demetrio sciopera a sua volta con la voce, ma le sue dita sull’organo sembrano la continuazione delle sue corde vocali. Una sola parola per definire tutto ciò che accade in questa composizione: capolavoro!

Il vinile trema: sa già che ora ci spaventeremo, saremo inondati da una nuova scossa.

AREA 5 è la corsa di gatti e topi, di nemici che improvvisano strategie e tra la scorribanda di dita sul pianoforte e il magnetico lavoro di Demetrio alla voce, tutto diviene schizoide e inquieto, come un horror che tenta di essere portatore di allegria. Tutto proviene da Juan Hidalgo e Walter Marchetti (studiate e meditate gente, parafrasando Renzo Arbore e la sua birra) e la sensazione che rimane sulla pelle è quella di una paura incompresa, perché queste note in ogni caso seducono e trasportano dentro i labirinti di un gioco che sembra provenire da una captazione. Modo divino per concludere l’esperienza di un match culturale stravinto dalla band: e c’è ancora molto da imparare…


Musicisti intriganti, impazziti, generatori di corrente, cavalieri del suono, pittori dalle tele enormi, con un cantante che sa usare la voce con le sue diplofonie, trifonie e quadrifonie, e altro ancora, nel gioco infinito di tentacoli spiazzanti per forza e precisione. Gli strumenti usati come armi, con la faccia da fioretto, spesso sorridente, ma poi nel loro arsenale si trova una notevole serie di macchine da guerra. Non si sta sereni un attimo e tutto questo coinvolge così tanto che, parafrasando Franco Battiato, possiamo affermare “ed è bellissimo perdersi dentro questo incantesimo”. 

Mi fermo con la consapevolezza che è stato contemplato un solo granello di sabbia del loro Sahara, e nemmeno tanto bene, però posso avere la certezza che sia finita la lezione. Domani, ne sono certo, i Maestri Area torneranno dietro la cattedra e io sarò un pò più felice, perché maggiormente vicino a questo album che non ha una sola ruga che sia una…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford 

13 Maggio 2022


Area - International POPular Group / Crac!

15 giugno 1975



  • Electric Bass, Acoustic Bass, Trombone – Ares Tavolazzi
  • Electric Guitar, Synthesizer [E.M.S.], Flute – Giampaolo Tofani
  • Electric Piano, Piano, Bass Clarinet, Percussion, Synthesizer [A.R.P.] – Patrizio Fariselli
  • Percussion, Drums [Slingerland] – Giulio Capiozzo
  • Voice, Organ, Harpsichord, Steel Drums, Percussion – Demetrio Stratos






giovedì 24 febbraio 2022

La mia Recensione: Antonio Smiriglia - Amanti, Santi e Naviganti

 La mia Recensione 


Antonio Smiriglia - Amanti, Santi e Naviganti


Le conchiglie non conoscono le parole, eppure nel loro suono così semplice è descritto tutto il mare.
(Fabrizio Caramagna)


La terra è il deposito delle meraviglie che conoscono moti e saggezza, come un insieme spettacolare e divino che bacia ciò che non riesce ad essere all’altezza. Tra le sue stelle ci sono le conchiglie, le ossa delle Sirene, che tramandano la loro bellezza sulla sabbia.

Dal loro arrivo sul nostro pianeta loro espandono le voci con fare perpetuo e solo le orecchie  attente sanno coglierle ed accoglierle.

Sono tutte bellissime e quando arrivano nelle mani di cuori premurosi nell’accarezzarle accade che l’incanto diviene una danza che abbellisce l’anima che si accosta a loro.

 Una di queste si chiama Antonio Smiriglia e ha trovato un modo, angelico, per descriverne l’intensità coniugandola alla terra nella quale abita. Ed è incanto e passione, un fuoco rispettoso che scalda i cuori e li benedice.

Come in una notte di stelle calde e profumate, nella quale l’atmosfera è di totale dedizione, tutto confluisce in nove favole dalla faccia chiara, dal vestito zuppo dell’odore del Mare, che raccontano gli incontri, le storie di vita senza setacci, con una forte spiritualità, utilizzando la storia, potente e magnetica, di quella regione dal petto pieno di battiti misteriosi che è la Sicilia. 

Antonio sventola con fierezza la bandiera di quella zona fertile e la mette su note come un bambino saggio fa con ciò che ama.

Non c’è vergogna né timidezza, sono semi queste canzoni, un lasciapassare prezioso di segreti custoditi da tempo immemorabile e anche un tam tam sottile dai codici tradotti per tutti noi: c’è intenzione di far conoscere e non ci sono dubbi che tutto sia comprensibile ed efficace.

Non sono canzoni bensì passaparola continui che destano stupore ed emozioni senza parvenza di arresto. Ci si ritrova all’ascolto con l’impressione di essere stati da sempre lontani dalla bellezza più autentica, capace di contagi che non conducono alla morte bensì alla vita vera, quella consapevole.

Pregno di stili, di propensioni generose, di stratificazioni che raggiungono lidi lontani, questo racconto di conchiglie e magie infinite si intitola “Amanti, Santi e Naviganti” e già nel titolo siamo pilotati verso il rispetto e l’attenzione, con il compito di sapere che ogni incastro è il terminale di migliaia di esistenze che si incontrano attorno al focolare di una festa genuina e capace di far riflettere ed emozionare, senza reticenze.

E la modalità, lo stile con il quale Antonio comunica è gravido di un sapere gentile, dove le scomodità del fare umano si presentano una ad una attraverso un clima dove la sincerità e a volte la durezza non diventano attrito ma risorsa preziosa per cercare di colorare l’esistenza con magia e sapienza.

Idiomi e lingue come templi dove mostrare ringraziamenti continui sono damigelle d’onore di musiche che sparpagliano le loro capacità in generi molteplici e armoniosi, come ventaglio che copre le varie possibilità espressive.

Andiamo ora a conoscere la faccia di queste conchiglie, i loro dintorni, le voci di anime irrequiete ma vogliose dell’esistenza, per non disperdere di loro nemmeno un respiro.


Canzone per Canzone


Naviganti


Una chitarra, una voce, un inizio verso l’idea del viaggio che poi, a mano a mano che la canzone si sviluppa, diventa reale e si ci si trasforma in naviganti per davvero, con la protezione della Madonna e dei Santi. Tutto inizia con fare gentile, con la leggerezza di un racconto, musicale e del testo, che sviluppa le sue trame come un sorriso leggero, come una introduzione che già manifesta purezza e capacità, con frammenti di folk a sussurrare attenzioni alla natura, tra fasci di vento e preghiere.


Controvento 


Entrano i sentimenti, le inclinazioni, i personaggi, i desideri con la pelle di una musica che ci porta nelle colline assetate di pioggia. Ed è la primavera che si manifesta con un progressive folk che ci riporta agli anni 70 ma mostrando le sue diramazioni, le contaminazioni, le specifiche differenze. Un senso di conquista dei sensi che dalla richiesta di attenzioni approda al farsi guardare in un gioco medievale di armonie spavalde e positive.


Terra


Il concetto di World Music è da rivedere. Troppo legato ai grandi nomi degli anni 80. Ascoltate Terra e tornerete studenti non di un concetto ma di una essenza che si manifesta con la luna che incendia gli occhi del Mare con le sue speranze. Musica che diventa emigrante per accogliere le diverse culture che sono bisognose di un incontro, di un abbraccio. Quella che troviamo su queste onde è puro incanto che scalda le vene, uccide la guerra e diventa un gabbiano senza rabbia che porta la sua bellezza dentro di noi, scendendo su una barca che vuole liberarsi dei suoi morti.


Amanti


Non è un caso che dopo Terra vi sia Amanti: è il ciclo della vita che continua per completarsi.

Antonio parte da una chitarra che ha semi di Simon & Garfunkel nei suoi movimenti ma poi tutto si arricchisce di mura siciliane, di visi, di rose rosse dalla pelle bagnata e non per sbaglio. Il canto si avvicina a quello di Raffaella Misiti della band romana degli Acustimantico e la musica guarda alla PFM più dotata e generosa. Ma non è che un battito minimo: il brano odora di riservatezza, che fa scomparire i riferimenti in fretta per vibrare della propria fattura.


Donna Gintili  


La musica come trama: un Romanzo che prende per le mani la versatilità delle note e le stende sui brillii del bisogno di comunicare. Strumenti che arrivano come se giocassero a nascondino, si inseriscono dando all’arrangiamento il suo vero ruolo e significato.

Antonio raddoppia le voci e crea piani emotivi diversi capaci di farci salire nel cielo così come di accarezzare la terra.

E poi la sorpresa dell’incontro con la voce di Oriana Civile, un diadema che apre il suo cuore e lo posa su un arpeggio vellutato e luccicante. Una canzone che offre il confronto tra trame piene di frumento e i garofani Americani sul tappeto di giorni ingrossati da una attitudine corale dove emerge il bisogno di confronti stilistici con gli strumenti come generosi operai della bellezza.


Rosi e Spini


Come spinge qui l’albero della ispirazione: raccoglie e diventa slancio e, partendo dall’acqua fresca di una fontana, percorre il pizzico di corde e gote che si gonfiano per spingere sullo strumento a fiato che ci porta nell’epoca che non ha numero. 

Al trentesimo secondo si accende la danza che non abbisogna di rimanere: si affaccia e se ne va, e ritorna.

Ci voleva proprio Oriana con la sua voce piena di olio e magia per accompagnare Antonio, ed il brano diventa una pellicola per conservare il fato e la poesia.


Si li me Paroli


Dannazione: qui non ho parole adatte, le sto invocando, ed è la canzone che mi aiuta, perché nella sua verità tutto emerge.

Non è un miracolo, non una eccezione nella quale inginocchiarci per ringraziarla.

Piuttosto è una bufera che incontrando l’amore si educa e si calma, bacia l’atmosfera Francese, quella usata anche da Guccini in Signora Bovary. Si entra nel bisogno di trovare le cose perdute con l’ombra di note musicali che guardano al Fado, al folk della sponda nordica dell’Africa, alla sottile propensione ad una danza lenta, con la batteria che lavora i fianchi dolcemente, come battito di ali e non del ritmo.

Ci si accascia sulla voce di Antonio che diventa l’anestesia perfetta per far dormire il dolore.

E forse qui si tocca la vetta dell’Etna per guardare leggeri non solo la Sicilia, ma la mappa della nostra esistenza.


Ballata di li Santi


Coralità, danza, la Grazia che mostra la vivacità dell’isola, con punti di contatto con la Sardegna, e si vola nei secondi con un tam tam gentile, il cantato veloce e melodico, e ancora si balla come il vento della coscienza che ci rende leggeri. E se esiste la World Music la invito a entrare dentro questi due minuti e cinquantadue secondi: farebbe bene a prendere appunti e annotare come i confini più tremendi siano nelle convinzioni sbagliate.

La religiosità ancora una volta è un percorso che accoglie, che non ha i paraocchi e che è disposta ad essere un abbraccio intelligente, nutriente, senza esagerazioni.

È la Sicilia tutta che vestita di colori danza e saluta i Santi, in una gioia che si appiccica alla musica in stato di Grazia…


Tempu 


Le conchiglie, non le ho dimenticate, né loro si sono dimenticate di noi.

Hanno aspettato il momento giusto, per spiegarci il tempo. 

Siamo di nuovo sulla spiaggia, pronti a tornare naviganti, con i vocalizzi di Antonio che, come preghiere piene di fiducia,   spingono il testo ad essere un assolo che sfocia nella parte musicale, quasi jazz, mischiata alla salsedine e ai coralli pronti a guardarci. Il Tempo non è mai un congedo ma un continuare in luoghi diversi. E allora tutto accade all’alba, il tempo in cui le forze e la stanchezza si guardano in viso. Voce come muezzin, e i musicisti che sembrano fare una jam in uno stato cosciente senza freni, con gli arrangiamenti che applaudono e stabiliscono la prossima rotta.


Quando un album diventa un libro che continua a scrivere di se stesso, rifiutando la parola Fine…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

24 Febbraio 2022


https://open.spotify.com/album/0UN0Mi759HvKaOpy5cdUlu?si=0lhGYvlRTDOCIdlsCg3JQQ


https://music.apple.com/gb/album/amanti-santi-e-naviganti/1607044293




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