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sabato 3 giugno 2023

La mia Recensione: Duran Duran - Planet Earth

Duran Duran - Planet Earth


In una conca allucinogena e deviante, la città di Birmingham, nelle West Midlands, ha sin dagli anni Venti nutrito una spiccata propensione al rifiuto di qualsiasi competizione, nel lavoro come nell’arte, per legittimare un titolo che ancora oggi porta sul proprio petto con tanto orgoglio. Quella che più di tutte è riuscita a sviluppare diversi generi musicali è questa, senza dubbio. Occorrerebbe fare un percorso specifico, ma vi basti sapere che qui è nato l’Heavy Metal, il Folk ha conosciuto la desertificazione rispetto all’acqua corrosiva di quello americano, il Rock and Roll ha saputo stringere i denti e ha allargato le sue grandi risorse, migliorandosi e abbattendo il fenomeno caro a Elvis e compagnia. Ma sono stati il Brum Beat e lo Space Rock a rendere gigantesco questo grande agglomerato urbano, il secondo per numero di abitanti dopo Londra, e con il triste primato di essere ancora oggi il luogo più violento dell’intero Regno Unito.

Il punk? Il Post-punk? Sicuramente non in grado di competere con quello di altri luoghi e non capaci di rendere fertile la curiosità delle giovani band. I Duran Duran sono stati una sfida, un gioco, una conquista sin in partenza destinata alla mutazione genetica e a uno spirito nomade, per poter allargare da subito il desiderio di divenire un circuito di anime in transito. La loro musica fu immediatamente la scusa e il rimedio per scappare dall’urgenza dei sopracitati punk e post-punk. Ma cosa adoperare? Cosa essere di preciso? Come cavalcare l'entusiasmo per poter essere abili nel determinare un seguito? Impresa non difficile perché la classe, il talento, ma soprattutto gli spiriti guida non mancavano: stavano tutti a Londra, capitale indiscussa di atomi in galoppante andamento per conquistare il mondo. Quelli di cui vuole parlare il Vecchio Scriba si riferiscono al momento storico ben preciso del primo album, con la canzone che fu la terza in assoluto a essere scritta, la seconda in scaletta e il primo singolo  ufficiale.

3 - 2 - 1…

Partiamo con Planet Earth, che è bene precisare subito, non rappresenta totalmente il movimento musicale accennato nel testo: quello lo si trova molto di più in altri brani, dei quali forse si terrà conto più avanti. 

Bene: in questa lucida, tiepida e brillante cascata di suoni troviamo un insieme di parole che, se non sono contro la guerra, portano almeno nel loro grembo un amore per un pianeta già sconnesso da unicità che potrebbero generare empatia. Voci, suoni, paure e la grandezza di un mondo da definire prima ancora di conoscerlo. Siamo innanzi a un evidente numero ristretto ma ben noto di maestri, con i loro tentacoli che danno ai cinque ragazzi di Birmingham forze necessarie per generare un plotone funky, con le orme di due band Londinesi visibili: Roxy Music e Japan. La leggerezza è tutta nelle dita colorate di Rhodes, lo sciamano silente, in grado di creare l’ossatura. PE è un continuo germoglio: si prendano le tre fasi del basso di John Taylor, la chitarra di Andy che spolvera il rock, il funky stesso e quell’indole blues che non gli è mai stata riconosciuta, non per il genere ma per il tocco dell’anima…

Roger Taylor è la vera macchina capace di creare vento: come un fulmine muta la pelle, spaziando, portando i quattro compagni dentro uno slancio non solo cutaneo, ma soprattutto nei sogni dance di una trance mentale capibile nel momento in cui il brano sembra rallentare e quasi spegnersi. Il lavoro sui tamburi, sui rullanti, offre il lato rock che spesso pare inaccessibile a chi coglie solo aspetti maggiormente evidenti. La fotografia dandy dei Japan viene ripresa, in un furore che, pur non avendo l’esplosività del punk (meno male…), conduce a una danza multipla: a muoversi sono gli arti come i pensieri, in un fuoco artificiale che illumina il cielo e rende le ipotesi un rifugio. Si piange, eccome, perché Simon Le Bon ha una mitraglia triste nell’ugola che si evince dal suo registro alto, ma morbido, allucinato in modo elegante, e poi quel PAPAPAPAPA che da solo decreterebbe già il successo di molti. Eccolo il pop, sempre negato, come fosse il segnale di una povertà non accettabile, riuscire invece ad amalgamarsi con il tutto, nella piscina aperta al cielo di una canzone che porta estasi cercando le strade del mondo. Vige una regola precisa in tutto il pezzo: regalare il trasporto che Giorgio Moroder aveva insegnato proprio a Londra nei primi anni Settanta. Per farlo esiste una sola ricetta: trasformare la forma canzone in una montagna russa; un circolo vizioso dove inserire arrangiamenti leggeri ma puntuali, uno stuzzicare continuamente le fondamenta aggiungendo varianti, con sopraffina modalità, in un modo che spesso all’ascolto distratto non ne risulti nemmeno traccia. Il momento glorioso, la medaglia al merito va ad appannaggio della sensualità, della frenesia, dello sfrenato cinguettio del basso di John: siamo a livelli di grande intensità, capacità, ma soprattutto si dimostra come quello sia lo strumento da cui tutti dipendono. Una giostra per bambini che lui trasforma in una patente di guida. La macchina DD ha una cilindrata sorprendente se si considera che la loro città nel 1980 era totalmente devota al Metal e all’Heavy Metal, allo Ska e al Reggae.

I cinque erano già scappati nelle braccia di mamma Londra: studiavano le strategie, ascoltavano i Kraftwerk e i The Move, una oscura formazione Progressive Rock che magnetizzava Simon e soci. E poi Gary Numan, uno zio acquisito: bastava cambiare i ritmi, selezionare certe trame, smussare gli angoli e il gioco sembrava fatto, ma…

Ma per questo brano, nello specifico, si evidenziavano un paio di trucchi di cui i finti nemici Spandau Ballet non erano ancora a conoscenza: iniziare con una trama leggera di tastiera e un’idea latente di un drumming che poteva far immaginare un’esplosione che, eccolo il trucco maggiore, lasciava al basso il ruolo di essere una massa nucleare da dirigere dentro le dance hall calde delle città inglesi in primis. 

È però doveroso anche constatare la grande presenza di due band (non proprio due…): Ultravox e Visage. In Planet Earth tutto torna, perché i due suddetti gruppi hanno insegnato a contemplare la necessità di compattare generi musicali ben distinti, miscelarli, generare confusione e poi azionare la bacchetta magica: fare della produzione l’elemento strategico che completi il senso e dia luce. 

Sconvolge, se si ascolta tutto l’album, come solo questa composizione abbia l’intenzione di scavalcare, in una ipotetica gara all’accessibilità pop, tutte le altre. Si conficca nel cuore, regalando l'elisir della giovinezza perché si finisce per danzarla continuamente, senza tregua. 

Croce e delizia per chi, sentendola, capiva che dalla fascinazione non se ne usciva: non ci sarebbero più state band in grado di riprodurre questa elegante sequela di qualità in un solo brano. La storia ha deciso che si doveva ubbidire a un richiamo, i vestiti più eleganti erano indossati da queste note, le pose più sensuali arrivavano dagli incroci di quattro strumenti perfettamente allineati, come dei pianeti in stato di grazia…

Una polvere sottile inquinava la felicità di Simon e Nick, le mani che scrissero queste parole: occorreva lucidare le forze e annientare l’onda nichilista del punk e l’incertezza del post-punk. Ecco allora una posizione da voyeur di prima classe: seppur giovanili, quegli sguardi sembravano catturare la magicità dell’aria che era in attesa di essere scrutata. Le voci diventano, così, un coro eccitante, accorpate nel cilindro di Simon che trova la linea melodica perfetta per dare calore alle gelide note di Rhodes che, se state attenti, usa la struttura della Coldwave su un corpo musicale diverso. 

Ma il Glam? Lo vogliamo nascondere? E David Bowie? Su tutti però non possiamo dimenticare chi ha generato la scintilla divenuta poi New Romantic: non sono stati di certo i Duran Duran i primi.

L’artefice fu la band di Sal Solo, leader dei Classic Nouveaux, fondamentale esercizio balistico, i veri ideatori di questo genere musicale. In Planet Earth qualcosa c’è, innegabile, verità sacrosanta, ma saranno sicuramente brani come Careless Memories e Sound of Thunder a svelare il principio di provenienza.

Incantevole, col suo inizio quasi tetro e la cavalcata trattenuta della tastiera che cita i Kraftwerk, sa divenire falsamente gioiosa perché in cerca di un idillio, di uno sfregamento dei sensi, di una vivacità che abbia appigli con la stravaganza e la strafottenza giovanile: la canzone è in assoluto uno dei vertici di rappresentanza della parte della nuova decade che richiedeva attenzioni regalando brividi, incolonnati, magicamente sparsi all’interno del suo cortocircuito.

Ciò che seguirà sarà una esplorazione musicale, e non solo, avendo nel suo baricentro coscienzioso la tranquillità sufficiente per camminare, per stabilire la nuova regola della musica d’autore: usare una finta spavalderia e manciate di nonsense, per attirare nella benefica trappola del loro bisogno artistico anime in grado di saldare ogni cosa con una doverosa fedeltà.

Il tutto tenendosi per mano, visitando la struggente bellezza del Pianeta Terra…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

3 Giugno 2023


https://www.youtube.com/watch?v=8NF6Qa84mno




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