sabato 7 dicembre 2024

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us


 Midas Fall - Cold Waves Divide Us


La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che appassiona le anime in ascolto e in visione, trasportando le ombre sotto i riflettori. Ciò che ne consegue è estasi in ripetizione, tra oscillazioni e tremori. La musica può rappresentare tutto questo come tramite, indagine e una fitta ragnatela contenitiva. Se a farlo è la band scozzese Midas Fall, allora la paralisi del miocardio è garantita all’istante, come genesi di fragilità in cerca di ossigeno. Il duo (ora trio) compie il miracolo più notevole che si possa solo lontanamente sperare: scrive una genuflessione dal vivo, un concerto invisibile, direttamente nelle nostre stanze, come una vicenda privata, unica, difficilmente evitabile, per segnalare un primo incandescente atto di totale innamoramento, come coda di una lunga carriera in cui il quinto disco non fa altro che raccogliere, seminare, inventare dalle ipotetiche oscillazioni umorali un impianto definito, preciso, una invasione di corsia del nostro finto equilibrio.

Tabula rasa sì, ma piumata, ossigenata di algida bellezza proteica, in mezzo al circolo di emozioni che sono solo la coda di un palazzo mentale che verbalizza istinti, radiose giornate in penombra e la fatica di manifestare il talento di queste composizioni che attraggono il battito verso la fatica del contenerle tutte.

Più intimo, meno sognante (pare un ossimoro, una bestemmia, ma prima o poi capirete che non è così…), crudo con la malinconia che sottolinea la potenza di queste gocce che, anche quando cadono forte, sanno usare il rumore come una piuma inzuppata di sole…

Elizabeth Heaton e Rowan Burn sono due fate che ignorano il successo, le pose, i bisogni pubblici che seminano solo dispersioni. Loro raccolgono i respiri, i pensieri, e, con una frusta da cucina, fanno condensare la loro intima ricerca in un casco dorato dove tutto viene amalgamato e messo nel frigo del cuore. Sono cresciute, hanno generato pillole sonore non come figli ma come pennelli e colori da gettare nel vento. Ora più che mai vivono di giochi continui, un andare e venire dal nucleo delle forme, un utilizzo attentissimo delle diramazioni, nel quale post-rock, progressive e shoegaze si incollano alla materia della penetrazione mentale, operando la scelta che ogni bisturi sia capace di non fermarsi sul primo strato della pelle di queste canzoni. Questo spiega l’intensità, la contenuta esplosione per generare, piuttosto, un fragore più silente, circostanziato dal bisogno di usare le note come colla, come carta su cui scrivere un dna incontenibile: quello della descrizione. 

La volontà di chiamare a sé Michael Hamilton, anche lui polistrumentista e produttore, ha permesso l’ampliamento della fase di scrittura dei brani, come se davvero un membro in più rendesse questo “concerto” che è Cold Waves Divide Us un irripetibile scambio di doni, in un periodo non di grazia bensì di reali capacità in cerca di un fissativo permanente, per permettere a questa esibizione dal vivo di non terminare mai.

Ci si ritrova nella visione del mondo, nella serratura di una porta dove ognuno di noi vive la segretezza della sua esistenza, nella discarica di sogni sbiaditi, di volontà prive di mordente per poi anestetizzare la gioia al fine di farla rinsavire con queste piccole note che, incastonate, diventano massi pieni di fiori di montagna, in volo, incantato e incantevole, senza fine.

I tre sono l’imbuto nel quale cade ogni lacrima, ogni intima resurrezione emotiva, perché sanno scavare nelle peripezie delle singole espressioni delle note musicali, per correggere invece la scelta non astuta della musica contemporanea di cercare il successo. La vera arte dà sempre le spalle al pubblico…

Cunei, petardi, baci col rossetto blu e damigiane di vino entrano in queste canzoni per inebriare, stordire, commuovere e fare dell’ascolto un inferno roteante.

Musica eterea che scalda il fuoco sepolto nelle vene, adrenalina che esce dall’anestesia di ascolti mediocri, elaborazioni continue sulle strutture che rendono ogni secondo di ascolto un millennio nei battiti del nostro cuore. Angeli storditi, che vagano tra le culle di bisogni a noi non concessi, riproducono incanti e suggestioni, disegnando impeti e riflessioni, congiuntamente.

I movimenti, le torsioni, le conduzioni delle chitarre si legano agli archi, al drumming raramente potente, al basso che misura la condizione di forma dei sogni e li sorregge e poi all’espressione dell’ugola, su cui prima o poi il Vecchio Scriba scriverà un libro.

Ma, diversamente da tutti i colleghi, vorrei sottolineare che le parti musicali sono il vero pozzo pieno di petrolio, la miccia della voce, un abbraccio che consente a ognuno dei membri della band di esplorare un universo diverso. Certo, la sua è la migliore degli ultimi vent’anni e il suo cantato è di una   bellezza semplicemente devastante, incontenibile, la madre di ogni lacrima dai brividi accesi, una molla sensoriale che imbratta il viso di liquidi in dispersione continua.

Ma non è sola. Non solo lei conquista e penetra. Si deve avere il coraggio di affermare che la musica perfetta suggerisce alla voce perfetta di stare sul medesimo palco e di portare l’ascolto laddove la mediocrità non ha accesso.

Arte come nuvola in attesa di un tuono, di un tuono in attesa di dormire su una nuvola, con un pianoforte in mezzo e degli archi a sillabare vocali desueti, nella fantasia di un incontro inverosimile. 

Non è Dream Pop, non è gotica, non è un genere: ciò che è rimane relegato al mistero. Pellicole di film mai esistiti, dipinti in una bottega lontana dall’accessibilità, consentono al freddo contenuto nel titolo dell’album di tremare, di divenire frammento frenetico, di far evaporare le pretese e di conturbare l’animo. Incalzante, incastrato nella pillola magica del non conosciuto, questo percorso di note crea sinfonie prog in modo velato, tuffandosi nella modalità del goniometro e dell’inchiostro: definire, senza sbavature.

La grazia, la piuma che non accelera troppo, il dondolio della voce tra graffi e grappoli di svisate, introducono il pensiero in una locazione mai considerata prima: la confusione dello smarrimento davanti a questa bellezza insostenibile.

Gli archi, i synth, non solo aleggiano ma puntano i piedi, reclamano spazi e penetrano i timpani con quella dolcezza che disarma e sovrasta. Uniti alla voce e alla chitarra diventano piombo con i petali in bella vista…

L’avanguardia, l’originalità sono terreni che appartengono alla memoria (in ambito musicale sicuramente), ma quanto è bello constatare l'eccezione che vive in questo sciame, in questo alveare, in questo ruggito dalle corde gentili?

Armonie evocative, lampi di note, colpi di basso sincopato, patterns quasi invisibili e poi il lampo, in un sudore del sangue che dalla Scozia parte per fare un bel viaggio dentro la nostra oscena ignoranza. Ecco, quindi, questo disco divenire il maestro di una gioia perversa.

Il suono è onnivoro, divora le pareti del pentagramma, e descrive perfettamente quanto tutto derivi dalla musica classica, da quel pentolone che ancora oggi fa bollire l’acqua dell’arte musicale, senza tentennamenti. La quiete disturba chi vive maremoti, lo spettina e lo fa imbestialire. I tre, giovani marmotte nella foresta del dolore, cercano le foglie per far diramare le pellicole intuitive, oltrepassando i confini del conscio, immobilizzando l’inconscio,  per poi stabilire i turni di lavoro dei pensieri che nascono, si inseguono, ci inseguono, e ci abbattono.

“Fredde onde ci dividono”: questa la traduzione del titolo, un inganno, una verità, una precisazione, un perfetto escamotage per convogliare l’attenzione  sui rapporti, con se stessi, con gli altri, per creare una giungla emotiva nel polo artico. Il freddo non scioglie bensì sceglie solamente la temperatura migliore per conservare e, quindi, per ricordare. E l’album ci ricorda di come gli antichi fragori abbisognassero di un richiamo, come una cocaina mentale da tirare su, nel nostro cervello annebbiato.

Piangere è un regalo che l’anima offre alla tua convinzione di essere più forte di ogni cosa. Quando le canzoni cambiano il tuo umore e il flusso di pensieri diventa intollerabile e ingovernabile, allora ti rendi conto di trovarti davanti a un potere enorme, non uguale al tuo e quindi fai i conti con una fragilità enorme. In questo caso positiva e capace di renderti un pulcino nel suo primo giorno di vita. Queste sono informazioni ignote, non brani, pillole di atomi in una sfera quadrata, non brani, fiamme gassose in cui svenire per la bellezza e sicuramente non per la loro tossicità, ma mai brani: sarebbe ridurne il valore se pensassimo questo. 

I Midas Fall giungono nell’emisfero del vuoto: il loro sublime talento (non toccabile, ma fruibile solo a patto di non entrare nelle loro discariche gassose), scende nel perimetro della perfezione con l’unico vero Capolavoro degli ultimi dieci anni musicali.

C’è un noto e un ignoto che insieme squarciano il certo e lo programmano per una fuga doverosa.

Se proprio vogliamo considerarlo un album, diciamo pure che le moltitudini forme di comunicazione qui vengono assemblate e amalgamate per lasciare del tutto esterrefatti. 

Spostiamo la luce, dietro le nostre spalle, ed entriamo in questi crateri floreali, uno a uno…


Song by Song


1 - In the Morning We’ll Be Someone Else


L’inizio di questo capolavoro è un’indagine della forma stilistica, un accenno dei nervi, un battipanni che fa cadere la polvere: asciutto, melodico, nucleare nell'effetto di una intimità che frana, utilizza l’atmosfera del sogno, con la lentezza e il drumming che tenta di fare avanzare i pennelli di questi fragori tenuti lontani, mentre la voce prende per mano la parte elettronica del pezzo, nell’avamposto chimico di un’eterea manifestazione di luce che se ne va, abbandonando ogni paragone con quello che la band aveva scritto in precedenza. Ouverture e tortura: si piange subito con la chitarra shoegaze che alza le note verso un cielo lontano…



2 - I am Wrong


Il ritmo entra come lo spettacolo di una foresta decadente in fase di contenimento: il piano prospettico è quello di una corsa, invece, sebbene la cadenza musicale suggerisca una danza tribale, la tristezza e la malinconia governano queste pillole di chitarre antiche, molto prossime ai primi anni Ottanta, in cui per dire molto bastava poco… La coda del brano è un circuito elettrico di nuvole e drumming che ipnotizza la forma canzone, per concedere il ritorno di Elizabeth che rende giustizia con la sua disciplina vocale.

Diversi i generi musicali che qui fanno la muta, si incrociano per poi essere spettatori negli ultimi secondi dove tutto diventa sintesi…



3 - Salt


Memorie di Evaporate tornano, ricordandoci il loro ultimo album di cinque anni fa: vi sono composizioni nate per essere frastuono dentro la sei corde, con il supporto di vocalizzi eterei, archi quasi pudici e l’orchestrazione che passa dall’antico al moderno con disinvoltura, per poi divenire una pillola del post-rock più addentro alla tristezza e alla miseria…



4 - In This Avalanche


I testi di Elizabeth sono punture, la musica il tessuto su cui lei spazia nella sua contemplazione dolce e gentile solo all’apparenza. Un carillon, sotto forma di loop, spiana la strada a una armonia che centellina le energie, per poi esplorare il cielo quando la voce si chiude nel silenzio. Il pianoforte e il synth fanno l’amore con una chitarra che odora di Dream Pop ma scevra da condizionamenti. E infatti non manca l’appuntamento con un’attitudine fantasiosa che la porta altrove. Una ninnananna sa essere anche una perfida ma incantevole freccia…



5 - Point of Diminishing Return


L’unico brano strumentale è invece un coro gregoriano atipico: tutto si eleva alla preghiera, moderna, atea, sganciata dalla fede, per divenire un parto di post-rock vicino a quello dei Leech, per dare alle note uno spazio su cui inserire inserti e trame che ne concludano il percorso inventando la regola del limite improvviso. Glaciale, austera, di una tristezza sublime, la canzone fa da ponte perfetto tra la prima parte dell’album (attenta e premurosa) e la seconda (rantolante con un giacca di seta tra i capelli), al fine di stordire i sensi e captare l’attenzione: dove una splendida voce si assenta può esistere una musica che ne riproduce l’effetto e ciò accade, inesorabilmente, in questa occasione…



6 - Monsters


C’erano una volta  i Mazzy Star. I Low. E una pletora di band che cercava la voce per perfezionare il percorso artistico. Accade, in questo caso, che due universi paralleli si frequentino. Nell’attesa tutto diviene uno straziante episodio in cui le chitarre guardano l’orizzonte sottile tra post-rock e shoegaze per divenire la forma progressiva di un rock antico. E quella di Elizabeth uccide ogni ritrosia, sino ad appannare il vetro di singhiozzi dati dal rullante e dalle chitarre in esplorazione gassosa…



7 - Atrophy


Dove finisce il cielo vive Atrophy: il senso di morte tra le bolle di un cantato che violenta il cuore e un’orma di chitarra che avanza sino a divenire un sogno etereo e rarefatto, ci convincono che questo episodio sia talmente in grado di distruggere le difese che l’anima si concentra nello straziante commiato di forze in caduta libera. Un mantra che lascia le bave nel mattino di una intuizione clamorosa: disegnare per davvero il luogo in cui tutto finisce…



8 - Cold Waves Divide Us


La sintesi, la profezia, la ventata passionale di un giorno in cui si stabilisce il contatto con il disagio: questo brano è la cassaforte del nuovo impeto della band, la sonda che dalla lentezza e dalla precisione concettuale esce allargando il ritmo, il perimetro visivo, e fa brillare il loop e il delay della chitarra per concentrare una verità musicale per loro indiscutibile, che è quella di non ripetere mai un giorno di pioggia senza concedersi ingressi multipli. Ecco che allora i generi musicali qui presenti sono diversi ma, data la fattura della composizione, nascondono il naso lasciando intravedere solo le braccia…



9 - Little Wooden Boxes


La natura diventa nota musicale.

Il respiro degli strumenti un battito di ciglia.

Parole come cigni in un volo inquinato.

Ciò che vive nella penultima composizione dell’album è un rafforzativo, gentile e pulito, della cifra stilistica di questo incredibile viaggio: dilatazioni, incursioni di singoli accordi e la lentezza della progressione così vicina al Post-Rock senza però entrare in quei parametri. La voce, con la sua modalità evocativa, esplora la progressione senza seguirne le ombre, ed è miracolo puro di un combo perfetto…



10 - Mute


L'incipit è cavernoso, un rottame su un’onda nervosa, un malessere che si affida alla voce per creare un boato breve, non secco, ma perennemente costretto dalle poche note di un piano stregato e pregno di malefica bellezza, per impedire al tutto di morire.

Non necessita di ritornelli, di espedienti beceri in quanto è del tutto simile alla modalità tipica dei vecchi Bad Seeds di Nick Cave: dare al basso lo scettro e poi investire sul mantello fluorescente di un apparato musicale che lo supporti. 

Per approdare alla dilatazione, alla duttilità dello Shoegaze che governa il mistero e al Post-Rock, qui in veste di mago contenitivo.

Sacra, vergine, nefasta nell’accezione positiva, la canzone chiude come una goccia di rugiada questo Capolavoro: si festeggi la bellezza tra il roseto di lacrime senza fine…


Alex Dematteis (Vecchio Scriba - Old Writer)

Musicshockworld

Salford

7 Dicembre 2024


https://open.spotify.com/album/7HE5PoausnMjJAoco3miw2?si=V95H52lZQR2Q9v5PtT94zg


https://www.midasfall.com/home




 







My Review: Midas Fall - Cold Waves Divide Us


Midas Fall - Cold Waves Divide Us


The lane of elegance has a remarkable space in dreams, a teeming of intact fragments that enthrall listening and viewing souls, transporting shadows into the spotlight. What ensues is ecstasy in repetition, amidst oscillations and tremors. Music can represent all this as conduit, investigation and a thick containing web. If the Scottish band Midas Fall does this, then myocardial paralysis is instantly guaranteed, as the genesis of fragility in search of oxygen. The duo (now a trio) performs the most remarkable miracle one could only remotely hope for: they write a live genuflection, an invisible concert, directly in our rooms, like a private, unique, hardly avoidable affair, to signal a first incandescent act of total falling in love, as the tail end of a long career in which the fifth disc does nothing more than collect, sow, invent from hypothetical oscillations of the mood a defined, precise structure, an invasion of the lane of our pretended equilibrium.


Tabula rasa yes, but feathery, oxygenated with algid protean beauty, in the midst of the circle of emotions that are only the tail end of a mental palace that verbalises instincts, radiant days in the half-light and the fatigue of manifesting the talent of these compositions that attract the pulse towards the fatigue of containing them all.

More intimate, less dreamy (it sounds like an oxymoron, a blasphemy, but sooner or later you'll realise it's not so...), raw with the melancholy that underlines the power of these drops that, even when they fall hard, know how to use noise like a feather soaked in sunshine...

Elizabeth Heaton and Rowan Burn are two fairies who ignore the success, the poses, the public needs that only sow dispersion. They collect the breaths, the thoughts, and, with a kitchen whisk, condense their intimate quest into a golden helmet where everything is amalgamated and placed in the fridge of the heart. They have grown, they have generated sound pills not as children but as brushes and colours to be thrown into the wind. 


Now, more than ever, they live on continuous play, a coming and going from the core of forms, a very careful use of branches, in which post-rock, progressive and shoegaze are glued to the material of mental penetration, making the choice that each scalpel is capable of not stopping on the first layer of the skin of these songs. This explains the intensity, the restrained explosion to generate, rather, a more silent din, circumstantiated by the need to use notes as glue, as paper on which to write an irrepressible DNA: that of description. 

The willingness to call in Michael Hamilton, also a multi-instrumentalist and producer, allowed for the extension of the songwriting phase, as if indeed one more member would make this ‘concert’ that is Cold Waves Divide Us an unrepeatable exchange of gifts, in a period not of grace but of real capacity in search of a permanent fixative, to allow this live performance to never end.


One finds oneself in the vision of the world, in the lock of a door where each of us lives the secrecy of our existence, in the dump of faded dreams, of wills devoid of bite, and then anaesthetises joy in order to make it come to life with these small notes that, set, become boulders full of mountain flowers, in flight, enchanted and enchanting, without end.

The three of them are the funnel into which every tear falls, every intimate emotional resurrection, because they know how to dig into the vicissitudes of the individual expressions of musical notes, to correct contemporary music's unwise choice to seek success. True art always has its back to the audience...

Wedges, firecrackers, kisses with blue lipstick and demijohns of wine enter these songs to inebriate, stun, move and make listening a swirling inferno.

Ethereal music that warms the fire buried in the veins, adrenalin that comes out of the anaesthesia of mediocre listening, continuous elaborations on the structures that make every second of listening a millennium in the beats of our heart. Stunned angels, wandering among the cradles of needs not granted to us, reproducing enchantments and suggestions, drawing impetuses and reflections, together.


The movements, the twists, the conduction of the guitars are linked to the strings, the rarely powerful drumming, the bass that measures the shape condition of the dreams and supports them, and then to the expression of the uvula, on which sooner or later the Old Scribe will write a book.

But, unlike all my colleagues, I would like to stress that the musical parts are the real oil well, the vocal fuse, an embrace that allows each of the band members to explore a different universe. Of course, hers is the best in the last twenty years and her singing is simply devastatingly beautiful, irrepressible, the mother of every shuddering tear, a sensory spring that smears the face with liquids in continuous dispersion.

But she is not alone. Not only does she conquer and penetrate. One must have the courage to affirm that the perfect music suggests the perfect voice to stand on the same stage and bring listening where mediocrity has no access.

Art as a cloud waiting for thunder, for thunder waiting to sleep on a cloud, with a piano in the middle and strings spelling out outdated vowels, in the fantasy of an unlikely encounter. 


It is not Dream Pop, it is not Gothic, it is not a genre: what it is remains relegated to mystery. Films of films that never existed, painted in a workshop far from accessibility, allow the coldness contained in the album's title to tremble, to become a frenetic fragment, to evaporate pretensions and to disturb the soul. Undeterred, stuck in the magic pill of the unknown, this path of notes creates prog symphonies in a veiled way, diving into the mode of the goniometer and ink: defining, without smearing.

The grace, the feather that does not accelerate too much, the rocking of the voice between scratches and clusters of foils, introduce the thought to a location never considered before: the confusion of bewilderment before this unbearable beauty.

The strings, the synths, not only hover but point their feet, claim space and penetrate the eardrums with that sweetness that disarms and overpowers. Combined with the voice and guitar, they become lead with petals in plain sight....

Avant-garde, originality are grounds that belong to the memory (in the musical sphere certainly), but how beautiful is it to note the exception that lives in this swarm, in this beehive, in this roar of gentle strings?

Evocative harmonies, flashes of notes, syncopated bass strokes, almost invisible patterns, and then the flash, in a sweat of blood that sets off from Scotland to make a beautiful journey into our obscene ignorance. Here, then, is this record becoming the master of a perverse joy.


The sound is omnivorous, it devours the walls of the pentagram, and perfectly describes how much everything derives from classical music, from that pot that still boils the water of musical art, without hesitation. The stillness disturbs those who experience tidal waves, it disrupts them and makes them angry. The three of them, young marmots in the forest of pain, search for the leaves to make the intuitive films branch out, crossing the boundaries of the conscious, immobilising the unconscious, and then establishing the shifts of the thoughts that arise, chase each other, and bring us down.

‘Cold waves divide us’: this is the translation of the title, a deception, a truth, a clarification, a perfect ploy to focus attention on relationships, with oneself, with others, to create an emotional jungle in the Arctic pole. The cold does not melt but only chooses the best temperature to preserve and, therefore, to remember. And the album reminds us of how the ancient fragrances need a reminder, like a mental cocaine to pull up, in our foggy brains.


Crying is a gift that the soul offers to your belief that you are stronger than anything. When the songs change your mood and the flow of thoughts becomes intolerable and ungovernable, then you realise that you are faced with an enormous power, not equal to your own, and therefore you come to terms with an enormous fragility. In this case positive and capable of making you a chick in its first day of life. These are unknown information, not tracks, pills of atoms in a square sphere, not tracks, gaseous flames in which to faint from the beauty and certainly not from their toxicity, but never tracks: it would be diminishing their value if we thought that. 

Midas Fall arrive in the hemisphere of emptiness: their sublime talent (not touchable, but only usable as long as one does not enter their gaseous dumps), descends into the perimeter of perfection with the only true Masterpiece of the last ten musical years.

There is a known and an unknown that together tear apart the certain and program it for a dutiful escape.

If we really want to consider it an album, let's just say that the multitude of forms of communication here are assembled and amalgamated to leave one utterly astounded. 


We move the light, behind our backs, and enter these floral craters, one by one...



Song by Song


1 - In the Morning We'll Be Someone Else


The beginning of this masterpiece is an investigation of stylistic form, a hint of nerves, a beating in the dust: Dry, melodic, nuclear in the effect of a collapsing intimacy, it uses the atmosphere of a dream, with the slowness and drumming attempting to advance the brushes of these distant fragrances, while the vocals take the electronic part of the piece by the hand, in the chemical outpost of an ethereal manifestation of light that leaves, abandoning all comparisons with what the band had written before. Overture and torture: one immediately weeps with the shoegaze guitar lifting notes to a distant sky...



2 - I am Wrong


The rhythm enters like the spectacle of a decadent forest in the process of containment: the perspective plan is that of a race, instead, although the musical cadence suggests a tribal dance, sadness and melancholy govern these pills of ancient guitars, very close to the early eighties, when little was needed to say a lot... The coda of the song is an electric circuit of clouds and drumming that hypnotises the song form, to grant the return of Elizabeth who does justice with her vocal discipline.

Different musical genres mute here, cross over and then become spectators in the final seconds where everything becomes synthesis...



3 - Salt


Memories of Evaporate return, reminding us of their last album from five years ago: there are compositions born to be a racket inside the six-string, supported by ethereal vocals, almost demure strings and orchestration that passes from ancient to modern with ease, only to become a pill of the most profound post-rock sadness and misery...



4 - In This Avalanche


Elizabeth's lyrics are stings, the music the fabric over which she sweeps in her contemplation gentle and kind only in appearance. A music box, in the form of a loop, paves the way for a harmony that centrings the energies, then explores the sky when the voice closes in silence. Piano and synth make love to a guitar that smells of Dream Pop but is free of conditioning. And indeed she does not miss her appointment with an imaginative attitude that takes her elsewhere. A lullaby can also be a wicked but enchanting arrow...



5 - Point of Diminishing Return


The only instrumental track is instead an atypical Gregorian chorus: everything is elevated to prayer, modern, atheistic, disengaged from faith, to become a post-rock birth close to that of Leech, to give the notes a space on which to insert inserts and textures that conclude the path by inventing the rule of the sudden limit. Glacial, austere, with a sublime sadness, the song acts as a perfect bridge between the first part of the album (attentive and thoughtful) and the second (gasping with a silk jacket in her hair), in order to stun the senses and capture attention: where a splendid voice is absent, there can be music that reproduces the effect, and this happens, inexorably, on this occasion...



6 - Monsters


Once upon a time there was Mazzy Star. Low. And a plethora of bands looking for the voice to perfect the artistic path. It happens, in this case, that two parallel universes meet. In the meantime, everything becomes a harrowing episode in which guitars look at the thin horizon between post-rock and shoegaze to become the progressive form of an ancient rock. And Elizabeth's kills all reluctance, to the point of fogging the glass with sobs from the snare drum and guitars in gaseous exploration...



7 - Atrophy


Where the sky ends, Atrophy lives: the sense of death amidst the bubbling of a song that rapes the heart and a guitar footstep that advances to become an ethereal, rarefied dream, convince us that this episode is so capable of destroying defences that the soul concentrates on the heartbreaking farewell of forces in free fall. A mantra that leaves burrs in the morning of a resounding insight: drawing for real the place where it all ends...



8 - Cold Waves Divide Us


The synthesis, the prophecy, the passionate flurry of a day in which contact is made with discomfort: this track is the safe of the band's new impetus, the probe that from slowness and conceptual precision comes out widening the rhythm, the visual perimeter, and makes the loop and the delay of the guitar shine to concentrate a musical truth that is indisputable for them, which is that of never repeating a rainy day without allowing themselves multiple inputs. Here then, the musical genres present here are diverse but, given the invoice of the composition, they hide their noses, leaving only their arms to be glimpsed...



9 - Little Wooden Boxes


Nature becomes a musical note.

The breath of instruments a blink of an eye.

Words like swans in a polluted flight.

What lives on in the album's penultimate composition is a gentle and clean reinforcement of the stylistic code of this incredible journey: dilations, incursions of single chords and the slowness of the progression so close to Post-Rock without, however, entering into those parameters. The voice, with its evocative mode, explores the progression without following its shadows, and it is pure miracle of a perfect combo...



10 - Mute


The incipit is cavernous, a wreck on a nervous wave, a malaise that relies on the voice to create a short roar, not dry, but perpetually constricted by the few notes of a bewitched piano full of evil beauty, to prevent the whole from dying.

It needs no refrains, no boorish gimmicks as it is entirely similar to the typical mode of Nick Cave's old Bad Seeds: give the bass the sceptre and then invest in the fluorescent mantle of a musical apparatus to back it up. 

To arrive at the dilation, the ductility of Shoegaze that governs mystery and Post-Rock, here in the guise of a restraining magician.

Sacred, virgin, nefarious in the positive sense, the song closes this masterpiece like a drop of dew: let beauty be celebrated amidst the rose garden of endless tears...


Alex Dematteis (Vecchio Scriba - Old Writer)

Musicshockworld

Salford

7th December 2024


https://open.spotify.com/album/7HE5PoausnMjJAoco3miw2?si=PhDhAlwiQtGZEgr23y6j1Q


https://www.midasfall.com/home



La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...