domenica 12 maggio 2024

La mia Recensione: Chants Of Maldoror - Ritual Death


 

Chants of Maldoror - Ritual Death


Un nido d’api abita nel cratere del cielo, a bordo di un veicolo che lo trasporta tra le diverse forme di ingresso in studi e perlustrazioni, e nel quale quattro insetti ci mettono a conoscenza di ciò che accade. Il tempo, gli spettri, gli andamenti tellurici, i sospetti, i drammi, il dibattito religioso, il rispetto della morte, gli assassinii, genuflessioni umane sapienti, i tranelli dell’esistenza: è solo l’inizio di questa esposizione di materia in ebollizione, dove il contenuto risulta essere un fascio sonoro che scartavetra gli spiriti e li rende liberi, mediante contaminazioni e fluidi apparentemente indigesti, con un nero che diventa la luce per vedere l’intensità di un processo che conosce l’evoluzione e il suo opposto.

Le quattro api di Frosinone e dintorni mettono su una cassetta il magnetico processo di miscelazione e processione di un incanto piangente, un attraversamento delle condizioni note e quelle meno note del dolore, della fascinazione simbolica cara a queste menti gravide di interessi, dando all’occulto, al sondaggio dei segni, alla bellicosa bolla di scoperte il compito di rendere il tutto una questione solo apparentemente legata alla musica. L’ascolto comporta il sacrificio del trambusto personale, una detumescenza inaspettata, un rito di guarigione inatteso, violento, mai approssimativo, all’interno di una manipolazione funerea che vede due generi musicali non essere il senso ma il mezzo attraverso il quale si mostrano le cose più che sentirle, dando così modo allo stupore di essere materia in esposizione, una nuova scusa per le porte delle percezioni per esibire un lungo vestito pieno di merletti di anime davvero capaci di non avere paura.

Sette candelabri dalla pelle ruvida vagano nelle corsie dello spazio facendoci sentire il loro respiro, in un groviglio di tensioni e dolori lancinanti che non cercano alcuna consolazione: si è talmente inebetiti davanti a cotanta intensità, introspezione, che pare, alla fine dell’ascolto, di aver vissuto una serie di miraggi in cui la volta celeste ha voluto consegnarci segreti pesanti ma necessari per la consapevolezza di una conoscenza divenuta, brano dopo brano, più che necessaria.

Benvenuti, allora, ai nipoti del Conte di Lautréamont, che depongono la loro ghirlanda sonica sulle assi di un teatro tetro, lancinante, pieno di schegge e artigli, nel quale il ritmo, la forma, la densità delle canzoni riempiono il tutto di orgoglio e devastazione. In Italia una simile qualità percettiva non aveva mai trovato modo di essere vissuta. Non è necessario catalogare, gettare queste sapienti creature nel calderone di stupide definizioni, bensì dovremmo tutti ritrovarci nella commozione di un viaggio psichedelico e alchemico attraverso un tempio scoperto, come un incanto che si fa toccare.

È inutile andare a fossilizzare la curiosità all’interno di cosa ci può far ricordare quello che ascoltiamo qui: mi pare piuttosto più corretto diventare anime studiose che vogliono catturare ogni atomo di questa chicca assoluta colma di unicità da riscontrare, tra sacrifici e spine sul capo del nostro cuore, mai affranto ma pulsante di stelle contenenti segreti in fase di emersione.

Adolphe, David, Echo e Loren sono gli emissari, i corvi di grotte in costanti eruzioni, gli artefici di questo vagabondaggio che rende le nostre orecchie tumulti continui, febbricitanti e timorose. Le loro mani, le ugole, le propensioni sono un ardire, una sfida, un concetto, una trama bellica che ci conduce alla verità che nella sua scomodità ci abbellisce con patemi abili nell’ungerci la pelle e il pensiero. 

Viaggiatori del tempo e di incognite, i Chants Of Maldoror sembrano spiriti millenari con una vitalità ineccepibile e straordinaria: malgrado la quantità di meteore esplose nelle loro mani, la scrittura è ordinata, concentrata, capace di un sorriso macabro ma stupefacente, un miracolo nel baricentro delle loro grazie, processate, messe in ordine ed esposte come esplosioni nel nucleo di metamorfosi continue.

Partiti come emissari del Medioevo, intenti a conoscere i rituali che fanno inorridire la maggior parte delle persone, questi ragazzi già adulti spostano le intenzioni e si tuffano in una volontà artistica che solo apparentemente appare più “comoda”: in realtà divengono ancora più devastanti, tremendi cavalieri di battaglie e scontri con i moti dell’anima, studiosi ribelli, indifferenti al circostante, splendidi concentrati di capricci e ostinazioni a cui noi risulta semplice essere ubbidienti, per trasferire la conoscenza nel processo dell’esperienza.

Una decadenza che si trasforma in un luogo dove la rassegnazione, limpida, conosce impeti, e la frustrazione riesce a trasformarsi in una meravigliosa gioia più che mai atipica. 

Lo spettacolo conosce regole, circospezioni, tumulti soffocanti, stati di perdizione, all’interno di una trama mai confusa ma che diventa insostenibile solo per gli ignoranti e per le menti volutamente superficiali. Pallottole, rovi, preghiere senza Dei da raggiungere, inchini e devozioni dai linguaggi complessi: questo è il regalo offerto dai quattro senza richiedere sacrifici ma facendoci notare, in ogni composizione, che l’ascolto può generare promiscuità e abbandono delle volontà, in un rapimento che non lascia sconfitti.

Il suono, lama di metallo dalla pelle resa acida dai dolori impenitenti, è il Re del tutto, il principale maestro, l’anticipo di ogni pendio che si vivrà attraverso sequenze di accordi e ritmi che creano un boato e una discesa continua, per ossigenare il centro della terra. Il crooning, il recitativo della voce, le tonalità che sono grovigli di sangue con i libri in mano, sono appannaggio di Adolphe, sacerdote del buio, studioso incontenibile, attore e regista di un teatro interiore che fa tremare. La sua qualità più evidente è fare della voce la perlustrazione di anime in viaggio, un alunno intuitivo scevro però di legami con chi lo ha preceduto, per potersi sistemare, indomito, sul trono della bellezza.

Loren è un alchemico della melodia, uno sperimentatore, un discepolo della bellezza nera, indomito, con un impeto pieno di sale e miscele, come un druido che studia gli elementi della natura e li trasferisce sulla sua sei corde.

Echo è una bolla sonora che si stende sui tasti bianchi e neri di un synth e di un piano, per regolare la temperatura del dolore e creare piani emotivi dove tutto è adiacenza, un patto di strutture che si sposano con le altre forme musicali, per conferire al tutto sacralità.

David è il governatore degli istinti, il portiere che apre il rumore della terra e lo porta dentro i meccanismi malefici di Loren ed Echo, un trapezista del suo strumento, che definire basso è totalmente riduttivo. A lui il compito di manovrare gli umori, di pilotare i fasci emotivi dentro il ventre, di stabilizzare le onde magnetiche di una band che sembra essere una orchestra del Settecento, priva di inibizioni.

Quello che stupisce maggiormente nella musica dei COM è che ci si ritrova davanti a pennellate di suoni sulla tela della vita, per un’arte che sembra diversa da quella musicale, come un fraintendimento che però unisce entità diverse. Un processo creativo che parcellizza le conoscenze nei confronti di stili ormai irrigiditi dall’adorazione, in cui manca il processo critico. I quattro, invece, non fanno Death Rock o Gothic Rock, bensì inumidiscono la conoscenza con dipinti che disintegrano ogni convinzione, ribelli armati di intelligenza per essere fragori non voluti dal Ministero di quei due generi musicali…

Disobbedienti e anarchici, i ragazzi entrano nel labirinto di ogni tensione per destabilizzare anni e anni di convenzioni che sanno rendere inutili. C’è una piacevole arroganza da parte loro: non essere sudditi, ma regnanti inconsapevoli…

Meraviglia, e non poco, che non si possa sprecare tempo nel cercare riferimenti stilistici e culturali con questo gruppo, in quanto ciò che si evidenzia è una tortura personale innanzi al noto, sfuggendo continuamente per poter elevare la conoscenza in un campo dove le novità possono essere raggiunte.

Preferisco immaginare questo combo all’interno di uno spazio culturale che parta dall’origine degli spiriti, di impulsi che elevano il genere umano, passando dal Medioevo, per trasferirsi nel cielo, in un tripudio di sensi che espandono una necessità simile a una malattia che vivono con positività, degni del bacio della morte che li osserva compiaciuta. Creano un tappeto di putride incombenze, appuntamenti con catene e artrosi mentali, nell’idillio di un ghigno che da malefico diviene digeribile.

Attraversando gli abissi, fissano i pensieri dentro un crocefisso mentale in cui tutto è inchino e stupore, per liberare ipnosi e magnitudini in modo costante.

Aduniamoci, sospettosi e tremanti, attorno a questi sette candelabri, per  mettere per iscritto, prima di adorarli, le nostre paure…


Song by Song


1 - Reunion and Death

“I sink the knife in the mother’s heart

and the capes grow scarlet from violet”

Cavità metallizzate, vapori e fuochi fatui entrano nella coda di un funerale emotivo con il recitativo di Adolphe che regna sulle scintille sonore gravide di allucinazioni provenienti dalla baia di San Francisco.

Molto più di un teatro del dolore: qui, sin da subito, ci si ritrova catapultati nel fragore di un abbandono dove lo smarrimento è dato da chitarre acide, con impeti nucleari.



2 - Feast In Black (Mortualia)

“My soul is in shards, in and out of the way spot of my skull”

La lotta degli abitanti dell’inferno diventa un sacrificio inevitabile, e la voce, che pare lontana per non farsi raggiungere, declama versi inospitali, la morte nel suo manifesto trionfo del momento del funerale consente alla musica di essere eterea ma ribelle, con il synth di Echo che dà l’idea di dipinti tetri e malinconici e il basso a scandire ogni paura…



3 - Post Mortem

“Restless shapes are dancing on the blade of my knife”

Immagina, in una notte piena di fulmini, i Virgin Prunes a cena con i Bauhaus, tra litigi e risate impertinenti, in oscillanti adorazioni di gesti violenti comandati dai COM con grande intelligenza. Cupa, greve, lancinante esibizione di scomodità uditive nel fruscio delle api che lavorano per detergere l’ignoto all’interno della paura. Lancinante parata di suoni che incollano al vetro viscido di coscienze in tumefazione… 



4 - Resurrection

“Resurrection is real death!”

Si va a Francoforte, a bussare alla porta della casa di Varney Cantodea, per vederla danzare felice, per questa composizione che arriva dal Settecento, mentre, dopo un bagno di modernità, si sacrifica in un movimento breve ma efficace. Si contesta, si riduce la religione a una miseria evitabile, si fa spazio alla verità millenaria perennemente negata e l’ovvio trova la luce manifesta della volta celeste. Ridondante senza distorsioni, la canzone è il miracolo della seduzione gotica al suo massimo livello…



5 - Baptism Until The Angel

“Doesn’t appear the lost image of the end”

Scosse nevrotiche, lame sul manico di Loren, gramigna nella voce di Adolphe, qui mago nero della morte, messaggero con le borchie nel cuore, mentre si lancia nei solchi del basso e della drum machine, con la chitarra che indaga e crea pertugi…



6 - Red Communion

“With Angels crucified on red roses in bloom”

Lo scenario cambia, ci si ritrova in una chiesa ipnotizzata da Echo, maestra e pittrice in avanscoperta: dopo pochi secondi il brano diventa una allucinazione sensoriale al cospetto della paranoia, per catturare il sonno umano e catapultarlo nel baratro del tempo. Marziale, oscura, impenitente e malvagia, la composizione  riduce al minimo la melodia e l’armonia per essere caos e genuflessione paralizzante…  


7 - Requiem Aeternum

Sull’eterno riposo la band scioglie una nuvola sonora che appanna l’udito e ci fa precipitare nello sconforto, in una ritmica che inchioda mentre la voce fa accapponare la pelle e la mente vaga persa nel limbo dell’ignoto. Suoni come cadaveri freddi, dove solo il basso alla fine sembra ricordarci che stiamo ascoltando qualcosa di “umano”.

Un congedo sorprendente che fissa il valore della band laddove nessuno se lo aspetterà, perché chi precede vive il lutto della incomprensione…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
12 Maggio 2024



My Review: Chants Of Maldoror - Ritual Death

Chants of Maldoror - Ritual Death


A bee's nest dwells in the crater of the sky, aboard a vehicle that transports it between different forms of entry into studies and patrols, and in which four insects make us aware of what is happening. Time, spectres, telluric trends, suspicions, dramas, religious debate, respect for death, assassinations, wise human genuflections, the pitfalls of existence: this is only the beginning of this exhibition of boiling matter, where the content turns out to be a sound beam that unleashes spirits and sets them free, through contaminations and apparently indigestible fluids, with a blackness that becomes the light to see the intensity of a process that knows evolution and its opposite.


The four bees from Frosinone and the surrounding area put on a cassette the magnetic mixing and procession process of a weeping enchantment, a traversal of the known and lesser-known conditions of grief, of the symbolic fascination dear to these minds pregnant with interest, giving the occult, the probing of signs, the belligerent bubble of discoveries the task of making it all a matter only apparently related to music. Listening involves the sacrifice of personal turmoil, an unexpected detumescence, an unexpected, violent, never approximate healing rite, within a funereal manipulation that sees two genres of music not being the sense but the means through which things are shown rather than heard, thus giving astonishment the chance to be matter on display, a new excuse for the doors of perceptions to exhibit a long dress full of lace of souls truly capable of not being afraid.


Seven rough-skinned candelabra wander the aisles of space, making us feel their breath, in a tangle of tensions and excruciating pains that seek no consolation: we are so inebriated before such intensity and introspection that, at the end of listening, we seem to have experienced a series of mirages in which the celestial vault has wanted to deliver heavy but necessary secrets for the awareness of a knowledge that has become, track after track, more than necessary.

Welcome, then, to the grandchildren of the Count of Lautréamont, who lay their sonic garland on the planks of a bleak, excruciating theatre, full of splinters and claws, in which the rhythm, the form, the density of the songs fill the whole with pride and devastation. In Italy, such a perceptive quality had never before been experienced. There is no need to catalogue, to throw these wise creatures into the cauldron of silly definitions, but rather we should all find ourselves in the emotion of a psychedelic and alchemical journey through an uncovered temple, like an enchantment that can be touched.


It is useless to go fossilising our curiosity within what can make us remember what we listen to here: it seems to me rather more correct to become studious souls who want to capture every atom of this absolute gem full of uniqueness to be found, between sacrifices and thorns on the head of our heart, never afflicted but pulsating with stars containing secrets in the process of emerging.

Adolphe, David, Echo and Loren are the emissaries, the ravens of caves in constant eruption, the architects of this wandering that makes our ears tense, feverish and fearful. Their hands, their uvulas, their propensities are a daring, a defiance, a concept, a war weave that leads us to the truth that in its uncomfortableness embellishes us with pathos that greases our skin and our thoughts. 

Travellers of time and unknowns, the Chants Of Maldoror seem to be millenary spirits with an impeccable and extraordinary vitality: despite the quantity of meteors exploded in their hands, the writing is orderly, concentrated, capable of a macabre but astonishing smile, a miracle in the centre of gravity of their graces, processed, put in order and exposed like explosions in the core of continuous metamorphoses.

Having started out as emissaries of the Middle Ages, intent on knowing the rituals that horrify most people, these young people who are already adults shift their intentions and plunge into an artistic will that only apparently appears more ‘comfortable’: in reality they become even more devastating, tremendous knights of battles and clashes with the motions of the soul, rebellious scholars, indifferent to their surroundings, splendid concentrates of whims and obstinacy to which we find it easy to be obedient, to transfer knowledge into the process of experience.

A decadence that turns into a place where resignation, limpid, knows impetus, and frustration manages to turn into a marvellous joy that is more atypical than ever. 

The show knows rules, circumspection, suffocating turmoil, states of perdition, within a plot that is never confusing but only becomes untenable for the ignorant and the deliberately superficial-minded. Bullets, brambles, prayers with no gods to reach, bows and devotions with complex languages: this is the gift offered by the four without requiring sacrifices but pointing out, in each composition, that listening can generate promiscuity and abandonment of wills, in a rapture that does not leave one defeated.

Sound, a metal blade from the skin made sour by impenitent pains, is the king of it all, the main master, the anticipation of every slope that will be experienced through sequences of chords and rhythms that create a continuous roar and descent, to oxygenate the centre of the earth. The crooning, the recitative of the voice, the tones that are tangles of blood with books in hand, are the prerogative of Adolphe, priest of the dark, irrepressible scholar, actor and director of an inner theatre that makes one tremble. His most obvious quality is to make his voice the scourge of travelling souls, an intuitive pupil devoid, however, of ties with those who have gone before him, in order to settle, untamed, on the throne of beauty.

Loren is an alchemist of melody, an experimenter, a disciple of black beauty, untamed, with an impetus full of salt and mixtures, like a druid who studies the elements of nature and transfers them to his six strings.

Echo is a sound bubble that stretches across the black and white keys of a synth and a piano, to regulate the temperature of pain and create emotional planes where everything is adjacency, a pact of structures that marry with other musical forms, to give the whole sacredness.

David is the governor of instincts, the gatekeeper who opens up the noise of the earth and brings it inside the evil mechanisms of Loren and Echo, a trapeze player of his instrument, which to call bass is totally reductive. It is up to him to manoeuvre the moods, to pilot the emotional beams inside the belly, to stabilise the magnetic waves of a band that seems to be an eighteenth-century orchestra, devoid of inhibitions.

What is most astonishing about COM's music is that one finds oneself in front of brushstrokes of sound on the canvas of life, for an art that seems different from music, like a misunderstanding that nevertheless unites different entities. A creative process that compartmentalises knowledge in relation to styles that have been stiffened by adoration, in which the critical process is lacking. The four, on the other hand, do not make Death Rock or Gothic Rock, but rather moisten knowledge with paintings that disintegrate all convictions, rebels armed with the intelligence to be unwilling fragments of the ministry of those two musical genres.  Disobedient and anarchic, the boys enter the labyrinth of all tensions to destabilise years and years of conventions that they know make them useless. There is a pleasant arrogance on their part: not to be subjects, but unwitting rulers...

It is a wonder, and not a little wonder, that one cannot waste time searching for stylistic and cultural references with this group, as what stands out is a personal torture before the known, continually escaping in order to elevate knowledge in a field where novelty can be achieved.

I prefer to imagine this combo within a cultural space that starts from the origin of spirits, of impulses that elevate mankind, passing through the Middle Ages, to move to the heavens, in a jubilation of senses that expand a disease-like necessity that they live with positivity, worthy of the kiss of death that observes them smugly. They create a carpet of putrid encumbrances, appointments with chains and mental arthrosis, in the idyll of a grin that from evil becomes digestible.

Crossing abysses, they fix thoughts inside a mental crucifix in which everything is bowed and astonished, to release hypnosis and magnitudes in a constant way.

Let us gather, suspicious and trembling, around these seven candelabra, to put in writing, before worshipping them, our fears...


Song by Song


1 - Reunion and Death

‘I sink the knife in the mother's heart

and the capes grow scarlet from violet’.

Metallic cavities, vapours and fatuous fires enter the queue of an emotional funeral with Adolphe's recitative reigning over the sonic sparks pregnant with hallucinations from San Francisco Bay.

Much more than a theatre of sorrow: here, right from the start, one finds oneself catapulted into the din of an abandonment where the bewilderment is provided by acid guitars, with nuclear impetus.



2 - Feast In Black (Mortualia)

‘My soul is in shards, in and out of the way spot of my skull’.

The struggle of the denizens of hell becomes an inevitable sacrifice, and the voice, seemingly distant so as not to be reached, declaims inhospitable verses, death in its manifest triumph of the moment of the funeral allows the music to be ethereal but rebellious, with Echo's synth giving the idea of gloomy and melancholic paintings and the bass scanning every fear...



3 - Post Mortem

‘Restless shapes are dancing on the blade of my knife’

Imagine, on a lightning-filled night, the Virgin Prunes dining with Bauhaus, amidst bickering and impertinent laughter, in swinging adoration of violent gestures commanded by the COMs with great intelligence. Gloomy, grim, excruciating display of auditory discomfort in the rustle of bees working to cleanse the unknown within fear. Lancinating parade of sounds gluing to the slimy glass of swelling consciences....


4 - Resurrection

‘Resurrection is real death!’

One goes to Frankfurt, to knock on the door of Varney Cantodea's house, to see her dancing happily, to this composition that comes from the 18th century, while, after a bath of modernity, she sacrifices herself in a short but effective movement. Religion is challenged, reduced to an avoidable misery, space is made for the perennially denied millenary truth and the obvious finds the manifest light of the heavenly vault. Redundant without distortion, the song is the miracle of Gothic seduction at its finest...



5 - Baptism Until The Angel

‘Doesn't appear the lost image of the end’

Neurotic tremors, blades on Loren's neck, weed in the voice of Adolphe, here a black magician of death, a messenger with studs in his heart, as he launches himself into the grooves of the bass and drum machine, with the guitar investigating and creating pertuosities...



6 - Red Communion

‘With Angels crucified on red roses in bloom’.

The scenery changes, we find ourselves in a church hypnotised by Echo, an advancing teacher and painter: after a few seconds the track becomes a sensory hallucination in the presence of paranoia, to capture human sleep and catapult it into the abyss of time. Martial, dark, unrepentant and evil, the composition minimises melody and harmony to be chaos and paralysing genuflection...  


7 - Requiem Aeternum

On the eternal rest the band dissolves a cloud of sound that fogs the hearing and plunges us into despondency, in a rhythm that nails while the voice makes the skin crawl and the mind wanders lost in the limbo of the unknown. Sounds like cold corpses, where only the bass at the end seems to remind us that we are listening to something ‘human’.

A surprising farewell that fixes the band's value where no one will expect it, because those who precede live the grief of incomprehension...


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
12th May 2024

 

Links song by song:


https://www.youtube.com/watch?v=hlxCiH0yDMU


https://www.youtube.com/watch?v=_Ps7VmXJjy4


https://www.youtube.com/watch?v=mA4O1Za6bVQ


https://www.youtube.com/watch?v=sDyevx7xIWI


https://www.youtube.com/watch?v=vzBUMKnk63c


https://www.youtube.com/watch?v=3o6_mB18E2M


https://www.youtube.com/watch?v=bt-r54BtZ1o








giovedì 9 maggio 2024

La mia Recensione: Joy Division - Closer


 

Joy Division - Closer


“Il dolore più grande del mondo è quello che, goccia a goccia, trafigge l’anima e la spezza”

Francisco Villaespesa


Nella storia umana esistono legami che si tramandano senza che ci sia il contatto diretto, come una traiettoria che oscilla nascostamente. In questo caso stiamo parlando della Odissea, il trapianto delle avventure più estreme che, nel marzo del 1980, in soli tredici giorni, ha deciso di entrare nel corpo musicale di un progetto pieno di sintomi adiacenti all’originale, un viaggio catastrofico e allucinante, planato nella radura fredda degli studi Britannia Low, a Islington, Londra, per consegnarci non un idillio bensì il metro che misura la differenza tra il bene e i malesseri più estremi.

Tra Salford e Macclesfield esistono 41 chilometri e i quattro ragazzi si spartivano questa distanza recandosi a Manchester, la cupola grigia dell’esistenza più torbida e sconquassata. Il divertimento consisteva nella fuga dalla realtà, creando isole immaginifiche all’interno di un circuito elettrico fatto di note musicali ed estremi paradossi. La cultura della città lasciava l’ozio dei primi anni Sessanta e nel bel mezzo degli anni Settanta sprintava per accaparrarsi simpatie, favori e il consenso delle stelle. I Joy Division furono la frattura più evidente, ma mai vennero ostacolati: i Buzzcocks intravidero la loro nera bellezza e li accolsero per un tour durante il quale i JD scrissero le 9 canzoni che dettero a Unknown Pleasures un triste primato, vivo ancora oggi, ovvero quello di fare un album nuovo che smentisse molta di quella attitudine senza mancare però di qualità. Closer è un urlo ragionato, diabolico, magnetico, un’onda magmatica di stanchezze, introspezioni, una febbre in bianco e nero che permane, senza esitazioni. Raccoglie i detriti di un’anima allo sbando, il pulsare entusiasta degli altri tre componenti, giovani pieni di vitamine e speranze, deliziosi fannulloni in cerca di uno status che li porti via da questo agglomerato urbano sempre più in conflitto con la vita quotidiana. I testi, infatti, sono un diario giornaliero nei quali i pensieri non sono assunti a manifestazioni artistiche disarticolate dalla realtà ma ne sono invece il calco, l’impronta, lo scatto attitudinale di una volontà che si precisa nell’affermazione della debolezza come il limite che non può essere battuto. Nove composizioni divise in due lati: il primo gravita dentro la sistematica intenzione di mostrare l'inaccessibilità, il non piacevole che richiede il congelamento riuscendo però a far sudare l’anima. Il secondo è un ammasso di pensieri in totale putrefazione che si fanno accompagnare da musiche tetre, lapidarie, piene di pioggia e vento, per portare lontano, nel ricordo postumo, un’assenza di energia che somiglia a un canto senza i magneti della disperazione.


Sin dalla copertina, dove viene eliminato il significato religioso (della Madonna appare solo un braccio e il Gesù di Nazareth è quasi totalmente nascosto), capiamo che siamo innanzi a una immagine che non riassume il contenuto bensì indica la partenza, l’intenzione, l’estrema bellezza e intensità della fascinazione nei confronti della morte, qui mostrata nell’atto della vicinanza, dell’accoglienza, della spartizione delle lacrime. Ma il secondo lavoro dei JD non è una sintesi del dolore, nemmeno un cielo che attraverso l’esaltazione possa condurlo alla devozione. È un resocontare con la bilancia su un palmo e lo sguardo smarrito sull’altro, in un gioco dinamico di forze in grado di far perdere le coordinate. Closer è un boato sotto forma di un giocattolo con le guance essiccate attraverso un Post-Punk chirurgico che contempla l’assunzione di nuove metodologie espressive. Ecco, dunque, nei solchi apparire, “dolcemente”, i pruriti di una Coldwave spaventata, i primi vagiti di quella Darkwave che si prenderà la giusta quota di responsabilità subito dopo l’uscita di questo gioiello. Non mancano quote di una psichedelia elaborata e di una propensione a dare ai rumori quella validità che nella musica industrial poteva anche procurare fastidi. Il disco, per mezzo della maledetta capacità di Martin Hannett di raggiungere quella perfezione non gradita dai quattro, mummifica l’emozione (quella spontanea) per generare un corto circuito mentale nel quale lo smarrimento, la paura e la tensione fanno sembrare il tutto il frutto di una proiezione cinematografica, per consentire all’horror e al drammatico la convivenza, non forzata.

Troppo si è detto sul suicidio di Ian Curtis, del testamento e di tante altre gratuite ingenuità e sciocchezze: ci troviamo, invece, nel territorio di espressioni sbilanciate, impeti ingovernabili, gioia e dolore come una pastoia inevitabile, con la capacità di suscitare pensieri pieni di magneti sanguinei in costante caduta. Ian parla di se stesso e lo fa davanti a un microfono: nessun testamento conosce questa dinamica…


Dovremmo pensare a come per una volta la musica si sia disinteressata dei testi e che solo una magica congiunzione abbia potuto far credere a un legame tra le due parti. Ma Bernard, Peter e Stephen in quel tempo non ascoltavano nemmeno il cantato del povero ragazzo diviso e atrofizzato dagli spasmi. Dopo quarantaquattro anni si può affermare che sia stato un bene, una coincidenza strabiliante da lasciare sbigottiti. 

I temi affrontati nel disco sono circumnavigazioni spettrali, con la fatica incollata alla mancanza di ogni speranza, un lucidare la morte spegnendo la vita, depositando i sogni nel caveau dove ogni interesse non poteva maturare. Eretto, nerboso, elettrico e potente, una incudine lenta con accelerazioni che precedono la lunga processione che conduce nella zona del silenzio che può consegnare la verità. I brani sono uniti solo dal fatto che i musicisti e la voce risultino  perfettamente riconoscibili: per il resto è una slavina che scompone ogni armonia e la delicatezza muore secondo dopo secondo, snervando i sogni e le velleità per conquistare un eremo che si chiama Capolavoro, quello che non rende felice nessuno, il più triste che si possa immaginare…

Tutto, in questo getsemani moderno, si dirige verso la non piacevolezza e l’urto incombente tra il desiderio di sentire come procede e l’assoluta volontà di spegnere ogni transistor.

Ed esistono ancora persone che definiscono questo lavoro “dark”...

Il delicato vetro di quest’ultima creazione non è nient’altro che un circo dove il clown non esce, mostra il suo trucco attraverso ombre cinesi, e i cavalli, quelli di solito non domati, qui si siedono e si fanno pettinare la criniera dalle lacrime congelate di Ian, assoluto protagonista, non voluto, di un assolo lacerante, verso dopo verso. L’atmosfera, plumbea e vibrante, conduce spesso al fastidio, alla reazione di anime che vorrebbero negare la vera identità di un ascolto che spezza lo stomaco. Riti, ideali, dispersioni, scontri, dal “No Future” del Punk al “Sono fottuto”: sembrano essere passati tanti anni e invece no, i Joy Division con questo gioiello dimostrano come ogni impeto possa perdere foga e trovare la melma di attriti sempre più coscienzosi e capaci. Sconvolge il fatto che la band dimentichi la poesia della metodica Post-Punk, fatta di riferimenti letterari della fine dell’Ottocento per divenire l’avamposto di una serie di furibonde analisi introspettive: forse è proprio per questo motivo che la definizione del genere nei confronti di Closer perde valore, in quanto veniamo catapultati su un lettino scoprendo che uno psichiatra fatica a raccogliere informazioni. Avviene per le parole come per la musica: la forma canzone, solo apparentemente, aiuta a credere che la pazzia non sia una molla che prende la vita e la fa rimbalzare ordinatamente. È esattamente il contrario e da qui inizia la difficile gestione di artrosi, artriti e degenerazioni che parrebbero cadere nel lago del malcontento. 


Si debbono individuare le zone di appartenenza, quelle di rifiuto, quelle nelle quali la band si scontra con se stessa, con il produttore, con il tempo che non sembra in grado di accettare che questi figli non vigilino sul reale, ma decidano invece di posizionarsi sulla coda del tempo per dare una serie di addii. Muore tutto in queste nove canzoni, nessuna ipotesi di copia e incolla, di una riproduzione o di una continuazione, perché il vero capolavoro è quello in cui il proprio senso, il proprio spazio, nella collocazione misteriosa che non mette a proprio agio nessuno, sia un archivio irraggiungibile anche per il futuro.

Closer, dall’iniziale terremoto sensoriale, diventa una galassia in continua esplosione, tra ritmi tribali, circonferenze genetiche in ebollizione e la smagnetizzazione di ogni fiducia. Non può e non deve piacere questo insieme di tensioni, ma devono essere insegnanti ingobbiti dalle diottrie dubbiose in quanto, forse, il primo guadagno di questo lavoro è proprio quello di dare alla vista meno importanza possibile. Ed ecco quindi che l’apparato uditivo si trova a soccombere, incapace di gestire queste non canzoni, queste disarmonie, stonature, ansie, apprensioni e suoni cadaverici che sotterrano ogni sorriso.

Ha una collocazione temporale scolorita dalla mancanza della conoscenza e della memoria da parte di chi quegli anni non li ha conosciuti, vissuti, desiderati: molti album del 1980 sono coperte lise, bucate, assottigliate, e se questo ha resistito è solo apparentemente per un legame con la tragedia.

Ora è tempo di scendere nelle corsie di queste composizioni per assestare alla consapevolezza un uppercut deciso, perché nulla è concesso all’ascolto se non avere un vuoto vicino nel quale gettarsi…


Song by Song


1 - Atrocity Exhibition

Con un inizio tribale da cui i Cure prenderanno moltissimo, si entra nella zona della non melodia, di una continua infiltrazione psichedelica che viene controbilanciata dal cantato di Ian, l’unico in grado di dipingere una sottile linea armonica. Ma è un tripudio di suoni, sciabolate, con il basso che pare affiancarsi al funk per rallentare la venatura acida dell’approccio chitarristico di Bernard, mentre Stephen mette ghiaccio nelle vene per una omogeneità, non voluta, con le parole del cantante. Un inizio snervante, lungo, che subito mette in chiaro le cose: Closer non sarà la festa dei sensi ben pettinati…



2 - Isolation

Unknown Pleasures si affaccia solo per il basso pieno di nevrosi e il drumming, per il resto avvertiamo la presenza di un synth che getta la band in una nuova zona e prospettiva: precedere il tempio della musica con una esagerata esibizione di mute espressioni in circospetta esibizione. Pare mettere dosi di allegria quella tastiera ma, invece, il brano è una splendida contorsione, nel dirupo di una solitudine che avanza e reclama attenzione. Si danza come robot in prestito dai Suicide, evidenziando piuttosto i confini di un rock in fase di escursione. 



3 - Passover

L’autonomia dell’intenzione, quando è ingravidata da certezze nerastre, si fa supportare da chitarre accennate e taglienti, un basso quasi nascosto, un drumming semplice ma militare, sino a quando si scopre una evoluzione che genererà, nell’arpeggio di Bernard, un nuovo genere musicale di cui i The Sisters Of Mercy saranno i primi discepoli. Ian è un rabdomante calcolatore, spietato, chirurgico, mai impulsivo, trattiene la catastrofe dei versi in un cantato che sembra solo apparentemente privo di ogni emozione. Brano che mostra lo scricchiolio dell’anima e una capacità della musica di continui allarmi, la non voglia di trovare un momento in cui la canzone possa conoscere vette diverse. Misteriosa, dilegua in ogni suo movimento il desiderio di vivere…



4 - Colony

L’attacco glam, poi via, dopo pochissimi secondi, nei territori dei Killing Joke, dove il nervosismo passa attraverso i cavi, le rullate e le oscillazioni di una chitarra epilettica…

Roboante, sfibrante, una progressione di tagli sulla pelle e la sensazione di una gemma che desidera nascondersi…



5 - A Means to an End

Il futuro conosce se stesso solo dopo la morte: questo miracolo balistico spazza via la storia del Post-Punk, di ogni dottrina preventiva per spalancare lo stupore e irrigidire i nervi. Invita la danza a rimanere legata come una prostituta mentale, per generare delirio e maldicenze varie. Il primo momento di una costruzione scheletrica dei futuri New Order appare come un arcobaleno in decadimento, che misura le cose, gli impeti, affidandosi a una chitarra che pare figlia dell’album Scream dei Banshees. Ma il basso di Hook è il vero mantra, colui che ipnotizza prima che il cantato baritonale di Ian ci sequestri l’anima per l’eternità….



6 - Heart and Soul

Una vita, gli eccessi, gli estremi, le calamite, i disordini e l’ubbidienza a un destino da scrivere in fretta assorbono l’intera composizione con un cantato quasi dolce, perfettamente intonato, quasi potente, del tutto devastante, all’interno di una architettura che non indugia ma che trova il metodo per strutturare il tutto in pochi movimenti sino a dare, nel finale, l’impressione di un abbandono volontario a se stessa. Tutto è accennato, misurato, scheletrito, raffreddato, messo nella cantina delle decisioni che logorano i nervi, annichilendoli…



7 - Twenty Four Hours

Il manifesto e l’apoteosi di un attorcigliamento dei muscoli trova la pulsione Post-Punk all’interno di bacilli e virus che rendono l’ascolto un cielo in caduta libera, senza appigli. Magnetica, buia, devastante, affida al terzetto musicale il compito di disegnare lacrime, mentre a Ian tocca illuminare il disastro esistenziale, in un epilogo che frantuma ogni sogno. La voce, sapientemente illuminata dalle polveri oscene di un villaggio artico, rende inutile ogni gioia, con l'imbarazzo di un ascolto che potrebbe, da solo, spezzare ogni respiro…



8 - The Eternal

Martin Hannett scrive il suo epitaffio con la band di Manchester, donando la sua classe a una canzone che non è altro che una processione misurata dal minimalismo di un piano che tocca le lacrime portandole dentro le parole di Ian, per dare a questo palcoscenico l’odore di macerie intellettuali e fisiche, in un abbandono floreale che incanta sebbene paralizzi. Si entra nell’intimo, nei posti normalmente inaccessibili, di un'anima in litigio con se stessa, dove la frattura evidente si specchia nella teatralità di cupe e avide atmosfere. Muore la Musica attraverso uno spettro cupo rimbalzante nella voce piovigginosa che annichilisce il pianto. Niente di simile era mai apparso prima e non troverà il futuro a sospirare per un seguito: il brano è una processione che oltrepassa le definizioni, perché inserito in una nuvola che si dissolve secondo dopo secondo…



9 - Decades

L’ultimo petalo è sintetico, una tastiera che sembra uscire da un videogame in bianco e nero, un progressivo e lacerante consumo di ogni vitalità entra nel cimitero dei sogni a sincronizzare la giovinezza con la vecchiaia di ogni volontà, nella sfibrante decadenza di una esistenza che cancella ogni scatto. Un assolo della tastiera conduce Ian a porre una domanda che mette l’assenza sul trono, a testa bassa, in uno spazio dove ogni respiro nel microfono diventa un grido sincopato che non fa altro che pronunciare una sentenza obbligatoria, lasciando il cuore nella sua dannazione. Secca, come una tavolozza acrilica senza pulsioni, la canzone esalta il mood dell’album e abbraccia la band nel suo saluto: non esiste addio quando la storia ha deciso che questo lavoro rappresenterà un unicum per i posteri, con l’imposizione che nulla dovrà assomigliargli…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9 Maggio 2024


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