sabato 30 novembre 2024

La mia Recensione: At Swim Two Birds - Quigley’s Point


At Swim Two Birds - Quigley’s Point


Vini Reilly è un mago che affitta scene celesti, Johnny Marr le trasforma in vento, Roger Quigley mette entrambi sui suoi polpastrelli dorati e affitta camere piccole in cui rendere solidi i sogni. 

Potrebbe bastare questo incipit per dire dove alberga la cifra stilistica di un pittore che ha scritto un album sulla sua relazione di coppia con una ragazza dolcissima: la musica riproduce i suoi lineamenti, la sua risata accomodante, le polveri di fumo di pipe perennemente accese e la voglia di adoperare la sei corde come un tam tam amoroso sempre a disposizione dei suoi fulmini.

Non esiste il passato al momento della scrittura di queste lettere che cercano nella memoria una sospensione dal dolore, un urlo reso ubbidiente alla natura di una mente votata all’abbraccio.

Nutrire le lacrime di anestesie continue è una gran fatica. Lui lo sa e decide di pubblicare la sua delusione affiancandole granelli di gioia, con un cantautorato più sottile rispetto ai The Montgolfier Brothers che, con Mark Tranmer, avevano fatto scoprire come Nick Drake e Tim Buckley, con meno enfasi e maggior predisposizione al racconto, potevano sembrare dei bravi ragazzi, oltre che belli.

Poi la fine (Roger ne ha conosciute molte…) ha determinato il ritorno a Salford, lui che ci era nato, lasciando a Manchester solo alcune puntate mensili.

In una stanza annoiata e in attesa di un terremoto, il biondo autore riempie i posaceneri e gli spartiti, con arpeggi che passano dal folk americano al fado portoghese, al dream pop più intimo, per poi scrivere parole capaci di accarezzare i capelli dei suoi ricordi.

Il suo cantato è rispettoso, senza acredini, lasciando ai lunghi assoli arpeggiati la modalità della disintegrazione del dialogo.

Utilizza, per il suo primo vero episodio solista, registrazioni di strada, le sue camminate nei parchi, gli uccelli, i lavori in corso, sequestrando la nebbia di Weaste e Langworthy per poi circondarli di elettronica e primordiali software al fine di raggelare il suo respiro triste.

Sussurra al microfono, prende fiato tra nuvole di fumo e poi si getta nella scrittura di atmosfere che sembrano nate per un film in cui i volti e le storie sono intrisi di incertezza e desolazione ma, credete al Vecchio Scriba, sono state molte le risate sul pentagramma e la certezza che un disco non sia una collezione, bensì una semina importante e decisiva.

Anticipando parte del New Acoustic Movement, che utilizzava pattern, midi, elettronica tenera e mai invasiva, il buon Roger stabiliva un nuovo confine tra la divulgazione e il mistero.

Per capirlo basta prestare attenzione alle lunghe suite musicali dove un fraseggio viene ripetuto ma mai con l’intenzione di divenire un loop, dati gli inserti tipicizzanti degli arrangiatori degli anni Sessanta.

In quel preciso momento tutto si fa buio, scompaiono le storie e la musica diventa una bocca muta in grado di far oscillare le emozioni.

Sul manico della sua Takamine scivolano dita nervose, lucide, con il diploma della beatificazione, vista la perfetta tecnica e l’abilità di raddoppiare spesso la sei corde con compiti precisi di lavoro, come gemelle che parlano lingue diverse, senza far mancare l’intesa.

Il suo background qui non trova posizione: i suoi ascolti erano rivolti alla musica della città, mentre in questo esordio solista siamo in giro per il globo terrestre e nel tempo, come se la libertà vera fosse il distanziamento dalla realtà.

E infatti i testi sono inganni, torture, come le musiche: pare un collettivo magico che cerca di addentrarsi nel creato per abbracciare gli ascoltatori.

Invece Dante e il suo Inferno sono proprio in questi solchi, in passeggiate con abiti finti e tanto vero dolore a setacciare la speranza.

Il Brasile, il Portogallo, la Swinging London, Parigi e lo scrittore da cui ha preso il nome il suo progetto con un romanzo favoloso sono i protagonisti principali, seguiti da una pletora di sogni ingarbugliati.

La Sarah Records riconobbe a Quigley il fatto di conoscere a memoria la modalità di incespicare con pura sanezza nei contorti esercizi chitarristici di cui Reilly e Marr sono stati maestri assoluti.

Gli archi, i ritmi spesso volutamente dispari e la produzione che ha cercato di anestetizzare l’abbondanza dei suoni sono i momenti di maggior intensità di questo vascello Salfordiano che si ricorda bene del porto e delle lotte con Liverpool.

A quest’ultima città Roger dà molto spazio: nelle introduzioni di diverse canzoni la magica atmosfera del Merseyside del 1975 e 1976 sembrano spuntare fuori come raggi lunari in libera uscita.

Credo, però, che l’aspetto più difficile da sostenere sia l’inclinazione del defunto talento a congedare il tutto, tra goodbye e farewell che si abbracciano facendo sì che l’ascolto diventi una ferita, esattamente come la scrittura di questi versi ipnotici, ma capaci di essere anche deliziose ostinazioni piene di sorrisi e charme.

Colpiscono alcune assenze, certe decisioni che hanno portato alla scelta di rendere poco gonfio lo strato interpretativo se non nell’episodio I Need Him, nel quale la sua devastazione viene trasformata in una accomodante forma gentile nei confronti di parole rubate a una realtà che stabiliva la fine di una relazione.

Due lati diversi, con strutture e dinamiche che ruotano dentro una progettualità che prevede un cammino longitudinale, in grado, cioè, di trasmettere la muta della pelle della sua anima, come un forcone che affitta baci dal fieno. 

La prima parte è un resoconto fedele di antiche felicità, la seconda un’amara constatazione del precipizio e infatti gli scenari stilistici cambiano.

Notevolissima è la tinteggiatura nell’ultimo brano fatto di coriandoli dream pop, da cui poi Tom McRae e i Radiohead hanno rubato a piene mani.

Sistematica modalità di una libertà pagata a caro prezzo, l’evoluzione del suo stile lo riporterà tra le braccia di Tranmer, anche se solo per un attimo. Ma questo album è un esercizio senza paragoni, vuoi per il romanticismo col cappotto nero e gli occhi che ancora cercano una bocca da sfiorare, che per canzoni che fanno riflettere su come la felicità sia solo l’avamposto della bomba atomica…

Un disco che ha generato orgasmi mentali e applausi da parte della critica: non si erano mai udite frammentazioni creare connessioni con la morbidezza, con l’educata propensione a grattugiare il lato meno duro di una decade che sembrava preferire i frastuoni ai sussurri.

Infatti certe esperienze toccano maggiormente quando si deve acuire l’ascolto.

E dopo più di vent’anni sembra che i segreti di questo gioiello continuino a emergere, facendo del volto delle sue composizioni uno splendido anfiteatro greco dove la poesia è un’arte inferiore: i versi di Roger sono immediati e riflessivi, non cercano la memoria, bensì il modo di dare a ogni attimo una rapida fuoriuscita… 


Alex Demattteis

Musicshockworld

Salford

1 Dicembre 2024


https://open.spotify.com/album/4r8D9GORVR1xg7sMUS7hjl?si=eLO0-msNTnWai3rhVB-aEA


 






My Review: At Swim Two Birds - Quigley’s Point


 At Swim Two Birds - Quigley's Point


Vini Reilly is a magician who rents heavenly scenes, Johnny Marr turns them into wind, Roger Quigley puts both on his golden fingertips and rents small rooms in which to make dreams solid. 

This incipit might be enough to say where the stylistic figure of a painter who has written an album about his relationship with a very sweet girl dwells: the music reproduces her features, her accommodating laugh, the smoke dust of perpetually lit pipes and the desire to use the six-string as a loving tam tam always at the disposal of his lightning bolts.

There is no past at the time of writing these letters, which seek in memory a suspension from pain, a scream made obedient to the nature of a mind devoted to embrace.

Nourishing the tears of continuous anaesthesia is a great effort. He knows this and decides to publish his disappointment side by side with grains of joy, with a more subtle songwriting than that of The Montgolfier Brothers who, with Mark Tranmer, had made us discover how Nick Drake and Tim Buckley, with less emphasis and more flair for storytelling, could sound like good guys, as well as beautiful.


Then the end (Roger has known many...) brought about a return to Salford, he who had been born there, leaving Manchester with only a few monthly episodes.

In a bored room waiting for an earthquake, the blond songwriter fills his ashtrays and sheet music, with arpeggios that move from American folk to Portuguese fado, to the most intimate dream pop, and then writes words capable of caressing the hair of his memories.

His singing is respectful, without bitterness, leaving the disintegration of dialogue to the long arpeggiated solos.

He uses, for his first real solo episode, street recordings, his walks in the parks, birds, work in progress, sequestering the fog of Weaste and Langworthy and then surrounding them with electronics and primordial software to chill his sad breathing.

He whispers into the microphone, catches his breath amidst clouds of smoke and then throws himself into writing atmospheres that seem to have been born for a film in which faces and stories are imbued with uncertainty and desolation but, believe the Old Scribe, there have been many laughs on the stave and the certainty that a record is not a collection, but an important and decisive seeding.

Anticipating part of the New Acoustic Movement, which used patterns, midi, soft and never invasive electronics, the good Roger established a new boundary between disclosure and mystery.


To understand this, one only has to pay attention to the long musical suites where a phrasing is repeated but never with the intention of becoming a loop, given the typical inserts of the 1960s arrangers.

At that precise moment, everything goes dark, the stories disappear and the music becomes a mute mouth capable of swinging emotions.

Nervous, polished fingers glide over the neck of his Takamine, with the diploma of beatification, given the perfect technique and the ability to often double the six-string with precise work assignments, like twins speaking different languages, without lacking in understanding.

His background has no place here: his listenings were aimed at the music of the city, whereas in this solo debut we are wandering around the globe and through time, as if true freedom were the distancing from reality.

And indeed the lyrics are deceptions, torture, like the music: it sounds like a magical collective trying to reach into creation to embrace listeners.

Instead Dante and his Inferno are right in these grooves, in walks with fake clothes and so much real pain to sift through hope.


Brazil, Portugal, Swinging London, Paris and the writer after whom his project was named with a fabulous novel are the main protagonists, followed by a plethora of tangled dreams.

Sarah Records credited Quigley with knowing by heart how to stumble with pure sanity through the convoluted guitar exercises of which Reilly and Marr were absolute masters.

The strings, the often deliberately odd rhythms and the production that tried to anaesthetise the abundance of sounds are the most intense moments of this Salfordian vessel that remembers well the harbour and the struggles with Liverpool.

To the latter city Roger gives a lot of space: in the introductions of several songs the magical atmosphere of Merseyside in 1975 and 1976 seem to pop up like free-flowing moonbeams.

I think, however, that the most difficult aspect to sustain is the inclination of the late talent to say goodbye, between goodbyes and farewells that embrace each other, making listening a wound, just like the writing of these hypnotic verses, but also capable of being delightful obstinacies full of smiles and charm.                                 Certain absences are striking, certain decisions that have led to the choice of making the interpretative layer uninflated except in the episode I Need Him, in which his devastation is transformed into an accommodating gentle form of words stolen from a reality that established the end of a relationship.

Two different sides, with structures and dynamics that revolve within a projectuality that provides a longitudinal path, capable, that is to say, of transmitting the moulting of the skin of his soul, like a pitchfork renting kisses from hay. 

The first part is a faithful account of ancient happiness, the second a bitter realisation of the precipice, and indeed the stylistic scenarios change.

Remarkable is the hue in the last track made of dream pop confetti, from which Tom McRae and Radiohead then stole profusely.

A systematic mode of freedom paid dearly, the evolution of his style will bring him back into the arms of Tranmer, if only for a moment.                                 But this album is an unparalleled exercise, whether in romance with the black coat and the eyes still searching for a mouth to touch, or in songs that make you reflect on how happiness is only the outpost of the atomic bomb...

A record that generated mental orgasms and applause from critics: never before had fragmentations been heard to create connections with softness, with the polite propensity to grate the less hard side of a decade that seemed to prefer noises to whispers.

Indeed, certain experiences touch more when one has to sharpen one's listening.

And after more than twenty years it seems that the secrets of this jewel continue to emerge, making the face of his compositions a splendid Greek amphitheatre where poetry is an inferior art: Roger's verses are immediate and reflective, not seeking memory, but rather a way of giving each moment a quick escape…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1st December 2024


https://open.spotify.com/album/4r8D9GORVR1xg7sMUS7hjl?si=QSgE7qCjRmaOU7nBRsQBvA

giovedì 28 novembre 2024

La mia Recensione: BIPOLAR EXPLORER - Memories of the Sky


 

Bipolar Explorer - Memories of the Sky


Tre sopravvissuti fanno da ponte radio all’epopea terrena di anime disintegrate, saltate in aria in un cielo che desidera solamente mantenere la memoria di quello che è successo: si contemplano le ragioni del disastro, si sviluppa il seme della fine con suoni (e non canzoni) che, oltre a narrare, metabolizzano con una zoppia che esclude (tranne pochissime eccezioni) la forma canzone. Pare che nella testa dell’unico autore di questo mastodontico progetto (Michael Serafin-Wells) ci sia un computer attaccato a un cratere, con vermi, rapaci, scorie, trucioli, martelli e una valanga di scosse telluriche a illuminare la volta celeste nella celebrazione di una sconfitta prevedibile.

Vengono creati, quindi, percorsi millenari, racconti che escludono il cantato ma prevedono il crooning e lo storytelling di Summer Serafin e di Sylvia Solanas, che non sono niente altro che angeli femminili con le lacrime nelle corde vocali.

Il Big Bang iniziale non è nulla rispetto a questa processione di lava, bave e rantoli, nel cimitero rovente di un sogno in apnea. 

Si muovono le parole come comete stanche mentre il Moog Synth, la bowed guitar, le percussioni sono rattoppi di una ferita compressa tra queste lamiere sonore che sprofondano attimo dopo attimo.

Sembra un volo, quello di Birdy (e infatti quel Peter Gabriel che scrisse la colonna sonora potrebbe pensare di aver trovato dei nipoti molto più guerrieri e spavaldi di lui), in cui ciò che si vede si trasforma nella dovuta esagerazione di sonorità come pali della luce in genuflessione. Tutto è accorato ma lento, facendo così lievitare la tensione, l’imbarazzo, il fastidio e la certezza che non sia la gradevolezza ciò che ci colpisce il ventre. Ed è proprio da lì che il suono si trasforma nella transizione e nella traduzione di un percorso che trova lo sbarramento di un’epoca che non ha più visibilità.

Un viaggio psichedelico nella follia del prog rallentato, nei minuscoli approcci ai Velvet Underground e a Pink Floyd, quando, cioè, possiamo ascoltare delle quasi canzoni…

Sono però attimi, delle vampate erronee, un micromondo che non può avanzare. Michael non solo è un visionario, ma procede con le undici composizioni del primo disco, per poi scomodare in quelle del secondo disco gli incubi tipicizzanti della musica industriale degli albori, quella inglese del 1976 per intenderci. Per questo motivo giunge lo stupore: un progetto Newyorkese che vive nella Terra d’Albione sin da prima della comparsa degli esseri umani. Epico, granitico, devastante, questo dodicesimo loro album e quinto doppio approfondisce maggiormente il bisogno di rendere sottile l’armonia e di fronteggiare invece la destrutturazione molecolare del pop, del rock e, come accennato prima, della forma canzone.

La chitarra è la madre che consola i suoi figli, ed è tutta farina del sacco di Michael Serafin-Wells, artigiano del tempo, detentore dello scettro dell’atomo che diventa attimo e, straordinariamente, ripetibile. Qui l’applauso deve scattare, tremante e nervoso: questo talentuoso ricercatore e sviluppatore della distruzione di ogni faciloneria artistica si mette il casco, si benda e gratta la storia, la geografia, entra nello studio del chimico nucleare costruendo la sua bomba, postatomica. Ci si ritrova in una bacinella di sabbia nella quale scendono note nere come bisturi  impazziti.

Un resoconto osceno, terribile, pesante, dove l’aria muore nella glacialità espositiva di echi e riverberi, delay e meccaniche ripetizioni robotiche in cui il ritmo non è mai sostenuto dalla batteria bensì dai loop di un iPad vigoroso e determinato a incutere paura e allucinazione continua.

La natura, che siano uccelli, pesci e quant’altro, è l’unica che pare avere dignità, l’unica a essere sopravvissuta e, quando arrivano le campane, non si ha dubbio che sia il vento a suonarle.

La sperimentazione nelle officine del suono tedesco del 1961 e del 1962 inorridirebbe davanti a questa miscela di contrattempi, avamposti sonori e cliché attitudinali che cercano loop umani e ideali da sbattere contro le viscere di un idilliaco tremore. Lo sfacelo del racconto non può prevedere empatia nei confronti di una modalità accomodante. 

Infatti.

Ciò che avviene è una valanga di ultimi respiri in volo decadente, alla ricerca del ventre terreste, come una deposizione di intenti liturgica ma agnostica: non c’è Dio in questo disco semplicemente perché l’uomo è scomparso del tutto, e dalle sue ceneri sono nati questi frammenti.

Sono visioni sospese e poi lacerate, orgasmi delle particelle lunari che celebrano il silenzio corroso, creature mostruose che escono dai corpi dei ricordi, in un assemblaggio distorto e fulminante.

Non esistono arpeggi lunghi ma note, ammassi di note, note storte, note senza possibilità di un pentagramma che veneri il loro potere.

È distruzione continua, frammentazione e mai diffusioni sognate: gli incubi veri sono lenti, smorfiosi, diseducati e abrasivi.

In alcuni momenti dell’album capiamo l’importanza dei Television e di una breve parte della carriera dei Virgin Prunes (A New Form Of Beauty) quando l'approssimazione di un parquet musicale trovava spazio nell’istinto omicida di fraseggi spericolati. 

Le stelle precipitano, l’ellisse cambia opinione e le strade diventano magazzini della memoria ipnotizzati. Per realizzare tutto questo caos si restringono i parametri della fantasia e ci si abbandona all’ossessione, come pazienti di un TSO che ridono della non comunicazione tra le parti.

Ma, aspetto fondamentale di questo lavoro, è la NON COMUNICABILITA’, non esiste un parlare e un ascoltare, ma tutto è raziocinio in frittura, con dosi di droghe sparse dentro il sibilìo costante di questo rumore basale.

Ci si ritrova a considerare certi gruppi come antichi antenati di questa sbalorditiva messa in atto di oscena crudeltà: si dovrebbe immaginare come la non musica di queste ventidue molecole scomposte non siano altro che un nuovo testamento, una nuova partitura ascensionale, perché, per davvero, tutto quello che cade trova modo di risalire con maggior circospezione.

Non c’è gioia, niente di solare, solo un alto fungo atomico che pare cercare una base per far riposare l’amarezza e la desolazione.

Della musica Neo-Folk questo doppio album ha il senso della sintesi.

Della musica Industriale quello sanguigno di una lacerazione continua nei confronti delle verità.

Della musica classica ha tutto: il pudore, l'ardore, la teatralità in cerca di un applauso paralizzato in un giorno di lavoro.

La festa è un grido indecoroso che non può presenziare.

Dello Shoegaze rimane l’abbondanza di distorsioni controllate.

Del Dream Pop la lastra dopo un sogno morto.

Del Rock l’idea che tutto muoia…


Rimane l’odore di una tragedia, di un canto senza orecchie in ascolto, una sedia elettrica ad alto voltaggio ma prive di reazioni muscolari.

In parole povere: un progetto che entusiasma il Vecchio Scriba perché ci si ritrova nel futuro, con le giuste dosi di terrore e di ambasce affittate composizione dopo composizione.

Stoica è l'intenzione di snaturare il processo di avvicinamento all’ascolto, mentre ciò che vive tra questi solchi è un rifiuto persistente del pubblico, le orme umane non sono desiderate e si preferiscono le onde del mare contaminate dall’amianto e le tracce di petrolio sulle ali dei gabbiani (tra i protagonisti assoluti di questo Lp), per connettersi al dolore che sintetizzi un proscenio e un abbandono.

Ci si ritrova, così bene, nelle sacche amniotiche di Poe, con le sue nevrosi, e nella spettacolare conversione stilistica del leader degli Psyco Tv: un gemellaggio continuo con la demenza giovanile e non senile. Si raccontano le vicende di un tempo raggomitolato nei suoni cadaverici e nelle voci femminili sommerse dai frastuoni, come lapidi in movimento in attesa del ghigno malefico.

Magnetica e crudele, la storia dell’arresto del sogno vibra in piena credibilità dato lo spessore di questo sistema convesso, che permette la fuga da ogni accettazione.

E qui si palesano i moti giapponesi, le vicende del Nepal, la storia triste di Ulisse, gli spettri di Lovecraft, i racconti ipotetici di Sofocle, e così via, in un infinito che rende petroso l’avvenire…

Non è un capolavoro (grazie a Dio) ma un testamento che disegna il futuro come una rigida lapide: se tutto deve finire per davvero abbiamo la giusta NON musica, i vestiti gettati tra i latrati del vento e la luce che si inginocchia innanzi alla morte…




Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
29 Novembre 2024

My Review: BIPOLAR EXPLORER - Memories of the Sky


 Bipolar Explorer - Memories of the Sky


Three survivors act as a radio bridge to the earthly epic of disintegrated souls, blown up in a sky that only wishes to keep the memory of what happened: the reasons for the disaster are contemplated, the seeds of the end are developed with sounds (and not songs) that, besides narrating, excludes (with very few exceptions) the song form. It seems that in the head of the sole author of this mammoth project (Michael Serafin-Wells) there is a computer attached to a crater, with worms, raptors, slag, shavings, hammers and an avalanche of telluric tremors illuminating the vault of heaven in celebration of a predictable defeat.

Thus, millennial paths are created, tales that exclude singing but involve the crooning and storytelling of Summer Serafin and Sylvia Solanas, who are nothing less than female angels with tears in their vocal chords.


The initial Big Bang is nothing compared to this procession of lava, burrs and gasps, in the burning graveyard of an apnoea dream. 

The words move like tired comets while the Moog Synth, the bowed guitar, the percussion are patches of a wound compressed between these sonic sheets that sink moment after moment.

It sounds like a flight, Birdy's (and indeed that Peter Gabriel who wrote the soundtrack might think he had found grandchildren far more warrior-like and swaggering than he), in which what is seen turns into the due exaggeration of sounds like genuflecting light poles. Everything is heartfelt but slow, raising tension, embarrassment, annoyance and the certainty that it is not pleasantness that strikes our bellies. And it is from there that the sound transforms into the transition and translation of a path that finds the barrage of an era that no longer has any visibility.

A psychedelic journey into the madness of slowed-down prog, into tiny approaches to the Velvet Underground and Pink Floyd, when, that is, we can listen to almost songs...


They are, however, moments, errant flashes, a micro-world that cannot move forward. Not only is Michael a visionary, but he proceeds with the eleven compositions of the first disc, and then in those of the second disc he disturbs the typical nightmares of the industrial music of the early days, the English music of 1976 to be clear. Hence the astonishment: a New York project that has lived in the Land of Albion since before the appearance of human beings. Epic, granitic, devastating, this twelfth album of theirs and fifth double deepens the need to make harmony subtle and instead confront the molecular deconstruction of pop, rock and, as mentioned earlier, the song form.

The guitar is the mother who comforts her children, and it is all the work of Michael Serafin-Wells, craftsman of time, holder of the sceptre of the atom that becomes a moment and, extraordinarily, repeatable. Here the applause must go off, trembling and nervous: this talented researcher and developer of the destruction of all artistic ease puts on his helmet, blindfolds and scratches history, geography, enters the nuclear chemist's office building his bomb, postatomic. One finds oneself in a bowl of sand in which black notes descend like mad scalpels.


An obscene, terrible, heavy account, where the air dies in the expositional glaciality of echoes and reverberations, delays and mechanical robotic repetitions in which the rhythm is never sustained by the drums but by the loops of a vigorous ipad determined to instil fear and continuous hallucination.

Nature, be it birds, fish or whatever, is the only one that seems to have dignity, the only one to have survived, and when the bells come, there is no doubt that it is the wind that rings them.

Experimentation in the German sound workshops of 1961 and 1962 would be horrified at this mixture of mishaps, sonic outposts and attitudinal clichés that seek human and ideal loops to slam into the bowels of an idyllic tremor. The debacle of storytelling cannot provide empathy for an accommodating mode. 

Indeed.

What happens is an avalanche of last breaths in decadent flight, in search of the earthly underbelly, like a liturgical but agnostic deposition of intent: there is no God in this record simply because man has disappeared altogether, and from his ashes these fragments were born.


They are suspended and then torn visions, orgasms of moon particles celebrating corroded silence, monstrous creatures emerging from the bodies of memories, in a distorted and fulminating assemblage.

There are no long arpeggios but notes, clusters of notes, crooked notes, notes without the possibility of a stave to worship their power.

It is continual destruction, fragmentation and never dreamed of diffusion: real nightmares are slow, dysmorphic, wild and abrasive.

In certain moments of the album we understand the importance of Television and a brief part of Virgin Prunes' career (A New Form Of Beauty) when the approximation of a musical parquet found space in the murderous instinct of reckless phrasing. 

Stars plummet, the ellipse changes its mind and the streets become hypnotised warehouses of memory. In order to realise all this chaos, the parameters of fantasy are narrowed down and we indulge in obsession, like patients of a compulsory health treatment laughing at the non-communication between the parts.

But, a fundamental aspect of this work, is the NON-COMMUNICATION, there is no talking and no listening, but everything is fried reasoning, with doses of drugs scattered within the constant hissing of this basal noise.


One finds oneself considering certain groups as ancient ancestors of this staggering enactment of obscene cruelty: one should imagine how the non-music of these twenty-two decomposed molecules are nothing less than a new testament, a new ascending score, because, for real, everything that falls finds a way to rise with greater circumspection.

There is no joy, nothing sunny, just a high atomic mushrooming that seems to seek a base to rest bitterness and desolation.

Of Neo-Folk music, this double album has the sense of synthesis.

Of industrial music, it has the bloodiness of a continuous laceration against truths.

From classical music it has everything: the modesty, the ardour, the theatricality seeking paralysed applause on a working day.

The party is an unseemly cry that cannot attend.

Of Shoegaze remains the abundance of controlled distortion.

Of Dream Pop the slab after a dead dream.

Of Rock the idea that everything dies....


What remains is the smell of a tragedy, a song with no listening ears, an electric chair with high voltage but no muscular reactions.

To put it simply: a project that excites the Old Scribe because one finds oneself in the future, with the right doses of terror and ambivalence  tearing composition after composition.

Stoic is the intention to distort the process of approaching the listening, while what lives between these grooves is a persistent rejection of the audience, human footsteps are not desired and the waves of the sea contaminated by asbestos and the traces of oil on the seagulls' wings (among the absolute protagonists of this LP) are preferred, to connect with the pain that synthesises a proscenium and an abandonment.

One finds oneself, so well, in Poe's amniotic sacs, with his neuroses, and in the spectacular stylistic conversion of the leader of Psyco TV: a continuous twinning with youthful, non-senile dementia. The events of a time curled up in cadaverous sounds and female voices submerged in the din, like moving tombstones waiting for the evil grin.

Magnetic and cruel, the story of the arresting dream vibrates in full credibility given the thickness of this convex system, which allows an escape from all acceptance.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

29th November 2024


https://bipolarexplorer.bandcamp.com/album/memories-of-the-sky


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