giovedì 26 settembre 2024

La mia Recensione: PJ Harvey - Dry


 “La verità ha la potenza di un Dio”

Monia Moroni


Dio è donna, spende il tempo ad ammiccare al fuoco, sentenzia, giudica e sfiora la pelle con l’orgasmo mentale, seguito da contorcimenti fisici: si chiama PJ Harvey e di mestiere compie quello, come attività malefica, come scienziata, come una pazza furiosa che fa dell’autoanalisi lo starter per l’analisi di ciò che la circonda. Selvaggia, cruda, indemoniata, giovane, senza millenni a stancarle il respiro, gira nel territorio delle note, l’unico primordiale mezzo attraverso il quale può galvanizzare i diritti, limare e sotterrare i soprusi e spiazzare continuamente ogni opposizione. La ragazza del Dorset è entrata come i fulmini nella mente di un pazzo: a rendere visibile quel vero che nessuno vuole pronunciare, con una fiondata ultraterrena si prende il respiro di chi le si inginocchia di fronte. È caos equilibrato, studiato, mediante la maschera che indossa sul suo corpo biancheggiante, alzando le gonne, scoprendo il piccolo seno, e lo farà per qualche anno ancora, ma dietro tutto questo vi è un intelletto sopraffino, un’arguzia, una sciabola pesante come le verità che abbondano in una corsa che, colma di buio e sangue, affitta, ruba, consuma i sogni e li trita nella fantasia di una realtà incapace di opporsi.

Piccola nella statura, scrive disgrazie grandi come le cascate del cielo, accelera, graffia con una voce che è l’unico miracolo che può sedurre e condannare. Asserisce, strascica, si flette per poter raccogliere i vetri per poi conficcarli in gola. 

Non esiste un esordio per chi ha vissuto sin da piccola la famigliarità con il peccato, con l’ostentazione, con la convulsione, rifiutando la conversione. Dritta, rigida, toglie lo smalto dei vizi e li butta nel mare della sua scrittura. Intuisce che il tempo ha una freccia da gelare, un principio radioattivo pieno di veleno, e che si chiama anni Novanta iniziali, dove tutto vuole essere risorsa, riscoperta e affondo, come un cieco, che cammina per sentire le voci. E la sua arriva, trafigge e fa scappare la comodità di quelle che, alla fine degli anni Ottanta, sapevano di miele scaduto.

Velenosa e pungente, la sua voce nulla è a confronto con i suoi testi, veri diamanti che abbagliano ma che creano gittate repulsive continue. Sfida, vince e insiste, con undici ordigni altalenanti nel ritmo ma che sono spesso chiodi sulla croce della bugia. E la prima consiste nella scelta musicale di addentrarsi nel cuore nero degli Stati Uniti, lei Inglese, spostando ogni aspettativa e vestendosi di lontananza insospettabile, per circondare le nuove espressioni musicali statunitensi, dal folk blues, al grunge, per inabissarsi nell’alt-rock per qualche brevissimo istante, ma essendo sempre appiccicata ai cambi ritmo, alle chitarre urticanti e al cantato che mette alla prova la pazienza, finendo per vincere ancora.

Dry è apparentemente un album che abbisogna di quattro produttori (Head, Vernon, Harvey, Ellis) perché, inevitabilmente, il materiale da gestire era in grado di paralizzare le pareti dello studio di registrazione e la disciplina (altra Dea da lei distrutta alla base) doveva in qualche modo far ragionare la ventitreenne inglese. Ed eccoci in un terremoto che passa dal mare alla terra, al cielo, con ficcanti escursioni che impediscono a chi assiste di sentirsi a proprio agio, regalando danze nevrotiche, grida senza freni e una rincorsa alla lucidità che, ancora una volta, non potrà essere raggiunta.

Storie, tragedie, perversioni, con una sessualità sfrenata che ha ragioni mistiche, volontarie e precise: il corpo, per Polly, è un rosario pulsante, con tappe come un calvario, dove il piacere è uno sbaglio. Usa i nervi, gli odori, la puzza delle contorsioni, gli spasmi, e affronta il precipizio della condanna di una donna che subisce vessazioni e umiliazioni e che ha a disposizione, come unica risorsa, l’ingordigia violenta di una penna che smaschera. Porta la conoscenza a interrogarsi attraverso fiabe nere e rumorose, invitando, respingendo, benedicendo la schiavitù del piacere per sondare la verità del benessere.

Dentro tutto questo incredibile mare collettivo, i suoni sono il radar su cui si vedono avanzare i petali, lo sterco, il tanfo della morte davanti ai dispiaceri che si incollano sulle sue calde labbra.

I ritmi, gli impeti, i fragori, gli assalti laterali e sgradevoli nel suo “album di esordio” sono la vanità di un periodo che non fa i conti con la storia: ci pensa lei, con l’artifizio di una scrittura che pare estratta da libri in cui il medioevo la dice tutta su se stesso. Un periodo fertile, tutt'altro che buio e maledettamente generoso. PJ Harvey parte da lì, dai contrasti e si incammina, palesemente, verso il suo tempo con l'eleganza di una piuma in cerca di uno schianto. Passa raramente nel terreno della dolcezza e quando lo fa si hanno dubbi, come se avesse bisogno di un paravento che nascondesse le sue sollecitazioni. 

Un raro esempio di come un debutto possa scarnificare l’epoca, i costumi, per avanzare nel petto come un innamoramento che conosce sbandamenti e criticità.

Il terzetto esibisce la scorza del limone e proietta il succo negli occhi del cuore con valanghe di suoni striduli, per rendere inaccessibile il favore melodico.

Scostumata, indulgente, vanitosa e insicura, questo Dio con la gonna prende il terzo strumento che ha imparato a suonare, lo imbraccia e butta sequenze di note in rapida ascesa: tocca al drumming allucinato di Robert Ellis trovare il mondo per addomesticare l’impeto, ma fallisce (e direi meno male!) divenendo il prime complice di questa giungla che si sposta verso il mondo. In quanto a Steve Vaughan, nulla da dire: se un bassista deve comandare, far sprofondare il suono nello stomaco e divenire un tornado, lui è l’unico che può riuscirci in questo disco, utilizzando le sue dita come serpenti in cerca di un riflesso.

In una ipotetica stanza dove il senso cerca l’affermazione, Dry crea diversivi, dispetti, scherza e illumina le tenebre dei giochi della mente. Gli abissi toccano la natura, i sogni, i dubbi e, come un fard inutile nei giorni in cui i drammi non coprono le ferite, emergono spostando il baricentro.

Non sono singole canzoni, ma sanno essere un cammino consequenziale che in quaranta minuti creano il trambusto necessario per indagare su quanto questa minuta ragazza abbia il potere di scrivere della vita dalla parte di scatti e controscatti per separarsi da se stessa: un nuovo innegabile miracolo…

Nel 1991 si era in attesa che l’arte delle note procedesse verso l’innovazione, lo smistamento, il setaccio e la separazione da dieci anni in cui la musica bella e quella meno stavano sullo stesso piano.

PJ no.

Lei proprio no.

Crea un nuovo inferno, sbeffeggiante, elettrico ma acustico nell’anima, in quanto semina amore e riconoscenza per millenni di suoni e approcci ma, se si riflette bene, lei abbandona la sua musica per uscire da un corpo che ha un pentagramma sgraziato e febbrile.

Londra è a pochi passi dal poterla contagiare, plasmare e cambiare: niente da fare, lei, ostinata e potente, si tuffa per inondare la capitale inglese con quello che non c’era. Ed è John Peel che sul Melody Maker scrive una recensione memorabile, affermando che oltre a cose piacevoli vi era quel qualcosa che lasciava storditi, sbigottiti. La chiamerà nella sua mitica trasmissione alla BBC e sarà il padrino di una corsa che non si fermerà più. 

Ora: quanto si piange in questo album? Come si possono subire così tante perlustrazioni senza opporsi? Come chiudere la saracinesca davanti a canzoni che sono plotoni di esecuzione?

Ruggine e carta vetro, virus, germi e una totale fascinazione per l’ondulata malinconia con le forbici, per poter tagliare il cordone ombelicale che la legava al silenzio, alla inespressività e a dover giocare a nascondino con il suo ego, che niente è se non una piuma rovente.

Quando si pensa ai concerti, ai festival, ai piccoli locali, lo si fa immaginando l'assembramento di corpi e anime in cerca di qualcosa. Polly arriva e conficca nelle orecchie un nuovo verbo: un’orgia collettiva, grottesca, fatta di ammiccamenti suadenti, provocazioni, con i giochi di luci che non escono dai fari, bensì dalle sue canzoni, e siamo al terzo miracolo…

Pilota, come un navigante senza voce, tra i bagliori di frane: basta ascoltare i primi due singoli estratti e ci si rende conto che il paragone con Patti Smith è sbagliato e non regge. La ragazzina inglese usa il proprio peregrinaggio emotivo e mentale per far esplodere le parole, per lanciarle e resettare tutto. L’autrice americana, con i suoi primi tre album, sapeva stare al centro della ragionevolezza e della qualità ma non ha mai avuto la veemenza di Polly, l’esuberanza, la strafottenza e la capacità di divenire, con sole undici composizioni, una statua movente e assassina.

In questo lavoro possiamo ammirare quanto la produzione dia vita a un ascesso sonoro, una camicia di forza che obbliga Polly a dare tutta la sua spontaneità, raggirandoci, sbeffeggiando il passato e allertando il futuro che dentro di sé vivono folletti, diavoli e spiriti che non obbediscono di certo al galateo del proprio tempo.

Dry è un inganno, un manifesto, un mantra scomodo, che usa le chitarre per esorcizzare e scarnificare la melodia, il basso per tirare sassi pieni di sacchi di iuta e la batteria per far arrivare dal cielo l’applauso di “Dei minori”...


Concludendo: in un ipotetico ritorno di Dante, i gironi dovrebbero trovarne uno nuovo, fare l’aggiornamento e lasciare la meravigliosa Polly da sola con i suoi demoni con il rossetto…


My Review: PJ Harvey - Dry


 PJ Harvey - Dry


‘Truth has the power of a God’

Monia Moroni


God is a woman, she spends her time winking at the fire, she judges, and she grazes the skin with mental orgasm, followed by physical contortions: her name is PJ Harvey and by trade she does that, as an evil activity, as a scientist, as a raving madwoman who makes self-analysis the starter for the analysis of her surroundings. Wild, raw, untamed, young, with no millennia to tire her breath, she wanders into the territory of notes, the only primordial medium through which she can galvanise rights, file down and bury abuses, and continually displace all opposition. The Dorset girl has entered like lightning into the mind of a madman: making visible that truth which no one wants to utter, with an unearthly slingshot she takes the breath of those who kneel before her. It is balanced chaos, studied, by means of the mask she wears over her white body, lifting her skirts, uncovering her small breasts, and she will do so for a few more years, but behind it all there is a superfine intellect, a wit, a sabre as heavy as the truths that abound in a race that, filled with darkness and blood, rents, steals, consumes dreams and shreds them in the fantasy of a reality incapable of opposing it.

Small in stature, it writes misfortunes as big as the sky's waterfalls, it accelerates, it scratches with a voice that is the only miracle that can seduce and condemn. She asserts, she drags, she bends to pick up the glass and then sticks it down her throat. 

There is no debut for someone who has been familiar with sin, with ostentation, with convulsion, refusing conversion since childhood. Straight, rigid, she strips away the vices and throws them into the sea of her writing. She intuits that time has an arrow to freeze, a radioactive principle full of poison, and that it is called the early nineties, where everything wants to be a resource, rediscovered and sunk, like a blind man who walks to hear voices. And her comes, pierces and drives away the comfort of those that, in the late eighties, tasted like expired honey.


Poisonous and pungent, her  voice is nothing compared to her lyrics, real diamonds that dazzle but create continuous repulsive jets. She challenges, wins and insists, with eleven devices that fluctuate in rhythm but are often nails on the cross of the lie. And the first consists in the musical choice of delving into the black heart of the United States, she English, displacing all expectations and dressing up with unsuspected remoteness, to surround the new American musical expressions, from folk blues, to grunge, to dive into alt-rock for a few brief moments, but always being hung up on the rhythm changes, the stinging guitars and the patience-testing vocals, ending up winning again.

Dry is apparently an album that needs four producers (Head, Vernon, Harvey, Ellis) because, inevitably, the material to be managed was paralysing the walls of the recording studio and discipline (another Goddess she destroyed at the base) had to somehow bring the 23-year-old Englishwoman to her senses. And here we are in an earthquake that goes from the sea to the earth, to the sky, with sharp excursions that prevent the audience from feeling at ease, giving them neurotic dances, unrestrained screams and a chase for lucidity that, once again, cannot be achieved.

Stories, tragedies, perversions, with an unbridled sexuality that has mystical, voluntary and precise reasons: the body, for Polly, is a pulsating rosary, with stages like an ordeal, where pleasure is a mistake. She uses nerves, smells, the stench of contortions, spasms, and faces the precipice of condemnation of a woman who suffers harassment and humiliation and who has, as her only resource, the violent greed of an unmasking pen. She brings knowledge to question through black and noisy fairy tales, inviting, rejecting, blessing the slavery of pleasure to probe the truth of well-being.

Inside all this incredible collective sea, sounds are the radar on which petals, dung, the stench of death before the sorrows that stick to its warm lips.


The rhythms, the rumblings, the sideways and unpleasant assaults in her ‘debut album’ are the vanity of a period that does not reckon with history: she takes care of it, with the artifice of a writing that seems to have been extracted from books in which the Middle Ages tell it all about itself. A fertile period, far from dark and bloody generous. PJ Harvey starts from there, from the contrasts, and she walks, blatantly, towards her time with the elegance of a feather in search of a crash. She seldom passes through the terrain of gentleness and when she does you have doubts, as if she needs a screen to hide her strains. 

It is a rare example of how a debut can strip away the era, the costumes, to advance in the chest like a falling in love that knows lurching and criticality.

The trio exhibits the zest of the lemon and projects the juice into the eyes of the heart with avalanches of shrill sounds, to make the melodic favour inaccessible.

Rude, indulgent, vain and insecure, this God in a skirt takes the third instrument she has learnt to play, harnesses it and throws rapidly rising sequences of notes: it's up to Robert Ellis' hallucinated drumming to find the world to tame the impetus, but he fails (and I'd say good riddance!) by becoming the prime accomplice of this jungle-moving world. As for Steve Vaughan, nothing to say: if a bass player has to command, make the sound sink into the stomach and become a tornado, he is the only one who can do it on this record, using his fingers like snakes in search of a reflection.

In a hypothetical room where sense seeks affirmation, Dry creates diversions, teases and illuminates the darkness of mind games. The abysses touch nature, dreams, doubts and, like a useless blush on days when dramas do not cover wounds, they emerge shifting the centre of gravity.

They are not single songs, but they can be a consequential path that in forty minutes create the bustle necessary to investigate how much this petite girl has the power to write about life from the side of jerks and counter-jerks to separate herself from herself: a new undeniable miracle


In 1991 one was waiting for the art of notes to move towards innovation, sorting, sifting and separating from ten years in which good and less good music stood on the same plane.

PJ didn't.

She just doesn't.

She creates a new hell, mocking, electric but acoustic in soul, as she sows love and gratitude for millennia of sounds and approaches but, if you think about it, she abandons her music to get out of a body that has an ungainly, feverish pentagram.

London is just a few steps away from being able to infect, mould and change her: no way, she, obstinate and powerful, dives in to flood the English capital with what was not there. And it was John Peel who wrote a memorable review in the Melody Maker, stating that in addition to the pleasant things, there was that something that left one stunned, amazed. He would call it in his legendary BBC broadcast and be the godfather of a run that would never stop. 

Now: how much does one cry in this album? How can one endure so much scouring without objecting? How to close the portcullis in front of songs that are firing squads?

Rust and glass paper, viruses, germs and a total fascination with undulating melancholy with scissors, in order to cut the umbilical cord that bound her to silence, inexpressiveness and having to play hide-and-seek with her ego, which is nothing if not a scorching feather.

When one thinks of concerts, festivals, small venues, one does so by imagining the gathering of bodies and souls in search of something. Polly arrives and sticks a new verb in your ears: a collective, grotesque orgy of persuasive winks, provocations, with the play of lights coming not from the headlights but from her songs, and we are at the third miracle

Pilot, like a voiceless sailor, amidst the flashes of landslides: just listen to the first two extracted singles and you realise that the comparison with Patti Smith is wrong and does not hold water. The English girl uses her emotional and mental wanderings to make words explode, to launch them and reset everything. The American songwriter, with her first three albums, knew how to stay at the centre of reason and quality, but she never had Polly's vehemence, exuberance, and ability to become, with only eleven compositions, a moving and murderous statue.

In this work, we can admire the extent to which the production creates a sonic abscess, a straitjacket that forces Polly to give all her spontaneity, fooling us, mocking the past and alerting the future that goblins, devils and spirits live inside her that certainly do not obey the etiquette of their time.


Dry is a deception, a manifesto, an uncomfortable mantra, which uses guitars to exorcise and debunk the melody, the bass to throw stones full of hessian sacks and the drums to bring the applause of ‘lesser gods’ from heaven...


In conclusion: in a hypothetical return of Dante, the circles would have to find a new one, upgrade and leave the wonderful Polly alone with her demons in lipstick...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

26th September 2024

mercoledì 25 settembre 2024

La mia Recensione: Faust'o - Poco Zucchero


 

Faust’o - Poco Zucchero


Il principe si aggira con libri musicali infilati sotto le dita, spaziando in un periodo gonfio di rinascimenti e attitudini a evolvere concetti, spiando dal palco di un teatro, sfiorando la seconda metà degli anni Settanta, trasportando il futuro su una tavola, dove l’uso di poco zucchero rivela gusti e retrogusti che non si pensava esistessero. Giovane, acerbo, profondo e adirato, conosce tuttavia la disciplina per continuare a essere un comico serio, un affabile vampiro diurno, con la testa abbassata su vinili, riviste, fanzine e idee che circolano in attesa di finire su un leggio, l’apripista di un cosmo da visitare.

Faust’o per questo secondo disco ruba, gratta, cita lungamente, passando dal cinema alla letteratura, finanche  a una notevole dose di album, che sono stati aspirati nel circuito intenzionale del suo progetto. Un passo molto addentro al presente, per illuderci di una contemporaneità che si potesse lanciare nel destino di un terribile luogo chiamato futuro.

Con l’aiuto di Alberto Radius alla produzione (e anche alle chitarre) e quello di Oscar Avogadro, Fausto Rossi compie un sacrilegio, una serie di danze fameliche sul cadavere di una società su cui aveva già puntato i fari nel disco di esordio. In questo lavoro però abbiamo una potente escursione nel passato, una metafora che si percepisce cercare innesti soprattutto nei riguardi dei circuiti della approssimazione e dello sbando. L’impronta elettronica ci porta a ricordare il lavoro fondamentale dei Suicide e dei Cabaret Voltaire e poi, certamente, pure di David Bowie, ma non è questo il punto. Sono scatti, sniffate di note, che in seguito vengono prese e lacerate, bruciate sotto i pollici che premono, e riescono a mutare il dna generazionale sconvolto dall’enfasi, dal nuovo, dalla libertà acquisita dal 1968 ma che ormai è lesa, scucita, in un vuoto di senso che Fausto scova, portandolo a smarcarsi da una serie infinita di banalità.

Gioca con i generi musicali in modo serioso, avvolge l’Italia nel bacino di un emisfero musicale totalmente sbilanciato verso la Germania, gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Una serie di cliché da punire, utilizzando lo stratagemma di un singolo molto “catchy”, che arriva in classifica, negli spazi normalmente colti da una platea distante dall’impegno, dalla sperimentazione, che della musica fa un gioco.

Gioca pure lui, però, con questo album: spaziando da un primo lato più leggero, brillante, pieno di euforiche mutazioni ispirazionali, per poi, nell’incredibile seconda parte, sfondare la sicurezza con acciaio, martello e fiori di pietra.

La poetica robotica del primo lavoro qui viene catapultata nella frattura e nella distanza, un capovolgimento dei sensi per rendere il baratro una lunga fuga.

Il ritmo (si mettano in evidenza per cortesia i due batteristi che hanno dato un grande contributo, Walter Calloni e Tullio De Piscopo), la melodia e l’armonia (Piero Milesi al violoncello e Claudio Pascoli al Sax) sono l’anfiteatro di una serie di concetti che, attraverso un pentagramma sottile, arrivano a farci sentire quello che i Kraftwerk e i Devo sapevano fare perfettamente: preparare la tavola della follia, eseguendo sentenze sonore prima ancora che asserire o suggerire.

Poco Zucchero approfitta dell’ignoranza del tempo, del troppo finto rispetto, induce in tentazione, spalanca lo sguardo verso l’incredulità, portandoci nei bip elettronici di una serie di sostituzioni davvero notevoli. 

La chitarra diventa un maggiordomo della tastiera, il basso un mago che gioca a nascondino, la voce è un inchino nevrotico, con perlustrazioni sui registri ragguardevoli, ingrassati da parole spiazzanti, con proiezioni protese verso una negatività controllata, come un piano da stabilire con la coscienza dell’ascoltatore.

Riferimenti, appunti, ricordi: sono impianti strutturali che non pretendono la genialità (per quanto, sia chiaro, siano presenti e abbondanti), piuttosto sono i semi di un non so che in cerca il dissenso. Litiga anche con se stesso, spinge il suo talento verso una strada tortuosa, per illuminare la malinconia e l’autocommiserazione, uno schianto che adopera la faccia del rock, ma senza muscoli, senza sudore, senza indossare giacche con lustrini, ma con la stessa caparbietà di Brian Eno: manopole, esperimenti, allucinazioni lasciate cadere su un pentagramma che deve asciugarsi, dimagrire, perdere liquidi…

Un album che ha l’odore del sangue in volo, con sacchetti di plastica e una tastiera sulle spalle, sbeffeggiando il tempo e la musica: c’è una lentezza di fondo che affascina e ci fa divenire, grazie a una serie di ascolti ripetuti, schiavi di un piacere doloroso.

Tutto sembra appassire nelle marce apocalittiche di queste congiunzioni, dello strapotere di una follia che per la prima e unica volta decide di scrivere canzoni che possano cadere nel dimenticatoio, se la scintilla non è passata a farsi vedere dentro questi inconfondibili solchi. Non il suo disco migliore, bensì l’unico in grado di farci intendere l’esordio e di garantirci la sicurezza che il successivo sarebbe stato ben diverso, come si è poi rivelato.


Ora spegniamo la luce dell’egoismo, delle pretese, dei giudizi e andiamo a caricare la nostra obesità intellettuale con la sua dieta, quella che, saggiamente, prevede poco zucchero…







Song By Song 



1 - Vincent Price


L’esordio porta con sé Rino Gaetano a cena con la poesia cinematografica che usa il piano come se fosse una notte piena di alcol a New Orleans. Il basso funky è la coperta di un balbettio continuo di piramide sonore allegre mentre il testo naviga dentro il terrore e l’agonia. L’assolo di Radius all’inizio segue la successione di accordi e il cantato per poi grattare il cielo con le sue propensioni piene di magnetiche evoluzioni.



2 - Cosa rimane


La Motown si affaccia, miscelata a una modalità tanto cara agli Chic con un quasi funky unito a un vapore elettronico che utilizza due sole note per sposare questo vascello che, all’improvviso, attraverso il balbettio di un sax, ci ricorda i Roxy Music. Il cantato è deciso, la voce impastata, come un bulbo nel cervello, con una cadenza ritmica precisa. Il lungo finale ci porta a intendere come la vera storia scivoli nel silenzio di queste lucciole ripetute, che si conficcano nella testa…



3 - Attori malinconici


Prendi delle gocce, falle rimbalzare in uno specchio e poi mantienile vive, dentro una composizione sorniona, come un accenno, che immobilizza la stupidità, in un elenco di gesti e di volti che ci fanno sbiancare. Tetra, come i Cabaret Voltaire che si affacciavano alla sospensione metrica con l’intensità di esordienti loop, questa terza traccia abusa della pazienza, in un terremoto di echi soffocati e la brillante idea di camuffare la forma canzone, dandole uno strattone con un climax elettronico che ci porta a capire e ad afferrare con coscienza quello che accadrà, di lì a poco, con questo tipo di sperimentazione stilistica…



4 - Oh! Oh! Oh!


I primi secondi sono una slavina di riferimenti talmenti evidenti che è inutile elencarli.

Piuttosto: ciò che conoscevamo di questo pallottoliere di sentenze trova in questa occasione l’ironia e il fruscio di una follia che pare devitalizzare i rapporti con la noncuranza. Lo stesso accade con la musica che solo apparentemente si appoggia a un breve lavoro strutturale: a vincere è il suono, l’estensione che è messa all’interno di una gabbia sino a fare del riff di chitarra l’unica sicurezza piacevole. Pop in modo innaturale, selvaggia senza rabbia, riesce a portare una vocale al centro di una attività ludica che possa ipnotizzare le parole precedenti e quelle successive. Scheletrica ma efficiente, anticipa quello che poi sarà fondamentale per il terzo disco di Alberto Camerini. Ciò che fa del disimpegno un ingresso è, in realtà, l’uscita della coscienza verso l’inutilità di rapporti sterili…



5 - In tua assenza


Bowie, subito, poi la magnificenza di Fausto si alza verso i gradini colmi di lacrime di Rossi, con una voce gonfia di pietà e lamenti, come le parole, che sono scuri dentro la parabola (fallita) dei segreti. Una recita che arriva nei pressi delle pareti di Carnival dei Simple MInds, con la medesima teatralità, con un'incursione del sax che sarebbe poi stata utilizzata nel 1980 dagli Psychedelic Furs. Una danza tra le parole, le note, per mettere il bavaglio all’elettronica che stava sbandando: poche note, silenzi inglobati dai luoghi visitati dalle liriche, e un assenteismo che fa di questo brano un gioiello ancora incomprensibile… 



6 Kleenex 


Il trittico finale è un terremoto senza fine.

Si inizia da qui, da questa voce sussurrante, all’interno un tetro tappeto sonoro, con echi evidenti di una modalità cara ai Pink Floyd di Middle, per continuare con un cambio di registro, sotto il tintinnio di un organo, gli starnuti sexy del sax. Ma, più di tutto, pare di essere nello studio dei Can, in un laboratorio di oscena profondità, dove il sesso, la lacerazione del tempo, la fuga inadatta per essere totale, ci introducono al mistero di un favoloso fade away finale…



7 - Il lungo addio


Dio in mezzo a un addio: ed è tuono atmosferico tendente al giallo, cupo, gravido di noia, di liquori lamentosi, di una fuga che è riempita dal mistero, con note che non cercano di essere evidenziate, bensì si mettono addosso un cappotto fatto di brividi, con lampi reggae, con il futuro che fa capolino, con gli intarsi di strategie magnetiche a globalizzare il concetto espresso con incredibile saggezza. Si piange in solitaria, si arrotola il futuro negli scatti della voce, si trema con queste scariche elettriche tetre e malvagie. 

Non un brano ma una sentenza, un testamento dell’intellighenzia che aveva già subodorato il tutto: c’è da chiudere le finestre in faccia al futuro e questo brano è l’unico suicidio qualificato per renderlo possibile…



8 - Funerale a Praga


Quanto futuro in questo pezzo che parte da un violoncello tzigano, come un’artrosi senza legittimità?

Straziante, cadaverico, tristissimo, è una marcia senza forze  militari, per calpestare i movimenti di una modalità dell’esistenza che va decapitata. E sono incursioni rapaci, una pratica sovversiva di usare un circuito melodico che vada a snaturare la ricerca del piacere. Sono note pesanti, lente, che ci invitano ad abbandonare le energie, a rifiutare la deriva, consegnandoci un lungo film nella seconda parte, dove i giochi di potere vengono gestiti dalla glaciale tastiera e dal caldo sax.

La prima è lapidaria, precisa, ripetitiva e paradossale.

Il secondo è un volo nei piani emotivi, un condensato di possibilità che stringono il cuore, l’assenza del cantato ci induce alla memoria delle parole, e in tale frangente questa coda diventa un lunghissimo funerale, un congedo che raffredda la gioia e la mortifica.

In poche parole: oltre al capolavoro, in quanto il ripetuto ascolto di questo brivido è solo l’inizio di un ultimo respiro infinito…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
25 Settembre 2024


giovedì 19 settembre 2024

La mia Recensione: Ist Ist - Light A Bigger Fire


 

Ist Ist - Light A Bigger Fire


“Quello che voglio esiste, se solo ho il coraggio di cercarlo”

Jeannette Winterson, scrittrice, Manchester, Uk


Esistono anime perse che assomigliano a dei cercatori di funghi, in boschi coperti dalla nebbia e dalla pioggia battente, intenti a formare la propria identità, con il coraggio in stato di allerta.

Al quarto lavoro, la band Mancuniana sfodera brillanti sonori, nuove prospettive e una carica gothic pop immensa, libera di appagare una crescita che si è resa evidente nei molti live degli ultimi anni. Un’idea, un concetto, un frastuono ragionato, un’enfasi controllata dalla frenesia, incollata a dei diamanti che spezzandosi rivelano raggi di luce poderosi.

Vibrazioni come innesti di spettri nascosti che con azione chirurgica scolpiscono il concetto del suono. Sebbene la tendenza sia di mettere in frigo il clima a loro congeniale della malinconia, l’antimateria oscura è percepibile, con evidenti sequenze umbratili che saranno riconosciute e amate dagli appassionati della prima ora.

Le sorgenti sonore sono eterogenee e scolpite con continuità e intelligenza, nello specifico, dal basso, dalle chitarre e dalla batteria, con i suoni sintetici che creano vortici liquescenti, moderni nella forma ma dal profumo antico, con l’inchino agli Human League e ai Tubeway Army.

Quello che impressiona, sbalordisce e conquista è la produzione affidata a Joseph Croys, il soldato della struttura, che ha lavorato con Hurts, Courteneers e gli Slow Readers Club. È evidente che agli strumenti è stata impartita una linea guida, un equilibrio, per poter dare più omogeneità a composizioni già in grado da sole di conquistare il cuore, ma che abbisognavano di una disciplina e di un senso di collettività che mancava nei lavori precedenti.

Palese è la volontà di condurre le canzoni in una zona mista, dove la purezza del genere musicale sia da mettere da parte: l’armoniosa unione delle forze ha generato una crescita nella scrittura, nella dinamica e nella capacità di conferire un senso di freschezza e positività che forse non erano state volute prima. Brilla la penna di Adam Houghton, come la sua nuova tendenza a modificare l’interpretazione del canto, senza perdere la matrice inconfondibile che da ben dieci anni lo caratterizza.

Però…

Però è uno shock vedere una serie di dialoghi con l’io interiore che divengono un canto tra le nuvole piene di sabbia, mentre la musica deposita cortecce di ombre.

Ed è epicità che gonfia le vene, le espande, le terrorizza, le maledice con garbo e le porta tra le strade di una Manchester sempre più stretta per questi quattro musicisti con le vie della mente percorse da una compatta idea di mutazione, ampliamento delle proprie energie e potenti motivazioni.

La freschezza dei suoni è un inganno intelligente: nulla di davvero gioioso vive nelle melodie effervescenti presenti in diversi episodi, e la canzone che chiude l’album sarà una meteora infinita, senza morte, che farà intendere quanta progressione e duttilità esista in quei polpastrelli sempre in grado di aggiungere massa alla loro calamita.

Gli Ist Ist sono capaci percepire l’emozione donata, con un numero crescente di persone che adoperano le loro composizioni per compattare la solitudine, i tratti di una evidente unicità, malgrado, soprattutto all’inizio, le comparazioni non siano mancate, generando un comprensibile tedio in loro.

Le chitarre e il basso, proprio grazie alla straordinaria produzione, sono meno vistose ma sembrano lavorare il doppio, definire l’impeto attraverso capacità multiple, finendo per indossare  il mantello del suono con grande precisione e concedendo spazio all’elettronica per rendere il tutto contemporaneo e sensato. Figlio di una realtà che nega un certo tipo di appartenenza al disagio, il disco coglie invece ciò che vive nel sommerso e, attraverso una fluida ragnatela di percezioni, diventa un metronomo che mette in riga le sbavature, uccidendole per elevare il senso. 

Canzoni come omaggio al bisogno di una coperta che assicura la sicurezza dell’anima: ecco perché tutto scorre, ma una scure, un masso, una valanga, una frana e un terremoto trovano modo di regalarci un senso di abbondanza che elettrifica i nervi e li colora di grigio.

Hanno fatto del loro sogno e delle loro necessità il perimetro di un laboratorio aperto all’intimità, al sondare e alla combustione che può privarsi dell’onda selvaggia degli esordi: tutto è più pesante, ma con raffinatezza, con il dolore che pare vesta un completo di luci…

Si piange per la vastità di incontri, si fa esperienza con il male visto da un lato atipico, si balla con la testa piena di ronzii continui, si trema per la sensazione che un addio sia sempre possibile con le nostre esistenze, si brinda al talento di un’opera che riassume, contiene, diversifica e appare nella sua magnificenza acida, conturbante e quasi impietosa. Nel momento in cui decidono di afferrare la vita, la paralizzano con obese forme di esplosioni senza fine.

Drammatico, plumbeo, onesto, concentra il percorso di una crescita sino a giungere in uno studio di registrazione dove non esiste il miracolo ad attendere i musicisti bensì un lavoro, di testa, di pancia, con le luci che visitano le ombre per creare un patto.

Sostiene la memoria, innaffia il ritmo con un poderoso bilanciamento delle pulsioni, deterge la melodia per dare una voce ai balbettii che spesso danneggiano le composizioni. I quattro non cadono nel tranello e dipingono il cielo di ogni nostra camera con la linea di un futuro evidente: gli Ist Ist sono una risorsa, non un palazzo a cui volgere lo sguardo.


Mettiamoci sull’attenti, andiamo a perlustrare questa energetica tela e mettiamoci a ballare…



Song by Song


1  - Lost My Shadows


Impetuosa, strabordante, nel suo vestito di ordinanza, ribadendo lo stile, la forma e l’attitudine degli ultimi due album, la canzone che apre questo è un anello di congiunzione che però lascia piccole tracce di ciò che accadrà. Semplice ma fragorosa, trasmette, attraverso le parole di Adam, la sicurezza che molte del passato sono ormai alle spalle, e il quarto lavoro a lunga distanza lo dimostra per davvero.




2 - The Kiss


Vibrazioni, spilli e poi il solito devastante basso di Andy aprono i cancelli, il synth di Mat disegna traiettorie vicine a Gary Numan e il ritornello è un arcobaleno che viaggia dentro i riff post-punk di ordinanza. Ma la freschezza rende il tutto diverso e attraente.



3 - Repercussions


Eccoli, evidenti, i cambiamenti, le diverse abilità, i nuovi calibrati giochi di alternanza, nei suoni, nei movimenti, per principiare una straordinaria volontà di acclimatarsi con l’epicità. Quando, nella seconda strofa, Andy cambia l'effetto del suo strumento, si rende evidente come ci sia una calibratura che conferisce  alla veste della forma canzone una specificità mai adoperata in precedenza. E il fraseggio conclusivo delle chitarre finisce per essere una sontuosa cavalcata con la voce che ritorna a usare la rabbia di un tempo…



4 - I Can’t Wait For You


Se l’inizio ci offre infiniti rimandi, dagli Stranglers, agli Interpol e a una lunga fiumana che potrebbe anche tediare, ecco che la band struttura una dolcezza assottigliando gli odori, i colori, non usando il fragore ma la delicatezza. E il controcanto di Joel, il batterista, entra come un vortice di grandine nella testa…



5 - Dreams Aren’t Enough


Quanta tristezza danza tra lacrime in attesa di essere asciugate da un destino crudele che visita l’aspetto onirico dell’esistenza. La voce scende in cantina, per salire nel cielo trasportata da una tastiera che circonda e rende possibile avvicinare, in un crossover quasi impercettibile, almeno tre decadi, per ritrovarci triturati da una chitarra sibilante, disperata…



6 - Something Else


Joseph Croys indaga, percepisce che non sono gli errori a impedire la crescita, ma occorre mettere un microscopio nelle idee. Così facendo si capisce quanto la sua mano abbia creato la possibilità che un'idea brillante diventasse un urlo rugginoso con le redini… Tenebroso e pieno di guaiti, con le parole di Adam, il lavoro di un noise caustico, il brano riesce a rendere sgomenti, con l’ineluttabile desiderio di cantare e ballare da soli, abbaiando alla luna. Le pause, i rientri, diventano il fragorio che educa il cuore…



7 - What I Know


La seconda canzone del lato B è un cortocircuito, in cui la lentezza, la rarefazione, vengono a supportare il testo e la voce, per trovare una marcia che, con la sua cadenza marziale e circondata dall’uso di una elettronica fine ma esaustiva, producono un grande senso di gioia: alcune consapevolezze rendono i brani eterni…



8 - Hope To Love You Again


Immaginate Robert Smith con la voce baritonale e i  suoi Cure nella febbricitante versione pop: ecco un raggio di sole semplice, crudo, caldo, con circuiti elettronici circolari che trasmettono un senso fluido di spostamento…



9 - XXX


Bagliori iniziali dei Can e poi una linea retta, una sottile propensione a esseri lievi ma gravitando nell’infinito dove non c’è sicurezza. Ed è una frustata al rallentatore, produce dolore, soffoca e consente ad Adam di cantare con i cavi nell’ugola, facendoci rabbrividire. Tutto si accelera, mentre la canzone rimane lenta, un miracolo questo incomprensibile ma seducente. In questa struttura lontana dal post-punk ma più incline a una sperimentazione vicina alla new age ci viene mostrata una band che sa allontanarsi pure da se stessa…



10 - Ghost


Una tragedia, un’unghia messa sotto una pressa, un dolore lento che galvanizza l’impietosa avanzata di un pezzo che spacca il cuore, come un magnete che ci fa conoscere il vuoto. L’ultimo brano è un pugno, una sedia elettrica che ci insegue: prima lentamente, poi meno, ritornando nei secondi finali a essere una torcia che illumina le nostre difese mancanti.

Drammatica, nella sua esibizione, nella sua capacità di avvolgere ogni anima nella propria rete, parte da un pianoforte che, sposando una tastiera, chiama a rapporto gli altri strumenti. Ma non è il crescendo dell’atmosfera a farci sentire gambizzati, bensì la certezza che ci sia un inquieto mistero che governa le note, il testo, per farci sentire come un malato con pochi minuti da vivere. Il melanconico approccio è solo un elettrodo in più per fare di questa composizione il modo perfetto per illuminare la lunga scia di lacrime che possono finalmente celebrare il nuovo luogo nel quale vivere. Non è pop, non è rock, è poesia che spalanca la consapevolezza e ci rende fragili, nel modo migliore, consentendoci di dare ai quattro cavalieri di Manchester il nostro abbraccio riconoscente: concludere così un album è il miglior omicidio possibile…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Settembre 2024


https://ististmusic.bandcamp.com/album/light-a-bigger-fire



Ist Ist:


Adam Houghton

Joel Kay

Andy Keating

Mat Peters


La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...