mercoledì 24 luglio 2024

La mia Recensione: Genesis - Foxtrot


 

Genesis - Foxtrot 


Nel tempo della banalità che si ripete e sbianca l’oceanica, iniziale, nutrita forma di colori, non c’è posto per interessarsi a un fenomeno, generazionale e sociale, che ha reso l’acqua e l’aria fratelli siamesi, in volo dentro note nate per essere assorbite e dilatate, sotto una forma che pareva una sterile esibizione di tecnica e un passatempo per generare gioia in chi la formulava e noia in chi la ascoltava. Quelle gradazioni, ingigantite con la psichedelia e con la post-psichedelia, stavano cercando la magia per potersi evolvere, spostando il senso della loro esistenza, buttandosi a capofitto nel primo e fondamentale album dei King Crimson. Da lì tutto emerse, esplose, si dilatò per fare del progressive rock un vero e proprio genere musicale, ma, detto questo, era solo per principiare un discorso molto ampio. In realtà un tessuto enorme incominciò a creare una massa densa di contenuti, satelliti e scintille in grado di dare al tutto un inspiegabile fascino, aggregando milioni di ascoltatori a deliri acidi privi di supporti indotti da droghe. Si doveva dare spazio alla fantasia, alla cultura, a un impegno che rendesse la coscienza parte attiva di un generoso e inaspettato scambio. Il blues, la musica classica si unirono ai due aspetti stilistici accennati in precedenza e venne fuori una “progressiva” fiumana di intuizioni, esperimenti sempre fertili in grado di far vedere la musica, in un book fotografico sempre disposto ad accoppiare la mente e il cuore, in una camminata che conduceva a nuovi orizzonti. Occorreva coraggio, forza, un impegno e la convinzione che ci si inseriva già, sin dall’inizio, in un percorso astruso, verticale, una discesa libera all’inferno in attesa che il paradiso accorciasse la distanza. Cambiava l’istinto, il senso, la canzone diveniva una banalità sorpassata, da guardare senza eccitazione, in quanto quello che si stava facendo andava oltre la sfida: la massa solitamente rifiuta chi si tira fuori dalla comodità, dalla pigrizia, dal prendere uno strumento come il fedele compagno che darà visibilità e successo.

Ne apparvero anche di nuovi, come nuovi erano gli approcci mentre il suono era la scintilla che esercitava quel candore che la musica popolare aveva perso già da decenni. La musica divenne così un gioco serio in cui misurare l’intensità e non solamente le capacità. In questo panorama intenzionale si doveva strutturare il senso che prevedeva sorprese, cambi di direzione e continui flussi di energia.


L'approssimazione (notevole ciò che ha fatto il mellotron richiamando intere sezioni d’archi senza esserlo), la devozione e l’intuizione, diedero una schiena liscia su cui la letteratura trovava ganci e un paio di sci su cui scivolare perfettamente, sollecitando i testi a spalancare percezione e impegno. Favole divenute storie con la morale da andare a cercare, personaggi scomodi, buffi, ma intenti a rendere la coscienza una vittoria e non un peso.

Ogni avventura che abbia in sé chili di eccentricità e di passione, sposta equilibri offrendo al contempo dubbi e certezze, che, amalgamandosi, favoriscono modi diversi di riflettere, di fermare il proprio tempo per entrare, simultaneamente, in altri. 

Eccolo, il nocciolo della questione: tutto ciò che aveva preceduto questo nuovo volto era privo di questa intensità, della elaborazione, gioiva per il successo non cogliendo la possibilità di dare alla musica una dignità che avesse propensioni e intenzioni più radicate nella concettualità e nella diversa forma spirituale.

Poi arrivarono i Genesis con questo disco, dopo un ottimo riscaldamento durato tre album con il quarto (mediante due innesti nella formazione fondamentali) gettarono le carte sul tavolo in un giorno di settembre del 1972 e tutto divenne orgia sinuosa, un febbrile appoggio che si flesse e diventò il nido per fluttuare nei nuovi confini delle stanze mentali. 


La psiche entra nella mitologia, nel frullatore che crea la visione e la drammaticità del dolore per renderlo invincibile, data la volontà di trasformarlo, senza che l’opposizione possa riuscire a impedirlo, in un sorriso gioioso che si intende alla fine del percorso. Che è esattamente quello che è successo con Foxtrot, un immaginario libro educativo per menti spezzate, per realtà senza ossigeno, per la cupezza che pare avere un solo epilogo. Ma queste lunghe gittate sono la palestra di mondi che aspettano a braccia aperte per liberare tossine e affanni, codificarli, catalogarli e, sotto un soffio magico, trasformarsi in una radura dove l’armonia torni a presentarsi.

La controcultura dell’epoca si discostava molto da quella americana: in queste tracce tutto evidenzia questo scarto e non c’è nessun bisogno di fare una scelta. I Genesis posano la fierezza di un avamposto, uno dei tanti che sono necessari per quel preciso momento.

Ci si ritrova, così, ad assistere a trasformazioni, a vivere le pause, i rallentamenti, le accelerazioni, gli sviluppi di metriche ritmiche che sembrano venti contenenti ali di aquile in spostamento rapido, senza avere il respiro di una lucidità che possa far capire ciò che accade.


Sei perlustrazioni, ventagli, temporali, scie gassose, specie animali che con disinvoltura mutano, con le voci che pilotano ulteriormente lo stordimento.

Foxtrot, passo dopo passo, posa la sua gabbia toracica sopra i nostri polmoni e trasforma il respiro in un potente flusso cognitivo dove l’incanto rallegra, stordisce con il giusto limite, dando al vapore la possibilità di diventare una coperta che protegge l’ascolto. Gli scenari conducono gli occhi a vedere l’immaginazione come un festival delle opportunità, dove la divagazione è un merito e non un limite: conta raccogliere le informazioni e spogliarle delle banalità e introdurre un nuovo modo per accentrare la concentrazione. I ritornelli, ad esempio, sono quasi uno scherzo, una quasi inutilità che si usa solo quando si è dato loro un volto diverso.

Ma cosa dire della teatralità dell’insieme, che si prende notevoli rischi, stracciando per sempre la modalità storica della sua imponenza? Musica che ha un copione immenso, assoluto, che cambia scenografia, prima ancora di finire sul palco dei loro incredibili concerti per la tournée promozionale: tutto era già cerone, quinte, camminamenti di personaggi con le storie dipinte sui volti accelerati dall’orgiastica sensazione di invulnerabilità. Parole e suoni che, come cavalli di troia, matriosche bizzarre e impenetrabili, per un lungo viaggio che fa dello sconvolgimento e dell’imbarazzo le redini per rendere impotente ed entusiasta l’ascoltatore, entrano senza imbarazzi nel fascicolo creativo.


È rock senza flessioni, aggrappato come un respiro voglioso di viaggiare nella storia, per sostenere lunghe jam mai in stato di stupida divagazione ma puramente ondivaghe, e il desiderio di concettualizzare temi della storia terrestre, dove il potere, la religione e la libertà espressiva vengono pressurizzati in assoluti e vigorosi esercizi di incolonnamento. Tutto ciò per specificare ogni cosa in raggi di sole da vedere mentre le note e le parole sembrano un lungo drago incapace di ferire, bensì di mostrare la mostruosità che si avvicina all’ascoltatore per indicargli la strada dove il cartello “verità” è esposto. Musica che fluttua come una particella gassosa che non esplode mai, ma si ingrossa per mantenere il nostro fiato privo di precipitazioni.

 Apocalittico (basta osservare l’ultima splendente traccia per vedere come il capitolo dell’antico testamento sia stato scandagliato con meticolosità), analitico (il destino che viene osservato, criticato, suggerito come avamposto dell’umana comprensione), acustico (diverse luccicanti espressioni sonore, in questo contesto, dimostrano come il precedente Nursery Crime non avesse questa determinante peculiarità) e attento alla produzione (qui un paritario esempio di grandezza senza sbavature), permette la percezione di una complessità che può mettere in difficoltà chi non ha una precisa educazione alla varietà. Una sfida vinta avendo in seno qualità indiscutibili e generose.

Quando si ha l’ardore di unire rock, progressive e musica sinfonica, il cammino non può che essere all’insegna del buon gusto, della sottile propensione a non preferire nulla, ma a favorire una coabitazione che sia a disposizione di chi fatica nell’accesso di una delle sue parti. La melodia nell’album è un reattore nucleare: pericoloso ma utile per scaldare i muscoli della mente e rendere coesi i filtri che hanno potuto rendere possibile tutto questo. Si diventa angeli, demoni, profeti, umili anime silenziose e sbigottiti esseri nella lunga traversata temporale che costruisce un dipinto che scioglie il timore e lo trasforma in un vanto. 


La calma, l’aggressività, i cambi ritmo, le pause, i voli pindarici e le stagionature delle progressioni degli accordi sono un continuo saliscendi che crea stupore e alla fine una fedeltà indiscutibile. Esistono gli assoli per ogni strumento (potenti, maestosi ed evidenti), ma mai giocatori dell’effervescenza sprecata: l’ordine impartito è quello di valorizzare, specificare e far diventare questo insieme  adiacente al senso. Il fare barocco della chitarra di Steve Hackett in Horizons è emblematico. Quello di Tony Banks in Supper’s Ready è una nuvola grassa che sposta l’equilibrio del cielo. Michael Rutherford in tutto l’album pare un gendarme che controlla e impartisce ordini con fierezza e precisione, facendo da collante perfetto per i generi espressi. Phil Collins fa crescere l’impatto del ritmo con la fantasia, senza rinunciare alla forza, con un lavoro che si compatta perfettamente con le composizioni. Peter Gabriel, in una forma strepitosa, specifica il termine genialità tra interpretazioni vocali, canti, testi che come vagabondi raccolgono un insieme infinito e l’uso di quattro dispositivi suonati con grazia e un timing perfetto.

Nella danza più che centenaria del Foxtrot, con lunghe gittate e possibilità di elevare i suoi concetti dinamici, troviamo un passaggio di consegne con questo quadro sonoro dei Genesis, e nello specifico le parti strumentali, pur impegnando per estensione e forza d’impatto, non fanno mai attendere la parte vocale: una ulteriore e voluttuosa qualità che fa intendere come l’unione delle due entità sia stato studiato e specificato. Non sono presenti gelosie né prevaricazioni, ma un lungo perimetro nel cui interno ciò che vive è pieno di vino dai sapori molteplici.  

Un lavoro che consente di veder conquistare nuove terre mentali e fisiche, con l’abilità di modificare, laddove l’egoismo e il senso di libertà lo esigono, per inoltrare, con il furore artistico, la necessità di non dare all’accettazione della storia umana il suo ghigno malefico (un esempio lampante è la nuova Gerusalemme che troviamo in As Sure as Eggs Is Eggs, ultima parte di Supper’s Ready), finendo per donare a chi ascolta un imprevisto scettro, un telecomando dei sensi che fa brillare la pelle dell’anima.

L’ispirazione, che gioca un ruolo dominante, è molteplice, in grado di essere un faro, un’onda che trasporta, che permette l’intuizione come un lavoro analitico per darle modo di non vivere in isolamento. Ecco che l’attualità, la storia, l’attenzione all’aspetto sociale del vivere, lo spazio da consegnare ai sogni, sono alleati precisi, uniti e in ottima armonia per fare di questo vento una carezza inattesa.


La grande fluidità è uno stupore impressionante, poco gestibile: sembra un riassunto di ciò che ha sempre vissuto nelle potenzialità dei musicisti. I Genesis sanno attualizzarla e con grandi manovre fanno dell’ascolto un atto di beneficio e gratitudine senza fine, perché nella marea dolce di queste onde imponenti tale elemento sarebbe l’ultimo da desiderare. Panta rei, dunque, per consentire per davvero l’accesso alla trasformazione, per identità in progressione, dove al tempo è concesso solo di essere testimone di questa grande capacità. 

Nel ben di Dio a disposizione non manca di certo l’oscurità, l'inafferrabile e l’incomprensibile, la fantascienza (epocale la magnetica Get ‘Em Out By Friday), la grande “inglesità” lirica di Peter Gabriel, assoluto portabandiera sia della modalità conservatrice che di quella progressista, finendo per essere un incredibile maestro che sa come unire differenze e striduli feroci.

La musica è come il cantato di Gabriel: in grado di essere sussurri eleganti ed educati, così come lacerazioni rispettose che diventano amiche dei tuoni senza dover mai gridare e sfidare il suono, in un quasi perverso stato comatoso dove molto è consentito, e quello che non si può fare non diviene una mancanza. Questa è un’altra strepitosa qualità di Foxtrot.


Watcher of the Skies, brano nato a Napoli e che vede il sussurro ispirativo di Arthur C. Clarke, stabilisce il suono dei Genesis, il furore domato ma ancora in grado di sbuffare e di far intuire una sacralità prorompente attraverso l’utilizzo del Mellotron. Poi tutto si allarga, si sviluppa e si trasforma in  una corsa lucida nella follia.


Time Table presenta il passaggio del tempo, inevitabile, con un inizio classico (quanta presenza dei Procol Harum si avverte, ma non è mica un difetto…), conferito da un tintinnio di tasti del pianoforte per poi ospitare una simil ballad fluorescente. 

Get ‘Em Out By Friday evidenzia l’elegante esuberanza, assoli e cambi ritmici che consentono a tutta la band di essere pittori e di creare una tela programmata all’accoglienza. Una suite minimalistica, una mano offerta ai senza tetto e un vigoroso schiaffo al potere.

Can-Utility and the Coastliners offre l’espressività acustica e la progressione degli ingressi strumentali che dal barocco e con dei sentori medioevali si getta nella contemporaneità in modo delicato.

Si gira il vinile e il lato B inizia con Horizons, il manifesto classico di una rivisitazione di Bach, quella struggente parentesi armonica che si intitola Suite per violoncello solo BWV 1007, performata da Steve Hachett, per dare alla poesia immaginaria una goccia di sale negli occhi.

L’ultima composizione fece entrare la band nella leggenda senza possibilità di smentita: Supper’s Ready è un miracolo, un mantra multiplo, diviso in sezioni, che non stanca mai, un generatore continuo di luci e ombre, di spazi occupati con maestria, mettendo a contatto misticismo e religione, in sette atti amalgamati e fissati con la colla dell’eternità. Tutto all’insegna di una evidente intimità, di uno studio che permetta alla suggestioni e alla fantasia di espandere la scrittura per determinarla in un caos controllato dove quello che lo specifica sia un infinito da non possedere mai, proprio per la sua vistosa capacità di fuga.

Più ci si distanzia, temporalmente parlando, dal momento in cui questo leggendario, folle, maestoso capolavoro è stato composto, maggiormente ci si rende conto della responsabilità che abbiamo nel non trascurarlo, del dovere di studiarlo ancora e di essere lucidi testimoni di come la musica abbia perso questa epicità, questa estensione magnetica, questo delirio che si può solo celebrare e incensare, in dosi abbondanti. Il rischio è il vuoto e lo smarrimento, ma rimane l’ascolto, in grado di esercitare la memoria e il beneficio.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
25 Luglio 2024

My Review: Genesis - Foxtrot


 Genesis - Foxtrot 


In the time of the banality that repeats itself and whitens the oceanic, initial, nourished form of colours, there is no place for interest in a phenomenon, generational and social, that made water and air Siamese brothers, flying inside notes born to be absorbed and dilated, under a form that seemed a sterile exhibition of technique and a pastime to generate joy in those who formulated it and boredom in those who listened to it. Those gradations, magnified with psychedelia and post-psychedelia, were looking for the magic to be able to evolve, shifting the meaning of their existence, throwing themselves headlong into King Crimson's first and fundamental album. From there everything emerged, exploded, expanded to make progressive rock a true musical genre, but, having done that, it was only to begin a very broad discourse. In reality, an enormous fabric began to create a dense mass of content, satellites and sparks capable of giving the whole thing an inexplicable charm, aggregating millions of listeners to acid delusions devoid of drug-induced support.  Space had to be given to imagination, to culture, to a commitment that made consciousness an active part of a generous and unexpected exchange. The blues, and classical music joined the two stylistic aspects mentioned above, and out came a ‘progressive’ torrent of intuitions, ever fertile experiments capable of making music, in a photo book always willing to match mind and heart, in a walk that led to new horizons. It took courage, strength, a commitment and the conviction that one was already, from the start, on an abstruse, vertical path, a free descent into hell waiting for paradise to shorten the distance. The instinct changed, the meaning, the song became an outdated triviality, to be looked at without excitement, because what was being done went beyond the challenge: the masses usually reject those who pull themselves out of comfort, out of laziness, out of taking an instrument as the faithful companion that will give visibility and success. New ones also appeared, as new were the approaches while the sound was the spark that exerted the candour that popular music had lost decades ago. Music thus became a serious game in which intensity was to be measured and not merely skill. In this deliberate panorama, meaning had to be structured, with surprises, changes of direction and continuous flows of energy.


Approximation (remarkable what the mellotron did by calling up entire string sections without being one), devotion and intuition, gave a smooth back on which literature found hooks and a pair of skis on which to glide perfectly, urging the texts to open up perception and commitment. Fables became stories with morals to look for, uncomfortable characters, funny, but intent on making consciousness a victory and not a burden.  Every adventure that has within it kilos of eccentricity and passion shifts balances while offering doubts and certainties, which, blending together, favour different ways of reflecting, of stopping one's own time to enter, simultaneously, into others. 

Here it is, the crux of the matter: all that had preceded this new face was devoid of this intensity, of elaboration, it rejoiced in success by not grasping the possibility of giving music a dignity that had propensities and intentions more rooted in conceptuality and a different spiritual form.

Then came Genesis with this record, after an excellent warm-up lasting three albums with the fourth (by means of two grafts in the fundamental line-up) they threw the cards on the table on a September day in 1972 and everything became a sinuous orgy, a feverish support that flexed and became the nest to float in the new confines of the mental rooms.  The psyche enters mythology, into the blender that creates the vision and drama of pain to make it invincible, given the will to transform it, without opposition being able to prevent it, into a joyful smile that is understood at the end of the journey. Which is exactly what happened with Foxtrot, an imaginary educational book for broken minds, for realities without oxygen, for gloom that seems to have only one epilogue. But these long throws are the gymnasium of worlds waiting with open arms to release toxins and anxieties, to codify them, to catalogue them and, under a magic breath, to transform into a clearing where harmony returns.  The counterculture of the time was very different from the American counterculture: everything in these tracks highlights this gap and there is no need to make a choice. Genesis poses the pride of an outpost, one of many that are needed at that precise moment.

Thus, one finds oneself witnessing transformations, experiencing the pauses, the slowdowns, the accelerations, the developments of rhythmic metrics that sound like winds containing the wings of swiftly moving eagles, without having the breath of a lucidity that would make one understand what is happening.


Six patrols, fans, thunderstorms, gas trails, animal species that casually change, with voices further driving the stunner.  Foxtrot, step by step, lays its rib cage over our lungs and transforms the breath into a powerful cognitive flow where enchantment cheers, stuns with the right limit, giving steam the chance to become a blanket that protects the listening. The scenarios lead the eyes to see imagination as a festival of opportunities, where digression is a merit and not a limitation: it is important to gather information and strip it of trivialities and introduce a new way of centralising concentration. Refrains, for example, are almost a joke, a near-uselessness that is only used when one has given them a different face.  But what about the theatricality of the ensemble, which takes considerable risks, forever shattering the historical mode of its impressiveness? Music that has an immense, absolute script, that changes scenery, even before ending up on the stage of their incredible concerts for the promotional tour: everything was already waxwork, backstage, walkways of characters with stories painted on their faces accelerated by the orgiastic feeling of invulnerability. Words and sounds that, like Trojan horses, bizarre and impenetrable matryoshkas, for a long journey that makes shock and embarrassment the reins to make the listener helpless and enthusiastic, enter the creative file without embarrassment.  It is rock without inflection, clinging like a breath yearning to travel through history, to sustain long jams never in a state of stupid digression but purely undulating, and the desire to conceptualise themes of earthly history, where power, religion and freedom of expression are pressurised into absolute and vigorous exercises in inchoate. All this in order to specify everything in rays of sunshine to be seen while the notes and words seem like a long dragon incapable of hurting, but rather showing the monstrosity that approaches the listener to show him the way where the ‘truth’ sign is displayed. Music that floats like a gaseous particle that never explodes, but swells to keep our breath free of precipitation.  Apocalyptic (one only has to look at the last shining track to see how meticulously the Old Testament chapter has been plumbed), analytical (fate being observed, criticised, suggested as an outpost of human understanding), acoustic (several shimmering sound expressions, in this context, show how the previous Nursery Crime did not have this decisive peculiarity) and attentive to production (here an equal example of greatness without smearing), it allows the perception of a complexity that can be challenging for those without a precise education in variety. A challenge met by having unquestionable and generous qualities in its bosom.  When one has the ardour to unite rock, progressive and symphonic music, the path can only be one of good taste, of the subtle propensity not to prefer anything, but to favour a cohabitation that is available to those who struggle to access one of its parts. 


The melody on the album is a nuclear reactor: dangerous but useful for warming up the muscles of the mind and making the filters that made all this possible cohesive. We become angels, demons, prophets, humble silent souls and bewildered beings in the long traverse of time that builds a painting that melts fear and turns it into boasting.  The calmness, aggressiveness, rhythm changes, pauses, Pindaric flights and seasoning of the chord progressions are a continuous up and down that creates amazement and ultimately unquestionable fidelity. There are solos for each instrument (powerful, majestic and obvious), but never players of wasted effervescence: the order given is to enhance, specify and make this ensemble adjacent to sense. Steve Hackett's baroque guitar playing in Horizons is emblematic. Tony Banks' in Supper's Ready is a fat cloud shifting the balance of the sky. Throughout the album, Michael Rutherford seems like a gendarme controlling and giving orders with pride and precision, acting as the perfect glue for the genres expressed.   Phil Collins raises the impact of rhythm with imagination, without renouncing strength, with a work that is perfectly in tune with the compositions. Peter Gabriel, in resounding form, specifies the term genius between vocal interpretations, singing, lyrics that like vagabonds bring together an infinite whole and the use of four devices played with grace and perfect timing.  In the more than century-old dance of the Foxtrot, with long spans and the possibility of elevating its dynamic concepts, we find a handover with this Genesis soundscape, and specifically the instrumental parts, while demanding in extension and force of impact, never keep the vocal part waiting: a further, voluptuous quality that suggests how the union of the two entities has been studied and specified. There is no jealousy or prevarication, but a long perimeter within which what lives is filled with wine of multiple flavours.    It is a work that allows us to see new mental and physical lands conquered, with the ability to modify, where selfishness and a sense of freedom demand it, in order to forward, with artistic fury, the necessity of not giving the acceptance of human history its evil sneer (a glaring example is the new Jerusalem we find in As Sure as Eggs Is Eggs, the last part of Supper's Ready), ending up by giving the listener an unexpected sceptre, a remote control of the senses that makes the skin of the soul shine.  Inspiration, which plays a dominant role, is multifaceted, able to be a beacon, a wave that transports, that allows intuition as an analytical work to give it a way of not living in isolation. Here, current events, history, attention to the social aspect of living, the space to be given to dreams, are precise allies, united and in excellent harmony to make this wind an unexpected caress.


The great fluidity is an impressive, unmanageable astonishment: it sounds like a summary of what has always lived in the musicians' potential. Genesis know how to bring it up to date and with great manoeuvres make listening an act of endless benefit and gratitude, because in the gentle tide of these imposing waves such an element would be the last to be desired. Panta rhei, then, to truly allow access to transformation, to identity in progression, where time is only allowed to witness this great capacity.   There is no shortage of obscurity, the elusive and the incomprehensible, science fiction (epochal the magnetic Get ‘Em Out By Friday), the great lyrical “Englishness” of Peter Gabriel, absolute standard-bearer of both conservative and progressive modes, ending up being an incredible master who knows how to unite differences and ferocious shrillness.

The music is like Gabriel's singing: capable of being elegant and polite whispers, as well as respectful tears that become thunder-friends without ever having to shout and defy sound, in an almost perverse comatose state where much is allowed, and what cannot be done does not become a failing. This is another amazing quality of Foxtrot.  


Watcher of the Skies, a song born in Naples and featuring the inspirational whisper of Arthur C. Clarke, establishes the sound of Genesis, the fury tamed but still able to puff and hint at a bursting sacredness through the use of the Mellotron. Then everything widens, develops and turns into a lucid rush into madness.


Time Table presents the passage of time, inevitable, with a classic beginning (how much Procol Harum presence can be felt, but that's not a flaw...), conferred by a tinkling of piano keys and then hosting a fluorescent ballad-like track.  

Get ‘Em Out By Friday highlights the elegant exuberance, solos and rhythmic shifts that allow the whole band to be painters and create a canvas programmed to welcome. A minimalist suite, a hand offered to the homeless and a vigorous slap in the face of power.

Can-Utility and the Coastliners offers the acoustic expressiveness and progression of instrumental entrances that from the baroque and with hints of the Middle Ages delicately jumps into the contemporary.

The vinyl is turned over and the B-side begins with Horizons, the classical manifesto of a revisitation of Bach, that poignant harmonic parenthesis entitled Suite for solo cello BWV 1007, performed by Steve Hachett, to give imaginary poetry a drop of salt in the eye.  The last composition made the band enter legend without possibility of denial: Supper's Ready is a miracle, a multiple mantra, divided into sections, that never tires, a continuous generator of light and shadow, of spaces occupied with mastery, bringing together mysticism and religion, in seven acts amalgamated and fixed with the glue of eternity. All in the name of an evident intimacy, of a study that allows suggestions and imagination to expand the writing to determine it in a controlled chaos where what specifies it is an infinity never to be possessed, precisely because of its conspicuous capacity for escape.  The more one distances oneself, temporally speaking, from the moment when this legendary, insane, majestic masterpiece was composed, the more one realises the responsibility we have in not neglecting it, the duty to study it again and to be lucid witnesses of how music has lost this epicness, this magnetic extension, this delirium that can only be celebrated and incensed at, in copious doses. The risk is emptiness and bewilderment, but listening remains, capable of exercising memory and benefit.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25th July 2024

lunedì 22 luglio 2024

La mia Recensione: Sons Of Viljems - Lithospheric Melodies


 

Sons Of Viljems - Lithospheric Melodies


Ogni grazia offre responsabilità, oneri, consapevolezza e impegno. Quando, poi, è data da una forma artistica fuori dal coro, capace di assumere i volti di chi normalmente non pensa di traslare le percezioni in avamposti sonori, ecco che il tutto conferisce, almeno inizialmente, disagio e confusione.

Il Vecchio Scriba, invece, in questa pulsione, volontà, abnegazione e ricerca prova un’immensa felicità ed empatia per questi due musicisti che, con l’aiuto di altri, hanno creato un luogo di migrazione, di pertugi mentali, di terremoti con uno spazio di sicurezza.

È un danzare sulle onde di un magnetico laboratorio di analisi, una sonda continua che raggruppa le stagioni dell’esistenza, i trascorsi occupazionali, le sintesi e mai le esagerazioni, per dare forma a un concept linguistico ascensionale. Tutto è raggruppato nella intelligente forma mai didascalica di incontri filtrati, di esperienze con il messaggio recepito e trasformato in un dipinto affascinante che abbraccia epoche, generi e stili musicali come una rete che si appoggia al cielo.

Sette lunghe passeggiate tra ambienti che accolgono il beneficio di stratificazioni conosciute perfettamente e allineate una dopo l’altra senza necessitare della forma canzone, ma non per negare lo spirito e il bisogno che questa modalità possiede e determina, bensì al fine di strutturare l’allungamento dello spazio di manovra mentale, fuori da un concetto che sarebbe decontestualizzato per questi due poeti.

L’uso, millimetrico, della suggestione, avvalora il matrimonio del basso e della chitarra, qui amalgamati dal potente ardore di non chiudersi nella suggestione egoistica di un breve riff, di una pulsione, ma di rendere fertile il punto di partenza come il ruscello che sogna l’arrivo nelle braccia del mare. Solo così si può generare l’espansione, l’allungamento, lo stretching mentale per coniugarsi allo sguardo di un messaggio che non abbisogna dell’impiego dei testi per essere intuito. Occorre uno sforzo, ma poi la visione cinematica di questo album di debutto sarà un'incredibile massa di nuvole in piena emozione continua.

Si potrebbe affermare che siamo alla presenza di una maniacale cura dei dettagli: parrebbe un complimento, tuttavia sarebbe più gradito dare spazio alle enormi qualità di armoniose fantasie che fanno dei nostri occhi nuovi e storditi viaggiatori di un inconscio che, è bene ribadirlo, abita sempre lontano dalle nostre attenzioni. Le note sono particelle ibride ma piene di calore e disponibilità: la loro consequenzialità è consapevole, attiva nell’essere un incontro che non cerca l’equilibrio bensì il contenuto, in un impatto che estrapola i sensi dal loro tepore. Si palesano elementi di nu jazz, che però hanno la cortesia di non essere prevaricanti, di concedere spazio non tanto ad altre incursioni, ma piuttosto di abbandonare la propria soddisfazione di appartenenza per confluire in un circondario che parte dalla montagna percettiva per gettarsi nel mare olfattivo.

Il ritmo in questo strepitoso lavoro è il condensante cerebrale che celebra l’estasi, non facendo del nostro corpo un ballerino: apre il contenuto e lo specifica come fanno le nuvole nel cielo, per darsi coraggio innanzi alla immensità che le circonda. Ecco allora l’alternanza di forme tribali, di pattern precisi, di escursioni che non provocano lacerazioni e aumenti del battito cardiaco: la lentezza è quella tipica dei primi vagiti post-rock, dove le linee melodiche non desideravano strutture che le appesantissero.

Il dolore, come proposta di accettazione, è parte integrante di un universo cauto, mai precipitoso, per far avverare le riflessioni, dove non esistono indugi, lacerazioni o gravità insostenibili. Perché, in quanto peculiarità umana, questo sentimento è irrifiutabile: appare non attraverso lamenti o grida, scegliendo invece di non essere abbandonato gravitando attorno ai raggi solari, lenti, caldi, che tolgono l’umidità soffocante che tale cancro invece sostiene. Il disco è una fascina di onde sorridenti, figlie di studi e rarefazioni, un attraversamento pedonale dei sensi.

Solo in un brano (Silence) si presenta un cantato che sembra disarcionare il significato del vocabolo, per accompagnare il suo sussurro nell’acqua che porta queste entità sonore verso la magia che inebria, mentre il basso e la chitarra vivono di un arpeggio e di un pulsare pieno di fascinazioni nordiche.

Negli altri sei episodi vi sono piccole ma significative presenze di vocalizzi che diventano carezze dentro la necessità di unire le diverse propensioni date dai generi sessuali: uomini e donne nella piazza di un villaggio senza luci diventano un lampione per le anime attente. In Liminal esiste una voce femminile che canta, ma la sua brevità fa riflettere, mentre il timbro è decisamente sensuale. E il fatto che si riescano a sentire movenze dei paesi del medio oriente riesce a rendere il tutto ancora più attraente e misterioso.

Il synth, l’organo, la viola (perfetto ibrido tra il violino e il violoncello), il sassofono, il glockenspiel, il contrabbasso non sono più strumenti, ma i veri arrangiamenti sonori che contemplano il suono iniziale del basso e della chitarra per estendere il tutto all’interno di un concetto orchestrale in cui la musica è immersione ed elevazione. Si spiega in questo modo la sensazione che l’elettronica presente sia a suggerire questa epica volontà e non a sottrarre spazio: quando il moderno e l’antico si incontrano (Liminal), si vive un tumulto di sorprese continue.

The Nephew of Viljems è una suite deliziosa che abbraccia la spiritualità dei luoghi cari a Ryuichi Sakamoto, attraverso un cammino delle note sopra il limite della convivenza tra la dolcezza e l’intuizione, donando anche la sensibilità di Vini Reilly per come la sei corde diventi un ascensore sensoriale, dentro i circuiti di aggregazione di altri strumenti qui detentori dello scettro della estradizione di un corpo metafisico.

La bellezza del post-rock, coniugato a petali dream-pop, si palesa nella generosa Lithospheric Patterns,  la quale sintetizza il  profumo di pagine antiche che, passando da un fare orchestrale, si ritrovano all’interno di vesti elettroniche, per evidenziare la totale mancanza di esagerazioni. Quando la chitarra si affaccia, il basso sostiene il bellissimo combo di forza e delicatezza. Qualcosa di cupo e sinistro vive in queste forme oceaniche…

L’iniziale Lahar (mi si perdoni se non seguo l’ordine della scaletta ma un senso esiste, fidatevi di me), è un incandescente intro, dove gli archi tirano sassi che paiono arrivare dalla preistoria: la tensione, la paura, il disagio dell’ambiente qui viene pilotato per vedere se stessi attraverso uno specchio che rende chiaro come ogni ingresso sia un mistero da rispettare… Dopo quasi tre minuti il brano si scioglie e si trasforma in un pavimento dove le note combinate e il volteggio dei colori della chitarra, come quella del basso, portano a pensare che Michelangelo Antonioni si sarebbe accaparrato volentieri queste atmosfere per il suo film Il deserto rosso

Con Morning Horn siamo all’interno della morbidezza elaborata, di delicati avvenimenti che stuzzicano la curiosità, fraseggi quasi impercettibili di una visione esplorativa che non si concede distrazioni, crescendo come una ouverture che reclama la luce dell'intelligenza che scruta senza emettere giudizio. Denso, voluminoso, fluttuante, il brano diviene una bombola di ossigeno che innaffia le molecole dei pensieri…

In merito alla già menzionata Silence, si può aggiungere la sensazione di come una giacca piena di ascensori umorali contempli l’autunno e la primavera dei nostri impeti.

La conclusiva Pulse-Resonance è il vascello in cui tutto il lavoro sino a qui fatto desidera un luogo dove conoscere l’immensità dell’eterno, in un gioco sacro in cui i Dead Can Dance degli anni Novanta hanno seminato esempi, per dirigersi altrove. No, non sono paragonabili, ma hanno la stessa programmata volontà di distribuire imbuti nei quali gli strumenti che si affacciano possano versare le loro qualità, senza disperdere una goccia, mentre il sassofono regala il brivido di dolcezza dentro un mare agitato dalla chitarra saggiamente inquinante e tenebrosa.

Un modo sublime di terminare uno studio, di colorare le tempie di onde che non si smagnetizzano tanto facilmente…



Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
23 Luglio 2024


Disasters by Choice 




My Review: Sons Of Viljems - Lithospheric Melodies


 Sons Of Viljems - Lithospheric Melodies


Every grace offers responsibility, burden, awareness and commitment. When, then, it is given by an artistic form that is out of the chorus, capable of taking on the faces of those who do not normally think of translating perceptions into sonic outposts, the whole thing confers, at least initially, unease and confusion.


The Old Scribe, on the other hand, in this impulse, in this will, in this abnegation and research feels immense happiness and empathy for these two musicians who, with the help of others, have created a place of migration, of mental perturbations, of earthquakes with a space of security.

It is a dancing on the waves of a magnetic laboratory of analysis, a continuous probe that brings together the seasons of existence, occupational pasts, syntheses and never exaggerations, to give shape to an ascending linguistic concept. Everything is grouped together in the intelligent, never didactic form of filtered encounters, of experiences with the message received and transformed into a fascinating painting that embraces epochs, genres and musical styles like a net leaning against the sky.  Seven long walks through environments that welcome the benefit of perfectly known stratifications lined up one after the other without needing the song form, but not in order to deny the spirit and the need that this modality possesses and determines, but rather in order to structure the lengthening of the mental manoeuvring space, outside of a concept that would be decontextualised for these two poets.

The millimetric use of suggestion corroborates the marriage of bass and guitar, here amalgamated by the powerful ardour not to close oneself in the egoistic suggestion of a brief riff, of a pulse, but to make the starting point fertile like the stream that dreams of arriving in the arms of the sea. This is the only way to generate the expansion, the stretching out, the mental stretching to match the gaze of a message that does not need lyrics to be intuited. An effort is needed, but then the cinematic vision of this debut album will be an incredible mass of clouds in continuous emotion.  It could be said that we are in the presence of a maniacal attention to detail: it would seem a compliment, yet it would be more pleasing to give space to the enormous qualities of harmonious fantasies that make our eyes new and dazed travellers of an unconscious that, it is worth repeating, always lives far from our attention. The notes are hybrid particles but full of warmth and willingness: their consequentiality is conscious, active in being an encounter that does not seek balance but content, in an impact that extrapolates the senses from their warmth. Elements of nu jazz are revealed, but they have the courtesy not to be prevaricating, to concede space not so much to other incursions, but rather to abandon their own satisfaction of belonging to flow into a surrounding that starts from the perceptual mountain to throw itself in the sea of the sense of smell. Rhythm in this resounding work is the cerebral condenser that celebrates ecstasy, not making our body a dancer: it opens the content and specifies it as clouds do in the sky, to give themselves courage before the immensity that surrounds them. Here, then, is the alternation of tribal forms, of precise patterns, of excursions that do not provoke lacerations and increases in the heartbeat: the slowness is that typical of the first post-rock wanderings, where the melodic lines did not desire structures that would weigh them down.


Pain, as a proposal of acceptance, is an integral part of a cautious universe, never rushed, to make reflections come true, where there are no delays, lacerations or unbearable gravity. Because, as a human peculiarity, this feeling is irrefutable: it appears not through moaning or shouting, choosing instead not to be abandoned by gravitating around the sun's slow, warm rays, which remove the suffocating humidity that such a cancer instead sustains. The disc is a bundle of smiling waves, daughters of studies and rarefactions, a pedestrian crossing of the senses.  Only in one track (Silence) is there a vocal that seems to unseat the meaning of the word, to accompany its whispering in the water that carries these sound entities towards the magic that inebriates, while the bass and guitar live on an arpeggio and a pulse full of Nordic fascinations.

In the other six episodes, there are small but significant presences of vocals that become caresses within the need to unite the different propensities given by sexual genders: men and women in the square of a village without lights become a lamp post for attentive souls. In Liminal, there is a female singing voice, but its brevity gives one pause, while the timbre is decidedly sensual. And the fact that one can hear movements from the Middle East makes it all the more attractive and mysterious.  The synth, organ, viola (a perfect hybrid between the violin and cello), saxophone, glockenspiel, and double bass are no longer instruments, but the actual sound arrangements that contemplate the initial sound of the bass and guitar to extend everything within an orchestral concept in which music is immersion and elevation. This explains the feeling that the electronics present are there to suggest this epic will and not to take away space: when the modern and the ancient meet (Liminal), one experiences a tumult of continuous surprises.  The Nephew of Viljems is a delightful suite that embraces the spirituality of the places dear to Ryuichi Sakamoto, through a journey of notes over the limit of coexistence between sweetness and intuition, also donating Vini Reilly's sensitivity for how the six-string becomes a sensory lift, within the aggregation circuits of other instruments here holding the sceptre of the extradition of a metaphysical body.

The beauty of post-rock, conjugated with dream-pop petals, is manifested in the generous Lithospheric Patterns, which synthesises the scent of ancient pages that, passing from an orchestral do, find themselves within electronic garments, to highlight the total lack of exaggeration. When the guitar appears, the bass supports the beautiful combo of strength and delicacy. Something dark and sinister lives in these oceanic forms...  The opening Lahar (forgive me if I don't follow the order of the setlist, but a sense exists, trust me), is an incandescent intro, where the strings throw stones that seem to come from prehistory: the tension, the fear, the discomfort of the environment here is piloted to see oneself through a mirror that makes it clear how every entrance is a mystery to be respected... After almost three minutes, the song melts away and turns into a floor where the combined notes and the vaulting of the colours of the guitar, like that of the bass, lead one to think that Michelangelo Antonioni would have gladly grabbed these atmospheres for his film The Red Desert...

With Morning Horn we are inside the elaborate softness, of delicate events that arouse curiosity, almost imperceptible phrasings of an exploratory vision that does not allow itself distractions, crescendoing like an overture that claims the light of intelligence that scrutinises without passing judgement. Dense, voluminous, fluctuating, the track becomes an oxygen tank that waters the molecules of thoughts...

With regard to the aforementioned Silence, one can add the feeling of how a jacket full of mood lifts contemplates the autumn and spring of our impetuses.  The concluding Pulse-Resonance is the vessel in which all the work done so far longs for a place where the immensity of the eternal can be known, in a sacred game in which the Dead Can Dance of the nineties sowed examples, in order to head elsewhere. No, they are not comparable, but they do have the same programmed will to distribute funnels into which the instruments can pour their qualities, without dispersing a drop, while the saxophone gives the thrill of sweetness within a sea stirred by the wisely polluted and gloomy guitar.

A sublime way to end a study, to colour the temples with waves that do not demagnetise so easily...


Alex Dematteis

Musicshockworld
Salford
23 July 2024


Disasters by Choice

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