mercoledì 26 giugno 2024

La mia Recensione: Frenchy and the Punk - Midnight Garden


 

Frenchy and the Punk - Midnight Garden


In una ipotetica giornata nella cucina della musica, non si può mancare all’appuntamento con New York, capace di spaziare nelle proposte, molto spesso succulente e attraenti. Hanno un fiuto pazzesco in quel luogo per riuscire a mescolare, creare, proporre nuove tendenze e lustrare il proprio passato per renderlo sempre eccitante.

Un matrimonio all’insegna della fedeltà verso qualcosa di più di un mero esercizio tecnico: si visita sempre il mistero, l'irrequietezza, il disappunto, la critica, la libertà di movimento culturale per non lasciare quest’arte per terra.

Ci pensa un duo, feroce nella modalità giusta, a spazzare via la noia, la paura, a giostrare la luce dentro un mantello pieno di elettricità e propensioni sismiche notevoli, come un insieme di ore fredde nel cuore dell'estate. Samantha Stephenson e Scott Helland li conosciamo bene: sono amanti della scommessa, mai propensi a copiare i cliché ma  inclini a generare diserbanti nei confronti del loro stesso cammino. Vulcanici, potenti, sperimentano la suggestione accattivandosi le simpatie della successione degli accordi e dei panorami umorali mettendo in combustione parole e tappeti pieni di calore e ipnosi continua, sfiorando i piani emotivi per congelarli in un manifesto ideologico turbinante che disturba l'effervescenza onirica, sviluppandone le onde, con ritmiche increspate di anellini e spilli argentati.


Un insieme squillante, amico della tenebra senza la propensione alla depressione, l’intera opera somiglia a una impronta piena di melma e sacrificio introspettivo, in un duro lavoro di analisi, per permettere ai due artisti di raggiungere vette mai sfiorate in precedenza, pur producendo sempre materiale di ottima fattura. Ma in questo ultimo episodio di una carriera eccitante si vedono eclissi, temporali, si sente l'odore di una sacralità moderna che attinge da simboli in evidente parata.

Una graticola celeste che parte dal Post-Punk per erudire il pubblico di stelle in libera uscita, dentro i meandri di un capogiro continuo, una radiosa avventura fatta di nove episodi, per far convergere il passato di quell’insieme urbano in un incontro dove l’elettricità pulsante di canzoni costantemente ad alto ritmo consentono di sudare e ritrovarsi umidi negli sguardi. Ma esiste un collegamento pieno di entusiasmo nel portare nelle note una teatralità che incorpora il cabaret e lancia frecce, in uno stato di assedio micidiale, acclamando la purezza di stilettate funky camuffate ma che sembrano figlie dei Talking Heads del primo incantevole album. La ritmicità, i giochi armonici di tastiere pazze e voluttuose inducono le dinamiche a essere sempre connesse con la follia. Si visitano territori orientali, si viaggia in Irlanda, ci si sposta nel tempo, ma i riferimenti, ed eventuali assonanze, sono inganni lucenti, meraviglia ed estasi scorticante. 

La furia assume i connotati di una sberla sonora erudita, votata all’insistenza e al non sprecare il calore del sangue nella sua stagionatura creativa. La voce di Samantha è un rosario tenuto tra i palmi delle mani, pronta a volare nel cielo, senza paracadute, priva di paura, modulata e nutriente, che è andata certamente a scuola, facendosi un’idea di ciò che è stato il canto in passato. Buttata la creta sul pavimento della sua cucina mentale, ha generato nuovi vascelli, usando l’ugola come un mulino a vento, dove la potenza e la determinazione sono compagni di viaggi pelvici e profumati di acini d’uva, in maturazione continua.


Il giardino, frequentato di notte dalla band, è un roseto dai colori mutanti: sono i sentimenti che modificano il loro dna e Samantha e Scott sembrano verniciare le indisposizioni, i tremori, i dubbi, con pennellate che sanno stringere il sodalizio con il fremito, circondando la natura e gli esseri umani, con i loro flash sensuali, per consentire al tutto un invito a condensare la vita nella improbabile  chance di sfuggire al loro disegno.

Una innegabile capacità di far sbattere le ali dell'esoterismo e della primitiva forma di esistenza degli impeti naturali umani fa sì che le canzoni siano collegate tra di loro, con una benedizione incessante data dalla melodica propensione a essere rudi ma raffinati, nel palco delle contraddizioni che finiscono per rendere beatamente confuso l’ascoltatore. Un album estasiante che rende il corpo una macchina danzante con le bave alla bocca: non ci si abitua mai ad accogliere composizioni che sembrano nascere mentre le note avanzano. Ed è miracolo puro, vitaminico, una gioia senza finestre che rimbalza sulle pareti di una estatica solitudine.

Entusiasma sino allo sfinimento l’impressione di un capitolo nuovo di questo duo: non solo una macchina da guerra con nuove strategie, non solo una meticolosa attenzione a non rendere le immagini le principali protagoniste, bensì un dipinto dell’istinto perfettamente collegato a un cratere che rivela atomi di terra che scivola dentro i loro frutti, prima acerbi e poi maturi al punto giusto.

Sono brani che si occupano di noi, dilatando i respiri nel loro imbuto, dove la velocità è pari alla intensità, in un gioco spettrale din cui la tensione non viene mai a mancare da parte del loro generatore, e le cellule di una memoria primitiva trovano il giusto tempo, nel candore del giardino di mezzanotte…


È pur sempre rock, un atto artistico, un qualcosa che giunge dall’emisfero del mistero per sostare e trovare residenza nella delirante e meravigliosa connessione con il suono, dove si trovano mini-assoli di chitarra (l’iniziale Midnight Garden, un abbaglio dentro l’ululato di lupi famelici), la massa di gramigna che cerca un luogo nel quale poter correre (Skip Boom), il gothic rock di provenienza Fields Of The Nephilim (Hypnotized), ma che poi vira in un fraseggio funky dilatato e saggiamente incupito.

Con Immortal siamo nel baricentro della perfezione: pop, art-rock, cabaret alzano calici di vino pieno di zucchero sospesi da una chitarra vibrante, con graffi rinfrescati da un arrangiamento perfetto.

Like In A Dream è l’unico brano che all’inizio ci fa pensare di averlo già sentito: Lucretia My Reflection della band di Andrew Eldritch (The Sisters Of Mercy) sembra riproporsi ma è un trucco, un piacevole inganno che dura poco per via del suo proseguimento che ci porta in altri lidi, i loro, di questa coppia artistica che disegna filosofiche strategie, rendendo l’ascolto una continua enciclopedia.

Le atmosfere della sesta traccia (Mr Scorpion) sono un candelabro d’oro, in un palco su cui la tragedia greca trova il suo giusto spettacolo, meticoloso, sensuale, graffiante, che rischiara le montagne in un giorno di eclissi lunare.

L’attacco iniziale di Sleepwalk Shuffle ci ricorda la voracità immaginifica dei Cramps, l’ecletticità degli Xtc, la spigliatezza delle Slits, il mistero dei Talking Heads, per dirigere i suoni in un portentoso riff di chitarra che con i vocalizzi assesta un bel colpo.

Che sia il vostro stupore a ospitare l’ipnotica messa di suoni e la tendenza al cambio di ritmi, di modalità e di atmosfere che fanno di Lighting Up The Sky un magistrale artifizio, con impronte di stivali da cowboy nella saga western di Sergio Leone, per arrivare a sfiorare la spalla di Lene Lovich.

La conclusiva End Of An Era è un processo di spostamento di altostrati nel cielo terremotato autunnale, con un doppio loop, musicale e vocale, che inchioda e ci fa razionalizzare l’esperienza dell’intero lavoro: un lamento gentile, un’acclamazione, un repetita iuvant implacabile e che materializza l’ossessione, fissando la perfezione e rendendoci davvero fortunati…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
26 Giugno 2024

My Review: Frenchy and the Punk - Midnight Garden


 Frenchy and the Punk - Midnight Garden


In a hypothetical day in the music kitchen, one cannot miss the appointment with New York, capable of ranging in proposals, very often succulent and attractive. They have a crazy flair there for mixing, creating, proposing new trends and polishing their past to make it always exciting.

They are faithful to something more than a mere technical exercise: they always visit the mystery, the restlessness, the disappointment, the criticism, the freedom of cultural movement in order not to leave this art on the ground.


It takes a duo, fierce in the right way, to sweep away the boredom, the fear, to joust the light inside a cloak full of electricity and remarkable seismic propensities, like a set of cold hours in the heart of summer. Samantha Stephenson and Scott Helland we know them well: they are lovers of the gamble, never prone to copying clichés but prone to generating weeds in their own path. Volcanic, powerful, they experiment with suggestion, capturing the sympathies of the succession of chords and mood panoramas by combusting words and carpets full of warmth and continuous hypnosis, touching emotional planes to freeze them in a swirling ideological manifesto that disturbs the oneiric effervescence, developing its waves with rippling rhythms of silver rings and pins.


A complete vibrancy, a friend of darkness without the propensity for depression, the whole work resembles an imprint full of slime and introspective sacrifice, in a hard work of analysis, to allow the two artists to reach heights never previously touched, while always producing excellent material. But in this latest episode of an exciting career one sees eclipses, thunderstorms, one smells a modern sacredness that draws on symbols in obvious parade.

A celestial gridiron that starts from Post-Punk to erudite the audience of free-spirited stars, inside the meanders of a continuous dizziness, a radiant adventure made up of nine episodes, to converge the past of that urban ensemble in a meeting where the pulsating electricity of constantly high-tempo songs allow one to sweat and find oneself damp in the glances. 

But there is a connection full of enthusiasm in bringing into the notes a theatricality that incorporates cabaret and shoots arrows, in a state of deadly siege, hailing the purity of funky stylings camouflaged but sounding like the daughters of Talking Heads first enchanting album. The rhythmicity, the harmonic games of crazy, voluptuous keyboards induce the dynamics to be always connected with madness. We visit eastern territories, travel to Ireland, move through time, but the references, and any assonances, are shimmering deceptions, wonder and flaying ecstasy. 


The fury takes on the connotations of an erudite sound slap, devoted to insistence and not wasting the heat of the blood in its creative maturation. Samantha's voice is a rosary held in the palms of her hands, ready to fly through the sky, without a parachute, fearless, modulated and nurturing, who has certainly gone to school, getting an idea of what singing has been in the past. Throwing clay on the floor of her mental kitchen, she has generated new vessels, using her uvula as a windmill, where power and determination are companions on pelvic, grape-scented journeys, constantly ripening.

The garden, frequented by the band at night, is a rose garden of mutant colours: it is the feelings that modify their DNA and Samantha and Scott seem to paint the indispositions, the tremors, the doubts, with brushstrokes that know how to tighten their partnership with the quivering, surrounding nature and human beings, with their sensual flashes, to allow the whole an invitation to condense life into the unlikely chance of escaping their design.

An undeniable ability to flap the wings of esotericism and the primitive form of existence of natural human impulses ensures that the songs are interconnected, with an unceasing blessing given by the melodic propensity to be rough but refined, in the stage of contradictions that end up blissfully confusing the listener. It is an ecstatic album that makes the body a dancing machine with burrs at the mouth: one never gets used to welcoming compositions that seem to be born as the notes advance. And it is pure, vitamin miracle, a windowless joy bouncing off the walls of ecstatic solitude.

They enthuse to the point of exhaustion with the impression of a new chapter for this duo: not just a war machine with new strategies, not just a meticulous attention to not making images the main protagonists, but a painting of instinct perfectly connected to a crater revealing atoms of earth slipping into their fruit, first unripe and then ripe to the right point.

They are tracks that take care of us, dilating breaths in their funnel, where speed is equal to intensity, in a spectral game in which the tension is never lacking on the part of their generator, and the cells of a primitive memory find the right time, in the whiteness of the midnight garden…


It is still rock, an artistic act, something that comes from the hemisphere of mystery to stop and find residence in the delirious and wonderful connection with sound, where one finds mini-guitar solos (the opening Midnight Garden, a dazzle within the howl of ravenous wolves), the mass of weeds looking for a place to run (Skip Boom), the gothic rock of Fields Of The Nephilim provenance (Hypnotized), but which then veers into a dilated funky phrasing that is wisely darkened.

With Immortal we are in the centre of perfection: pop, art-rock, cabaret raise glasses of sugar-filled wine suspended by a vibrant guitar, with scratches refreshed by a perfect arrangement.

Like In A Dream is the only track that at first makes us think we've heard it before: Lucretia My Reflection by Andrew Eldritch's band (The Sisters Of Mercy) seems to reintroduce itself, but it is a trick, a pleasant deception that lasts little because of its continuation that takes us to other shores, theirs, of this artistic couple that draws philosophical strategies, making listening a continuous encyclopaedia.

The atmospheres of the sixth track (Mr Scorpion) are a golden candelabra, a stage on which Greek tragedy finds its rightful show, meticulous, sensual, scratching, illuminating the mountains on a day of lunar eclipse.

The opening attack of Sleepwalk Shuffle reminds us of the imaginative voracity of The Cramps, the eclecticism of Xtc, the ease of The Slits, the mystery of Talking Heads, to direct the sounds into a portentous guitar riff that with the vocals packs quite a punch.

Let your amazement host the hypnotic massing of sounds and the tendency to change rhythms, modes and atmospheres that make Lighting Up The Sky a masterful contrivance, with impressions of cowboy boots in Sergio Leone's western saga, to touch on Lene Lovich's shoulder.

The concluding End Of An Era is a process of shifting altos in the earthquake-ridden autumn sky, with a double loop, musical and vocal, that nails and makes us rationalise the experience of the whole work: a gentle lament, an acclamation, an implacable repetita iuvant that materialises obsession, fixing perfection and making us truly lucky…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
26 Giugno 2024

https://frenchyandthepunk.bandcamp.com/album/midnight-garden

martedì 25 giugno 2024

La mia Recensione : Other Lives - Tamer Animals (album uscito il 10 Maggio del 2011)


 

Other Lives - Tamer Animals


A bocca aperta.

Si rimane così, per quaranta minuti, mentre si guarda il cielo con disincanto, poesia, rassegnazione, gioia tirata con il freno a mano ma pur sempre tale, e una densa propensione alla riflessione.

Artefice di tutto ciò è una band che fugge dai cliché, mandriani di una folla di bisonti in attesa di poter trovare cibo in queste deliziose composizioni, dove l’Ottocento e il Novecento sembrano essere lo spazio temporale di racconti, storie e favole che ruotano attorno al rapporto con la natura. Una maturità conferita da un lungo lavoro di scrittura, dal lasciarsi l’album di esordio alle spalle e di togliere chili per snellire il pensiero unico e posizionarlo con agio all’interno di afflati musicali che circondano la poesia e la coccolano, in una giornata tempestosa, in cui il gruppo di Stillwater (Oklahoma, Usa) cammina negli spazi aperti abbattendo case, palazzi e oscenità simili. Con queste canzoni torniamo a pensare a noi stessi abbandonando l'oggettistica e preoccupandoci di porci domande, dando al tempo il modo di procurarci le risposte. 

È folk, lavorato, elaborato, contemplato, messo nella condizione di cercarsi degli alleati, di dare al Chamber Pop una nuova identità, di rendersi amici il Progressive e la Psichedelia più misteriosa e poco percettibile, in un gioco di saliscendi inesorabili e attraenti. Le armonie sono rarefatte, calde, sempre rispettose, talvolta con fascinazioni evidenti per un uso cinematografico della musica (anni Sessanta), altre volte l’enfasi viene posta sulle singole note, in modo secco, preciso, ma pur sempre con delicatezza, prestando attenzione ai cori e a usare anche strumenti non consueti in questi contesti, come ad esempio le nacchere, i fagotti, i violini, il corno, con il risultato di archiviare uno spirito sinfonico che rende evidenti molti aspetti nella loro attitudine visionaria. La rarefazione, la delicatezza, la morbidezza rivelano come il disco sia una rispettosa azione nei confronti degli spazi aperti, un timore che mostra il doveroso approccio quasi silente nei confronti di questa infinità naturale.

Le derive malinconiche sono abili nel verniciare le pareti del cielo, attraverso una dinamicità sensoriale accattivante, dove l’allegria e la tristezza giocano a sfiorarsi le dita, per proseguire in incantevoli rincorse ritmiche, senza mai assomigliare alle tipiche espressioni pop e/o rock. Insomma, ci sono tanti aspetti che giocano a favore di una semplice e veritiera affermazione: un lavoro che è un gioiello, capace di insinuarsi nella mente per ripetuti ascolti, come se il film da loro prodotto avesse modo di essere una lunghissima prima visione. Evidente è la struttura tipica della musica classica, cioè quella di portare l'immaginazione dentro le cose, tra i pensieri, un unicum portentoso, che qui non ha bisogno di esplosioni proprie perché in grado di far saltare in aria il nostro apparato di ascolto…

Nessuna velleità ma una sostanziale capacità di dare alle canzoni il vestito di una giornata intensa e di farla vivere come fosse un sogno elegante, arioso, vivace, ma mai stucchevole. Ecco allora l’approdo, l’attracco che ha un nerbo estasiante, poco praticato nella musica, che è quello che si precisa nel coinvolgimento di storie con adeguate cinture di sicurezza, un viaggio breve ma pieno di orizzonti.

Ossessioni, oscillazioni cognitive e una lunga visita dentro la grotta di ogni paura vengono allineate in una camera visiva che concede fremiti e sorrisi, in cui la melodia sembra divenire con lo scorrere dei minuti una strega amica, nipote di un druido, cugina di una tempesta che illumina la bellezza di questa rapida visita nei microcosmi percettivi. 

Concludendo: se le dilatazioni conservano il nucleo, allora nulla si può obiettare poiché Tamer Animals è una chicca senza tempo in attesa di essere baciata da ascolti generosi…



Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25 Giugno 2024


https://open.spotify.com/album/49Q3cWuak1XlkKANPfAadt?si=5IqonCbQTOm1QZ7ayKnaaw




My Review: Other Lives - Tamer Animals (date release 10th May 2011)


 Other Lives - Tamer Animals


Open-mouthed.

One remains like this, for forty minutes, while gazing at the sky with disenchantment, poetry, resignation, joy pulled with the handbrake on but still, and a dense propensity for reflection.

The creator of all this is a band that escapes clichés, herdsmen in a crowd of bison waiting to find food in these delightful compositions, where the nineteenth and twentieth centuries seem to be the temporal space of tales, stories and fables revolving around the relationship with nature. A maturity conferred by a long writing process, by leaving the debut album behind and shedding kilos to streamline the single thought and place it with ease within musical afflatuses that surround the poetry and cuddle it, on a stormy day when the group from Stillwater (Oklahoma, USA) walks in the open spaces knocking down houses, buildings and similar obscenities. With these songs we return to thinking about ourselves by abandoning the objectification and worrying about asking ourselves questions, giving time a way to provide us with answers.  It is folk, processed, contemplated, put in the position of seeking allies, of giving Chamber Pop a new identity, of making friends with Progressive and the most mysterious and barely perceptible Psychedelia, in a game of relentless and attractive ups and downs.


 The harmonies are rarefied, warm, always respectful, sometimes with obvious fascinations for a cinematographic use of music (the Sixties), at other times the emphasis is placed on individual notes, dryly, precisely, but always with delicacy, paying attention to the choruses and also using instruments not usual in these contexts, such as castanets, bassoons, violins, horn, with the result of filing a symphonic spirit that makes many aspects in their visionary attitude evident. The rarefaction, the delicacy, the softness reveal how the record is a respectful action towards open spaces, an awe that shows the almost silent approach towards this natural infinity.  The melancholic drifts are skilful in painting the walls of the sky, through a captivating sensorial dynamism, where joy and sadness play at brushing fingers, to continue in enchanting rhythmic chases, without ever resembling typical pop and/or rock expressions. In short, there are many aspects that play in favour of a simple and truthful statement: a work that is a jewel, capable of insinuating itself in the mind for repeated listening, as if the film they produced had a way of being a very long first viewing. Evident is the typical structure of classical music, namely that of bringing the imagination inside things, between thoughts, a portentous unicum, which here does not need its own explosions because it is capable of blowing up our listening apparatus...


No wishful thinking but a substantial capacity to give the songs the dress of an intense day and make them live like an elegant, airy, lively but never cloying dream. Here, then, is the landing, the docking that has an ecstatic nerve, little practised in music, which is that which is specified in the involvement of stories with adequate safety belts, a short journey but full of horizons.  Obsessions, cognitive oscillations and a long visit inside the cave of all fears are lined up in a visual chamber that grants quivers and smiles, in which the melody seems to become with the passing minutes a friendly witch, a druid's niece, a cousin of a storm that illuminates the beauty of this rapid visit into perceptive microcosms. 

In conclusion: if the dilations preserve the core, then nothing can be objected as Tamer Animals is a timeless gem waiting to be kissed by generous listening...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

25th June 2024


https://open.spotify.com/album/49Q3cWuak1XlkKANPfAadt?si=5IqonCbQTOm1QZ7ayKnaaw



lunedì 24 giugno 2024

La mia Recensione: Beauty In Chaos - Diving From Pearls (Featuring Wayne Hussey and Cynthia Hussey)


 

Beauty In Chaos - Diving From Pearls (featuring Wayne Hussey and Cynthia Hussey)


La riconoscenza ha perso il suo peso specifico, strattonata e gettata in una pozzanghera ormai piena di rifiuti che andrebbero tolti da quel luogo e rimessi in circolo nelle praterie di cervelli sempre più volgari. Se poi tutto ciò lo si abbinasse all’amore, allora il lavoro sarebbe davvero notevole.

Ma c’è chi dà l'esempio e attraverso l’arte della musica ci rieduca, conforta, ci prende per mano tratteggiando il percorso di un rapporto dove il “tutto” viene, appunto, riconosciuto e dimostrato. Lo troviamo dentro il testo di una canzone scritta da Wayne Hussey, il genio dalla lampada sempre accesa e con le musiche di un'accoppiata sempre fertile e vivace: Michael Ciravolo e Michael Rozon, componenti della formazione di Los Angeles denominata Beauty In Chaos.

Il brano vede al canto anche la consorte di Wayne, Cynthia, in un connubio vocale che fa protendere questa dolce espressione sonora verso una collina piena di piuma e poesia.

Il pop si veste di una ballad ariosa, con trame che circondano il circuito gotico ma privo di esagerazioni, in quanto lo splendido scritto ha petali che cercano luce e la musica composta dai due membri della band losangelina sa come rendere morbide le atmosfere e portarle nella periferia di un dream pop solo accennato ma incantevole.

Esiste un bellissimo debito, mentre si ascolta questa tenera e penetrante favola musicale, ed è quello di vedere emergere la forza, la lealtà, la realtà, e in poco più di cinque minuti ci si ritrova inondati da un profumo gentile che ci fa l’inchino. Le movenze delle chitarre paiono uscire da uno spurgo degli anni Novanta, un’azione di filtraggio che lascia le note colorare i battiti e permette di ritornare all’ascolto con un grazie appiccicato alle labbra. 

Ci si tuffa, intensamente, in un impianto melodico che si fissa velocemente con il ritornello irresistibile e accattivante, all’interno di un testo che si allarga sempre di più, sino a proteggere e a chiedere di essere seguito per via di una saggezza indiscutibile.

La produzione rende compatto l’insieme di piccole e minuziose parti che, una volta saldate, arrivano in blocco per generare una contaminazione vorticosa e verticale, in quanto si finisce per nuotare nei mulinelli d’aria che queste note sanno creare, con magia e intensità.

Il synth e il basso, con i loro compiti e ruoli diversi, instaurano una relazione con la melodia delle chitarre e il ritmo della batteria generando una carrellata di emozioni in progressione, fissandosi nel cervello, nel cuore, concludendo il tutto in un chiaro esempio di come il compito di una canzone sia quello di offrire una possibilità di crescita. Il Vecchio Scriba non ha esitazioni nel confermare che l’operazione abbia avuto successo e ora attende soltanto che sia l’eternità a donarle un trono, meritatissimo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
25 Giugno 2024

My Review: Beauty In Chaos - Diving From Pearls (Featuring Wayne Hussey and Cynthia Hussey)


 Beauty In Chaos - Diving From Pearls (featuring Wayne Hussey and Cynthia Hussey)


Gratitude has lost its specific weight, squeezed out and thrown into a puddle now full of rubbish that should be removed from that place and put back into the prairies of increasingly vulgar brains. If this were then combined with love, then the work would be truly remarkable.

But there are those who set an example and, through the art of music, re-educate us, comfort us, take us by the hand, tracing the path of a relationship where 'everything' is, indeed, recognised and demonstrated. We find it within the lyrics of a song written by Wayne Hussey, the genius with the ever-burning lamp, and with music by the ever-fertile and lively pairing of Michael Ciravolo and Michael Rozon, members of the Los Angeles-based band Beauty In Chaos.

The song also features Wayne's wife Cynthia on vocals in a vocal combination that makes this sweet sound expression lean towards a hillside full of feathers and poetry.  The pop is dressed in an airy ballad, with textures that surround the gothic circuit but without exaggeration, as the splendid writing has petals that seek light and the music composed by the two members of the Los Angeles band know how to soften the atmospheres and bring them to the periphery of a dream pop that is only hinted at but enchanting.

There is a beautiful debt, while listening to this tender and penetrating musical fable, and that is to see strength, loyalty, reality emerge, and in a little over five minutes you find yourself inundated with a gentle perfume that makes you take a bow.  The movements of the guitars seem to come out of a nineties purge, a filtering action that lets the notes colour the beats and allows you to return to the listening session with a thank you stuck to your lips.

One plunges, intensely, into a melodic framework that quickly fixes itself with the irresistible and catchy refrain, within a lyric that expands more and more, to the point of protecting and asking to be followed because of an unquestionable wisdom.  The production makes compact the set of small, meticulous parts that, once welded together, come together to generate a swirling, vertical contamination, as one ends up swimming in the whirlpools of air that these notes know how to create, with magic and intensity.

The synth and the bass, with their different tasks and roles, establish a relationship with the melody of the guitars and the rhythm of the drums, generating a progression of emotions, fixing themselves in the brain, in the heart, concluding the whole in a clear example of how the task of a song is to offer a chance for growth.  The Old Scribe has no hesitation in confirming that the operation was successful and now only waits for eternity to bestow upon her a well-deserved throne...


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
25th June 2024



La mia Recensione: David Sylvian - Secrets of The Beehive


 

David Sylvian - Secrets Of The Beehive


Sarebbe bello approcciarsi alle arti visive con stratagemmi calcolati da tempo, con riserve, inquietudini e molteplici affanni, per poi portare tutto quanto all’interno della musica, alla sezione, specifica, del sanguinamento lento ma piacevole. Capita di rado che un disco dettagliato, pieno di specificità, manchi all’appuntamento con immagini acquisite da spunti all’insegna di una dinamicità costante.

Nel 1987, Talk Talk e Marianne Faithfull decisero di rendere rarefatte le dimensioni delle loro cifre stilistiche, contrapponendosi al ritmo, ai residui colmi di melodie sbarazzine che stavano prendendo posizione nelle zone alte delle classifiche.

Il più elegante e raffinato artista inglese si ritrovò in grembo, in soli quindici giorni, nove composizioni, scritte alla fine della lunga tournée del suo terzo album. Il quarto non nacque come una precisa volontà, piuttosto come un artefatto spontaneo e indisciplinato. Accolta e conservata la nuvola di stupore, David Sylvian decise chi doveva raccogliere e sviluppare quel feto composto di musiche vergini con angoli da smussare. Si fidò e si affidò al produttore del suo primo impegno da solista e tecnico del suono, in passato, degli XTC, di Bryan Ferry e dei Cure. L’intesa produsse una scintilla educata a mantenere le luci di questo percorso artistico basse, soffuse, articolate in modo che il suono non sfuggisse alla dinamica, in uno stato conservativo e contemplativo, per erudire la ricchezza interiore e affiancarla al suo momento specificatamente dedito al sufismo, al cristianesimo gnostico, per approdare al Buddhismo, la sua nuova scoperta, aperta come una coperta per la sua anima sempre curiosa e balbuziente. Le forze del bene e del male sono terrene, e lui ce lo spiega benissimo nei nove momenti di una lezione breve ma intensa. 

L’enfasi è concentrata sui testi, nati insieme alle musiche, ma che hanno avuto per la prima volta nella sua carriera da scrittore la volontà di pilotare la parte sonora per aprire finestre, connessioni, con l’intento di un matrimonio artistico che partisse dalla spiritualità, dal silenzio, dalle splendide pause, per progredire all’interno di un processo che è andato a mettere in risalto storie, discipline, culture, letture e, non ultimo, il senso di appartenenza a una teoria filosofica in evoluzione. È davvero interessante che le atmosfere, i ritmi, siano veicoli di allarmi educati, di stimoli che certificano consapevolezze nuove all’interno di un procedimento temporale che invece si appresta anche a sondare il terreno di sopravvivenza di un uomo antico e stordito. Ogni volta che si ascolta un album di Sylvian da solista, si ha come l’impressione di una band in naftalina dal punto di vista della visibilità, ma al contempo è evidente una volontà corsara di prendersi spazi evoluti e individuali. Emerge, in questo modo, l’abilità tecnica eccelsa, il fiuto, le discussioni sull’architettura dei brani e soprattutto l’arrangiamento orchestrale, compito che solo il suo prezioso e incredibilmente dotato di un talento unico Ryuichi Sakamoto poteva rendere limpido, solare, ombroso e ai piedi della struggevolezza quando era il caso. La produzione di Nye è di gran lunga la migliore della prima parte della carriera di David; per l’intuito di rendere il tutto un quasi concept album, di sviluppare l’atmosfera dentro raggi lunari e di saper contenere e mantenere eccelso l’ampio raggio di azione dell’umore, vero regnante di questo lavoro. La volontà di variare il percorso dei generi musicali senza ritrovarsi davanti a una inevitabile situazione stridula rende questo lavoro prezioso e unico.  Chiara è la matrice, la prima formula che da scintilla rischiara il tutto: quel jazz così tanto amato sin da bambino trova ora modo di presentare le sue gambe, di indossare la responsabilità di condurre nei suoi percorsi gentili l’ambient, il folk e atomi di new age a rendere il tutto un amalgama sensuale e mai noioso. Impegnativo, liturgico, sidereo, voluminoso, aspro ma senza mai alzare la voce: l’insieme dei fasci creativi decide di divenire l’ambientazione di una strada momentaneamente arredata per dare all’asfalto una rifrazione diversa. Le storie raccontate sembrano una vetrina di poesie affittate da improvvisate esternazioni, poi educate, infine inserite, con garbo, per divenire materia nell’ugola del cantante, così affine sempre a un canto che assomiglia a una dolce preghiera, atea.

Steve Jansen e Danny Grierson (quest’ultimo nella magnifica The Boy with…) siedono su uno sgabello per dare al ritmo un senso di protezione, con la fantasia che vola sul deserto per allietare e far riflettere…

Le chitarre, acustiche ed elettriche, sono performate dallo stesso David, da David Torn e da Phil Palmer, in una traversata melodica che accarezza le onde…

Danny Thompson ha tra le dita un talento unico, strabordante: il modo con il quale suona il basso è da premio Oscar, in quanto ogni volta le sue note diventano immagini in bianco e nero…

A Nigel Grierson non si può che offrire il migliore degli abbracci: l’immagine della copertina è la prima poesia, il primo frame, il primo fremito, la prima emozione che incontriamo quando afferriamo il vinile ed è quasi oltraggioso abbandonare quell’immagine per buttarsi nell’esperienza sonora del disco…


Nove inclinazioni, nove croci incrociate con il destino, nove riflessioni con la voce baritonale, in un minimalismo continuo e coerente, per poter far stagionare l’emozione e indurla al peccato più grave: creare un’associazione, benevola, con la seduzione ritmica e armonica, in un pomeriggio dai raggi brevi. Sembra assurdo pensare che questo lavoro abbia una carta d’identità, per via di una freschezza che si rinnova ascolto dopo ascolto, creando l’ipotesi di un patto con il diavolo che diverse volte mostra la sua ombra tra le tracce. 

Una lezione accademica, una sfilata di classe, un invito ad assaggiare l’assenzio in solitudine, senza bramare l’amore, se non quello di una tazza di tè.

L’utilizzo di brani come piccole vibrazioni concede all’ascoltatore il lusso di un trasporto lento, mai occasionale, sempre mirato a riprendere lo stesso movimento di quando si era cullati da bambini. Ecco, forse, perché questo album gioca con le tappe dell’evoluzione, sino a sfiancare, dolcemente, ogni paura.

Ci si può smarrire davanti all’ultimo passo creativo in cui David ha lasciato alla forma canzone il compito di guidare le evoluzioni, di mantenere un piccolo contatto con la semplicità, di non impegnare troppo la vicinanza a tutto ciò che si trova: occorre approfittarne, in quanto da questo lavoro, per una ventina di anni, nulla sarà approcciabile nello stesso modo. 

Tutte le culle si affacciano a un presa con poche necessità di modifiche: nella immediatezza trovano posto piccole e minuziose suite, quasi impercettibili, nella felice decadenza di un percorso che prima strega e poi affossa…


Non si dimentichi mai la copertina Secrets Of The Beehive, con le sue impronte, quella piuma, che sembra anticipare il tutto congelando gli occhi in uno sguardo quasi preoccupato.

Infatti.

Infatti non è semplice acquisire le lezioni, le bacchettate, minuscole ma presenti, che queste canzoni ci donano, in un polveroso primo giorno di scuola. La disciplina di Sakamoto consente ancora una volta la miscelanza tra l’oriente e l’occidente, non senza qualche attrito, sublime e doveroso. Ryuichi ha capito subito da dove David voleva presenziare al suo parto: in una sala seminascosta ma illuminata dall’estasi dello stupore. L’insieme di quest’opera non fallisce, attrae, avvolge, coinvolge, senza la necessità di travolgere: nel gioco moderno della musica, dove tutto scivola, Sylvian decide di creare l’avamposto di un attrito rarefatto, celato ma rapace, scorgendo nella produzione l’arma per ferire dolcemente…


Adesso è ora di attraversare la paura e di entrare nei nove momenti dell’album, tenendo l’apnea ben in vista di modo che il respiro sarà più cosciente di quello che incontrerà e non incontrerà…



 Song by Song


1 - September

Un piano, la voce, un umore con le bave portate via dal vento silenzioso, il mistero di tasti che sembrano tutti di color grigio aprono questo lavoro, con un synth che si affaccia, nel crepuscolo, il bisogno di localizzare il sentiero di una stagione appena iniziata con il mese più importante e via, in lentezza, in adiacenza, con una coccola vocale che nasconde sin da subito gli artigli in un testo che sbuffa con grande capacità… 



2 - The Boy With The Gun

La chitarra semiacustica, il basso, il synth e la conferma che è nella metrica del cantato di David che si possa trovare pace anche in mezzo a parole piene di piombo, sotto la pelle del sole testimone dell’ennesimo scontro umano. Echi dell'album di esordio si presentano, ma l’arrangiamento di Sakamoto porta tutto più lontano, con egregia lentezza, con immagini che escono dalle distorsioni educate di una chitarra maestosa. Ed è world music piena di coperte, camuffata, in attesa di uno spazio che arriverà a breve…

Il gioco degli archi sintetici inganna il tempo e la percezione, per donare alla poesia della melodia una fisicità instancabile…



3 - Maria

L’ambient di Sylvian ha una dimensione vicina al progressive americano dei primi anni Settanta (nei primi secondi del brano), per poi materializzare il tutto in un volo sopra l’occidente ed è qui che Sakamoto mette la sua filosofia governando l’insieme del processo sonoro, come un dispetto da fare al rumore, per una inclinazione religiosa che si discosta però dalla musica sacra. 



4 - Orpheus

Il Vecchio Scriba adora il flicorno, uno strumento dalla gittata fenomenale che in questa canzone oscilla tra la visibilità e il sogno nel momento di questo lavoro che ha voluto condurre verso la necessità di un singolo, quasi come premonizione, allerta, avvisaglia della grandezza di questo quarto episodio di Sylvian. Rimpalli, onde sonore conosciute dai delfini, venti morbidi del Sahara, una poesia emotiva che sfiora il muro del pianto per divenire una sirena senza sosta, per incantare l’apparato uditivo. Orpheus è un guitto del primo Novecento, che affitta le pareti in un garage americano e scende a Londra a cercare un abbraccio, tra malinconia e incanti a presa rapida. Il testo è una sberla che unisce la storia dell’uomo al suo destino, dove nulla cambia e in cui le promesse muoiono, una dopo l’altra…



5 - The Devil’s Own

Il momento più cupo, quasi drammatico dell’intero lavoro, è un filo di piombo in cerca di tenebra: i rintocchi dei tasti bianchi del piano sono un carillon dello stupore, adatto solo agli adulti. Ed ecco apparire, con timidezza prima e arroganza poi, la paura dell’eco di voci disinibite. Il pezzo sale di intensità grazie a un'orchestrazione che posiziona il tutto nei pressi della musica classica ma con meno veemenza e in cui le voci piene di riverbero alla fine paiono finestre dell'anima in fase di chiusura. David, ancora una volta, gioca con le pause per creare maggior pathos e lasciare la nostra sensibilità nei pressi del timore che qualcosa possa accadere ai protagonisti del testo. E infatti accadrà…



6 - When Poet Dreamed Of Angels

C’era una volta un pittore che anticipava i giochi di luce dei colori. Vini, sì, il poeta dei Durutti Column, intento a pilotare la chitarra flamencata verso Manchester, per poi lasciare navigare l’artista londinese verso altre strisce di asfalto. Strutturato in modo diverso rispetto alle altre composizioni, WPDOA è una feritoia sonora, fatta di stratagemmi, di evoluzioni, di contorsionismi, con la luce di strade che sembrano partire da da Siviglia, attraversare le Alpi e arrivare a New Orleans. Senza teunmpo, con una stagionatura continua, presenta l’unico assolo di tutto l’album, ma mai centrale, in quanto bisognoso di essere circondato dalla genuina spontaneità che non blocca la struttura melodica.



7 - Mother And Child

Prendi i Japan, in una sera piena di ozio e noia, e invitali alla meditazione: troverai di sicuro questo gioiello applaudire, quasi con tremenda devozione, a tutto ciò che non è stato possibile creare. Il contrabbasso è un pugno morbido, il piano con la scia jazz un treno che non ha fretta, il charleston della batteria è una scossa che esce dai vicoli di Washington e la voce di David un attentato di sensualità mentre la storia, drammatica, pare essere instradata verso un luogo dove l’onirico possa sospendere il tutto.



8 - Let The Happiness In

Arrivano i Dead Can Dance, lenti, cupi, magnetici, nei primi secondi della canzone poi la voce ci sposta, la traiettoria musicale diventa meno tetra e sale in cattedra la tromba di Mark Isham, che soffia via la melodia per contrapporsi a un organo tetro, quasi minaccioso. Poi si incontra un tambureggiare delicato e sensuale, mentre le note farebbero credere di essere intente a prendere luce, oltre che ritmo, e si capisce come questo momento sia pieno di brividi, di sospesi che bilanciano un desiderio di serenità che sembra impedito. 



9 - Waterfront

Come si congeda la bellezza, la ricchezza di una esperienza simile? La risposta è nelle note, nei giochi di parole, nella non discreta volontà di condurre la struggevolezza dentro il ritmo che non ha bisogno del basso e/o della batteria: è tutto coscientemente pilotato dagli archi, e da un piano che abbisogna di pochissime note per creare uno iato, un urlo silente, confezionato per dare al racconto quella credibilità che il testo reclama. Questo momento sublime termina con la voce che ha stigmate di luce, sorseggiando un bisogno, educato, di lasciare il tutto così com’è… 


Ultimo pensiero: è cosa buona e giusta cedere alla bellezza di questo impianto artistico, ma non siate dimentichi di dare luce ai testi.

Tra i suoi primi dischi non vi è dubbio alcuno che questo sia quello più vicino a essere considerato un miracolo che ci meritavamo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
24 Giugno 2024

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