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domenica 24 luglio 2022

La mia Recensione: Morrissey - This Is Not Your Country

La mia recensione 


MORRISSEY - This is not your country 


Il titolo è tratto dal film australiano sugli skinhead intitolato "Romper Stomper".

L’eleganza di un respiro che dura il tempo di una canzone è sempre un grandissimo e prezioso appuntamento, anche quando è composta di parole al vetriolo camuffate.

L’ascolto deve sempre essere un quinquennio, minimo, di studio, dove imparare non significhi solo saperne un po’ di più ma diventare intimi con essa, fiori che toccano l’eternità, l’unica concessa, perché una splendida canzone può essere infinita nel tempo e durare millenni.

Il Maestro dell’incanto, il poeta del sorriso storto, il condottiero delle cause perse ma sempre vincitore per il suo coraggio continuo ed estremo, Mr. Morrissey, da Stredford, ci ha consegnato una raccolta di ferite con saggezza in pochi minuti.

Con questo brano siamo testimoni, inermi e addolorati, principi cupi senza trono, le mani bucate che parlano del nostro incessante sbandamento, la strada che, diventata sentiero, ci disperde tutti.

Qui non troverete varianti, momenti esaltanti dove poter cantare, solo una fiumana di lacrime mute, bollenti dentro gli occhi ed una voce che farà sentire il brivido di un dolore aggiunto a questa storia che, sia che unisca o che divida, è molto più di una fotografia, è un raggio X impietoso, una tac, quello che vi fa più comodo pensare.

Rimane l’amarezza e la bellezza che si trovano contemporaneamente nello stesso posto. Moz li fa stare lì per sette minuti e ventitré secondi, un infinito che scende tra le sue note e parole per non morire…

Alain Whyte, musicista dotato di mille petali e sensibilità ormai rare, scrisse questo vento di piume con una breve successione di accordi, un arrangiamento struggente, dando così a Moz la possibilità di devastarci, di inchiodarci alla collina dei pensieri, dove fa freddo e piove tutto il giorno.

E poi lei, unica, inimitabile e qui più struggente che mai: la voce, con il suo cantato trascinato, le piccole incursioni verso saliscendi di tonalità di registro, senza però mai togliere dal suo timbro una cupezza quasi insostenibile, arriva nella mente, prima che nel cuore, per essere quel graffio che potrebbe svegliare le nostre coscienze.

Prodotta in modo magistrale da Danton Paul Supple, capace di dare brillantezza ad un suono mentre cavalca la nebbia e di completare l’arrangiamento, la canzone parte buttandoci sin da subito, nei primissimi secondi, in musica da film thriller. D’altronde siamo in quei dintorni, con le parole di Morrissey che, guardando e annotando lo schifo crescente, non può che fissare il tutto con parole con la testa bassa. 

Chitarre e tastiere che cercano un richiamo alla musica popolare inglese, tintinnii a illuminare le tristi scene, sino a graffi e tamburi che prepotenti si affacciano per calcare la mano.

Quando un brano profuma di rassegnazione, il soldato britannico punta la sua arma e non ci resta che cucirci la bocca: davanti a questa canzone si può rimanere solo muti.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Luglio 2021



https://open.spotify.com/track/23gGkKRkuelLmEV1VTA11Z?si=H-DXkQWrS96Y8Auak26Vww



Road blocks and fire

Barbwire upon barbwire

This is not your country

Armoured cars, corrugated scars

Graffiti scrawls:

"This is not your country"

"Home sweet fortress"

"Gunshot" - "We hate your kind"

"Get back!"

"This is not your country"

I need some air 

And I'm stopped and repeatedly questioned 

Born and raised

But this is not MY country 

We're old news 

All's well 

Say BBC scum 

One child shot, but so what?

Laid my son 

In a box, three feet long 

And I still don't know why 

A short walk home becomes a run 

And I'm scared 

In my own country 

We're old news 

All's well 

Say BBC scum 

Everybody's under control 

Of our surveillance globes 

We're old news 

All's well 

And thirty years could be a thousand 

And this Peugeot ad 

Spins round in my head 

British soldier pointing a gun 

And I'm only trying to post a letter 

A short walk home becomes a run 

And I'm scared, and I'm scared, I'm scared 

Old news 

All's well 

BBC scum 

You've got more than the dead, so zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

You've got more than the dead, so zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

You've got more than the dead, so zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

Zip up your mouth 

You've got more than the dead, so zip up your mouth

domenica 26 giugno 2022

La mia Recensione: Morrissey - Vauxhall and I

 La mia Recensione:


Morrissey - Vauxhall and I 


Un uomo è una pietra che accoglie il sole, il muschio, il vento, la pioggia, la neve, l’efferatezza umana, testimone della gioia e della tragedia, il custode del tutto, muto e capace di accogliere.

Poi c’è un uomo poeta, uno sguardo immenso, intenso, che cade nella sua penna come una piuma anche se ha sulla schiena tonnellate di nero, perché questo è il suo compito: arrivare con leggerezza anche se appesantito, questo è il ruolo suo, sino alla fine.

Il suo nome è Morrissey, la lacrima sinuosa che viaggia nei decenni con gli occhi sempre più cinici, nostalgici, obliqui e pesanti, ma ciò che ci dona alla fine ha un qualcosa di magico, prezioso, vero che non si può rifiutare.

Introspettivo, rassegnato, pessimista, riesce con un verso solo a darci forza malgrado questo magma soffocante: è il suo indiscutibile talento, ciò che lo eleva sul palco del vincitore, dove non esistono più gladioli bensì spine velenose.

Il più perso tra le anime perse, incredibilmente diventa l’unico appiglio per chi pensa di essere solo e perduto. Ascoltando lui si difende il diritto alla vita, si smette di morire quando ci si sente vivi nonostante la depressione, ancora prima di resuscitare, perché la sua voce e le sue parole ti incollano al desiderio di voler vivere, anche se con il suo stesso sguardo verso il basso.

Morrissey torna con un nuovo fascio di canzoni, ci fa entrare nelle sue sommosse, nelle sue disperazioni, con le sue rabbie a cui ha messo dei filtri e, abbracciandoci con la sua consueta gentilezza, ci mette tra le mani il suo calvario recente, i suoi respiri agitati, con parole che sanno attraversare ogni ostacolo, per arrivare a vedere pienamente che la sua carriera è il miglior metodo per arrivare a trovare noi stessi.

Un album assolutamente capace di mostrare questo poeta in grado di compattare il suo passato e offrirci nuove visuali, nuove prospettive per un’anima così vasta da risultare impossibile da comprendere e valutare, perché non ci rimane che l’adorazione per la sua abilità nel frullare i suoi eventi pubblici e privati per poi farci bere sorsi di un vino prelibato. Unico.

Canzoni che hanno un movimento riconoscibile ma nuove in certi momenti, che sorprendono per la sua propensione a donare brillantini su ferite aperte: sa pennellare armonia laddove esiterebbero presupposti per raccogliere solo lacrime. 

C’è un uomo che appartiene a se stesso, che cattura tutto come se fosse ossigeno, che manifesta solo il desiderio di scrivere e cantare l’universo corrotto da malinconie senza freni a mano, con l’intenzione di lasciare all’eternità il dono della sua testimonianza, come una risorsa alla quale lui per primo sa che pochi faranno affidamento. Forse nemmeno lui, e questo lo rende intenso e credibile.

Le sue canzoni, in questo straordinario Vauxhall and I, ci fanno toccare i respiri, suoi e dei suoi tormenti, e il loro ascolto diventa un nuotare dentro di lui, sino a scomparire.

Il bardo pone domande, sentenzia passando al setaccio sentimenti e comportamenti, produce rumori nello stomaco, gratta la polvere delle abitudini e, con spavalderia, si distanzia da ciò che lo opprime, costruendosi il suo eremo, fatto di delicata tensione emotiva, sino a sbattere la porta andandosene con le sue parole nella tasca.

Con i suoi problemi si riempie e ci riempie il cuore: ciò che il cielo gli ha regalato in queste canzoni è un disegno affinché siamo noi a beneficiarne, per coccolare la sua sofferenza e restituirgli quello che lo stesso cielo gli ha negato, ovvero la possibilità di essere come tutti noi.

Il suo vocabolario, sempre denso di cumuli di saggezza decadente, vira verso l’apoteosi donando immagini fluorescenti, domando i suoi terremoti per non cedere, lui che è sempre a un passo dal dirupo.

Insieme a Viva Hate, questo album rappresenta la capacità di unire le forze con le debolezze, dove la sua vita non è un gioco ma un crocevia esasperato, trafficato da elaborazioni continue, esperienze che spaccano le rocce, fanno piangere le tossine che vorrebbero rovinare i tessuti della sua bellezza, fallendo.

L’abilità, di Smithsiana discendenza, di dare alla voce il ruolo di sospendere il significato di piombo conficcato nelle parole con la sua propensione verso un canto che sappia far galleggiare le tensioni è ancora intatta, magnifica e decisiva, tenuta volutamente viva, ad altissimi livelli.

Alain Whyte e Boz Boorer sono i suoi due angeli, pittori di note e piloti di intrecci e scorribande rock, con quella faccia pop che ben si addice a Moz. Loro due escono vincitori malgrado lo scetticismo, i paragoni ingombranti, distorti e imbarazzanti con l’epopea degli Smiths. Hanno imparato in fretta ad amalgamare indubbie qualità per donare a Morrissey strade sonore nelle quali sentirsi a suo agio, perfettamente. Conclude la formazione il basso di Jonny Bridgwood e la batteria di Woodie Taylor, per un insieme capace di nuove soluzioni armoniche, con un arrangiamento minimo ma esemplare. La produzione di Steve Lillywhite è compatta e, che piaccia o meno, addirittura superiore a quella di Mick Ronson, del precedente Your Arsenal. Nessuna canzone conosce momenti di debolezza, di stanchezza, ma sono sempre tenute vive dalla sapiente abilità di rivestirla di luce per l’album più introspettivo di sempre del fuoriclasse Mancuniano.

La tristezza sembra figlia di una necessità, non la conseguenza di disastri (comunque capitatogli, vista la profondità delle tre dipartite che ha vissuto di persone per lui preziose e importanti), e per questo trova conferma la purezza di un sentimento che gli governa il polso: sono lacrime le sue che nascono da un avamposto a noi sconosciuto. Come le stelle che scomparendo lasciano le persone vedove prive della loro bellezza, ecco che Morrissey fa lo stesso con i suoi brani che, ogni volta che finiscono, lasciano lo smarrimento mentre si brinda a nuove puntate perché il suo genio va celebrato, senza paure.

Trovata la linea conduttrice dei testi, sparsa nei suoi filamenti dorati, la sua voce ubbidisce al progetto di spingerla verso la tenerezza, come se una coccola potesse nascere dal baratro che ci mostra in primissimo piano.

In un periodo in cui le chitarre del mondo erano accordate sul fracasso, sull’estremizzare un’emergenza votata alle urla sonore, la band di Morrissey trova modo di visitare melodie, arpeggi, tuffi di luce che rapiscono il buio senza ucciderlo, lasciando ai testi di Morrissey la capacità di decidere il suo destino. Canzoni che commuovono, ci fanno preoccupare, attraversano del tutto la paura di saperlo ad un passo dalla resa. Più maturo di quando era considerato tra gli autori migliori degli anni 90, in questo lavoro si eleva ad essere migliore di se stesso riuscendoci perché, se gli Smiths rimangono irraggiungibili, con questo album può guardare il suo passato dalla stessa altezza, quella degli occhi.

Un disco che esorcizza alcuni demoni e sembra invitarne altri: non vi è pace nella sua intelligenza che rovista tra i rifiuti, dove lui per primo fatica a tenersi fuori da quel gesto. Canzoni come spie, come lampi di vento per sondare la nostra capacità di accoglienza, nella solitudine di un uomo che ha nel microfono lo strumento per sciogliere la sua croce.

Ciò che risalta di questo quarto lavoro è l’impressione di una maturità raggiunta per iniziare una nuova fase: come se fosse in grado di scrivere il futuro cantando il presente, con chitarre a disegnare la forma di un uomo sempre più distaccato dalle movenze di un sistema a lui estraneo. La luce della sua sincerità è talmente evidente che esplode nella sua scrittura mirata a confondere la bugia e la cattiveria, non negando ma mischiando le carte del suo gioco pericoloso.

Morrissey ama ancora la propensione verso la maledizione di chi osservando e capendo non può che sanguinare, scegliendo pochi amici per trovare una strada solitaria dove mettere a fuoco le sue acute dimostrazioni di classe, un attore del cuore che semina sollievo perché sa riunire le paure di tutti noi, spettatori incantati dalla lacrima pronta. Un disco profondo, determinato, la culla che senza freno a mano prende velocità per sparire dal nostro sguardo. Mentre questo ascolto misura il polso alla sua classe, a noi rimane la pelle costantemente bagnata, in una febbre emotiva che anestetizza il passato e si torna a pensare che il bardo di Stretford sia più in forma che mai, perché senza filtri tutto il suo clamore si appoggia sul nostro cuore per stregarlo sino all’ultima nota.

Non ci resta che nuotare tra le undici corsie e imparare a bersagliare i nostri nemici con le sue canzoni…



Song by song


Now My Heart Is Full


Boz Boorer scrive una musica che si affaccia sull’oceano, Morrissey ci mette le onde con parole toccanti che rivelano la sua acquisita maturità, con la strofa e il ritornello che fanno l’amore, con momenti anche difficili ma con la sua gioia, che emerge ma che non può di certo essere sorridente. Nata per divenire l’atto d’amore perfetto di chi adora quest’uomo, senza reticenze, la canzone è il vero abbraccio di Morrissey a tutti noi.



Spring-Heeled Jim


Testo straordinario, Moz ci fa immergere dentro due storie che sembrano distanti ma riesce ad amalgamarle in modo perfetto. In un racconto dove il sesso non garantisce l’amore, mentre appare più possibile invece che arrivino ostilità, ecco che, sulla musica ancora di Boorer, Morrissey prende la sua voce e ci riporta a Viva Hate come approccio. Il crooning costante tiene accesa la tensione mentre le parole viaggiano sensuali dentro una vicenda che graffia la pelle con questa onda sonora che, come nebbia sudata, ci conduce in un Alternative con chitarre rock accennate ma tenute sempre lontane.


Billy Budd


Alain Whyte scrive un tuono che sembra uscire dalle corsie di Your Arsenal, con un atteggiamento glam ma senza rinunciare a distorsioni malate di grigio sulle quali la voce del Maestro Moz può liberarsi con la sua metrica riconoscibilissima. Diventa l’unico brano che sembra fuori sincrono con tutti gli altri, ma forse proprio per questo degno di tutta la nostra attenzione. Il testo invece si trova perfettamente allineato con il progetto dell’album per renderlo alla fine irresistibile.


Hold On To Your Friends


Alain tratteggia il viale malinconico sul quale le parole di Moz sembrano passeggiare con lo sguardo di chi ha capito cosa ha valore nella vita. Qualcosa di funereo aleggia donando al brano tutta la potenza che serve a noi per abbandonarci dentro questo gioiello pop-rock capace di unire gli anni 70 agli anni 90 con un assolo che scolpisce l’aria.


The More You Ignore The Closer I Get


Morrissey in una canzone? Eccola, senza dubbi: l’ascolti e ti sembra di averlo accanto, mentre sprecando il tuo tempo non hai nemmeno più le lacrime a consolarti. Boz spazia con la sua scrittura raccogliendo le nuvole degli anni 50 per amalgamarle ai venti stanchi di questo decennio. Morrissey scrive, descrive e ci alza lo sguardo per riempirlo di verità incollate, che ci tolgono il fiato.


Why Don’t You Find out for Yourself


Come avere la sensazione che essere inchiodati ad una croce possa essere delizioso: Whyte e Moz creano una cella melodica, una piuma che viaggia sotto il mento della verità incline al pianto degli errori. La melodia cattura, la chitarra semiacustica e quella elettrica danzano insieme e a Moz non resta che scrivere un ballo vocale che brillerà sempre per la sua teatralità infinita, mentre le nostre riflessioni si faranno impegnative perché quest’uomo sa inquadrare la verità perfettamente.


I Am Hated For Loving


Whyte e Moz in splendida forma entrano quasi con gentilezza in una storia amara, aspra, con cenni di violenza tenuti saggiamente quasi nascosti, quasi… Come una ragnatela che sorride crudelmente, così fa l’atmosfera del brano che sembra gentile mentre invece diventa un pugno ben assestato al cuore. Il lungo finale musicale è reso perfetto da un vocalizzo semplice ma armonioso su cui stringersi.


Lifeguard Sleeping, Girl Drowning


Il primo dei due capolavori dell’album arriva: con la melodia stupefacente scritta da Boorer, possiamo ascoltare il cantato di Moz come mai abbiamo sentito per percepire cosa è veramente la dolcezza, una ninnananna sensuale e al contempo violenta con la sua storia che la musica sa rendere perfetta. Depressa, ironica, sensuale, conduce ad un pianto inarrestabile, violento, descrivendo il dolore di un desiderio che trova la sua gabbia per morire.


Used to Be a Sweet Boy


Morrissey e Whyte mettono l’amore per gli anni 70 in una pastiglia, composta da dolcezza e solitudine, una nuvola che si perde nel cielo in una giornata di sole tiepido. Può essere ascoltata solo in una camera, con la finestra chiusa, avvolti da una melodia che sembra un carillon che semina sospensioni emotive, toglie il fiato, mentre la storia alla fine concede un bacio alla tristezza.


The Lazy Sunbathers 


Un arpeggio che strega, Whyte ci sa fare sul serio e lo dimostra dando a Moz il via libera con un cantato maestoso, su parole come raggi che si perdono nel parco giochi della vita, senza rumori, tra la pigrizia e l’arrendevolezza che fanno a gara. 


Speedway


Eccolo, il secondo capolavoro, scritto ancora da Boorer, concludere l’album con la canzone più bella di sempre di Morrissey.

La sensazione è quella di un testo che sa riunire la storia degli Smiths con l’attualità pubblica e privata di Moz, in un brano struggente, tiepido, un sorso di tè nel quale far scendere la delusione, la realtà, lo smarrimento, le sicurezze, in un turbinio emotivo drammatico. La musica è una dea fasciata da chitarre malate di tensioni rock, con i piedi su una nuvola shoegaze, che avvolge il testo per esaltarlo, per renderlo libero di gravitare nella nostra mente che si ritrova scioccata dalla bellezza, da microbi che mangiano i tessuti delle nostre resistenze. Le parole prendono residenza per divenire un tatuaggio, un fulmine che mostra la potenza di Morrissey che non adopera l’urlo per farci afferrare il suo dolore, bensì aspira le parole nel microfono per portarci dentro di lui in un viaggio dove la sua modalità espressiva diventa il luogo della sua meraviglia, colma di crude verità.


Ogni Grazie non è la fine bensì l’inizio di una profonda forma di contatto e da questo album, forse, il legame con Morrissey diventa eterno…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford 

25 Giugno 2022


https://open.spotify.com/album/5lKYNLYykoFAVRAeV5EqPE?si=IRzCypVPS7SZyufY6Bh8RA









My review: Morrissey - Vauxhall and I

 My Review:


Morrissey - Vauxhall and I 


A man is a stone that welcomes the sun, the moss, the wind, the rain, the snow, the human brutality, a witness to joy and tragedy, the guardian of everything, mute and capable of welcoming.

Then there is a man who is a poet, an immense, intense gaze, which falls into his pen like a feather even though he has tons of black on his back, since this is his task: to arrive lightly even if burdened, this is his role, to the end.

His name is Morrissey, the sinuous tear that travels through the decades with increasingly cynical, nostalgic, oblique and heavy eyes, but what he eventually gives us has something magical, precious, true that cannot be refused.

Introspective, resigned, pessimistic, he manages with a single verse to give us strength despite this suffocating magma: it is his unquestionable talent, what elevates him onto the winner's stage, where there are no longer gladioli but poisonous thorns.

The most lost of lost souls, incredibly he becomes the only foothold for those who think they are alone and lost. Listening to him you defend your right to life, you stop dying when you feel alive despite depression, even before resurrecting, because his voice and his words make you hold on to the desire for life, even if you look downwards like him.

Morrissey returns with a new bundle of songs, he make us enter into his inner riots, his despairs, his rages to which he has put filters, and, embracing us with his usual kindness, he puts his recent ordeal, his agitated breaths in our hands, with words that know how to cross every obstacle, to fully see that his career is the best way to find ourselves.

An album absolutely capable of showing this poet able to compact his past and to offer us new views, new perspectives for a soul so vast that it is impossible to comprehend and evaluate, because we are left with nothing but adoration for his ability to blend his public and private events and then make us drink sips of a delicious wine. Unique.

Songs that have a recognisable movement but are new at certain moments, surprising for his propensity to put glitter on open wounds: he knows how to paint harmony where there should only be tears. 

There is a man who belongs to himself, who captures everything as if it were oxygen, who manifests only the desire to write and sing about the universe corrupted by melancholies without handbrakes, with the intention of leaving the gift of his testimony to eternity, as a resource on which he first knows few will rely. Perhaps not even he himself, and this makes him intense and credible.

His songs, in this extraordinary Vauxhall and I, make us touch his breaths, his own and those of his torments, and listening to them becomes a swimming inside him, until disappearing.

The bard asks questions, passes sentences sifting through feelings and behaviour, makes noises in our stomach, scratches the dust of habits and, with bravado, distances himself from what oppresses him, building his own hermitage, made of delicate emotional tension, until he slams the door and leaves with his words in his pocket.

With his problems he fills himself and fills our hearts: what the heavens have given him in these songs is a drawing for us to benefit from, to pamper his suffering and give him back what the same heavens have denied him, namely the chance to be like the rest of us.

His vocabulary, always dense with heaps of decadent wisdom, veers towards apotheosis by giving fluorescent images, taming his earthquakes so as not to give in, he who is always just a step away from the precipice.

Together with Viva Hate, this album represents the ability to combine strengths with weaknesses, where his life is not a game but an exasperated crossroads, trafficked by continuous elaborations, experiences that break rocks, make the toxins that would like to ruin the tissues of his beauty cry, failing.

The ability, that comes from The Smiths, to give the voice the role of suspending the leaden meaning embedded in the words with his propensity for a singing that can make tensions float is still intact, magnificent and decisive, kept deliberately alive, at the highest level.

Alain Whyte and Boz Boorer are his two angels, painters of notes and pilots of weaves and rock raids, with that pop face that suits Moz so well. The two of them emerge victorious despite scepticism, cumbersome, distorted and embarrassing comparisons with the story of The Smiths. They have quickly learned to amalgamate undoubted qualities to give Morrissey sound paths in which he feels comfortable, perfectly. Jonny Bridgwood's bass and Woodie Taylor's drums complete the line-up, for an ensemble capable of new harmonic solutions, with a minimal but exemplary arrangement. Steve Lillywhite's production is compact and, like it or not, even superior to that of Mick Ronson in the previous Your Arsenal. No song knows a moment of weakness, of tiredness, but they are always kept alive by the great skill of coating it in light for the most introspective album ever by the Mancunian master.

Sadness seems to be the child of a necessity, not the consequence of disasters (in any case, they happened to him, given the depth of the three losses he experienced of people precious and important to him), and for this reason the purity of a feeling that governs his pulse is confirmed: his are tears that arise from an outpost unknown to us. Like the stars that disappear and leave people widows deprived of their beauty, Morrissey does the same with his songs, which, each time they end, leave one bewildered as one toasts to new episodes because his genius must be celebrated, without fear.

Having found the guiding line of the lyrics, scattered in its golden filaments, his voice obeys the project of pushing it towards tenderness, as if a cuddle could arise from the abyss he shows us in the foreground.

At a time when the guitars of the world were tuned to the din, to the extremes of an emergency devoted to sonic screams, Morrissey's band finds a way to visit melodies, arpeggios, plunges of light that abduct darkness without killing it, leaving Morrissey's lyrics to decide its fate. Songs that move us, make us worry, cross the fear of knowing he is so close to surrender. More mature than when he was considered among the best songwriters of the 90s, in this work he rises to be better than himself, succeeding because, if The Smiths remain unreachable, with this album he can look at his past from the same height, that of the eyes.

A work that exorcises some demons and seems to invite others: there is no peace in his intelligence rummaging through rubbish, where he first struggles to keep himself away from that gesture. Songs like spies, like flashes of wind to probe our capacity for acceptance, in the solitude of a man who has in the microphone the instrument to untie his cross.

What stands out about this fourth record is the impression of a maturity reached to begin a new phase: as if he were able to write the future by singing the present, with guitars drawing the shape of a man increasingly detached from the motions of a system alien to him. The light of his sincerity is so evident that it explodes in his writing aimed at blurring the lie and the badness, not denying but shuffling the cards of his dangerous game.

Morrissey still loves the propensity towards the curse of those who observing and understanding can only bleed, choosing a few friends to find a lonely road where he can focus his sharp displays of class, an actor of the heart who sows relief because he knows how to bring together the fears of all of us, the enchanted spectators with a ready tear. A deep, determined album, the cradle that without handbrake picks up speed to disappear from our gaze. While this listening measures the pulse to his class, we are left with our skin constantly wet, in an emotional fever that anaesthetises the past, and we return to the idea that the bard from Stretford is in better shape than ever, because without filters all his clamour rests on our heart to enchant it to the last note.

We just have to swim through these eleven lanes and learn how to bombard our enemies with his songs...



Song by song


Now My Heart Is Full


Boz Boorer writes music that embraces the ocean, Morrissey puts in it the waves with poignant lyrics which reveal his acquired maturity, while verse and refrain that make love, with even difficult moments, but with his joy, that emerges but certainly cannot be smiling. Born to become the perfect act of love for those who adore this man, without reticence, the song is Morrissey's true hug to us all.


Spring-Heeled Jim


Extraordinary lyrics, Moz plunges us into two stories that seem far apart but manages to amalgamate them perfectly. In a tale where sex does not guarantee love, while it seems more possible that hostility will come instead, here, on the music always by Boorer, Morrissey takes his voice and brings us back to Viva Hate as an approach. The constant crooning keeps the tension burning while the words travel sensually within an event that scratches the skin with this sound wave that, like a sweaty mist, leads us into an Alternative with rock guitars hinted at but always kept at bay.


Billy Budd


Alain Whyte writes a thunder that seems to come out of the lanes of Your Arsenal, with a glam attitude but without renouncing the sick grey distortions on which Master Moz's voice can free itself with its highly recognisable metrics. It becomes the only track that seems out of sync with all the others, but perhaps for this very reason worthy of our full attention. The lyrics, on the other hand, are perfectly aligned with the album's design to make it ultimately irresistible.


Hold On To Your Friends


Alain sketches the melancholic avenue on which Moz's words seem to stroll with the gaze of someone who has understood what is valuable in life. Something funereal hovers giving the track all the power we need to abandon ourselves inside this pop-rock gem capable of uniting the 70s with the 90s with a solo that engraves the air.


The More You Ignore The Closer I Get


Morrissey in a song? Here it is, no doubt about it: you listen to it and you feel like you have him next to you, while wasting your time you don't even have tears to console you. Boz sweeps through his writing gathering the clouds of the 50s to amalgamate them with the weary winds of this decade. Morrissey writes, describes and lifts our gaze to fill it with glued truths that take our breath away.


Why Don't You Find out for Yourself


Here you get the feeling that being nailed to a cross can be wonderful: Whyte and Moz create a melodic cell, a feather that travels under the chin of truth prone to the weeping of errors. The melody captures, the semi-acoustic guitar and the electric one dance together and Moz has only to write a vocal ballet that will always shine with its infinite theatricality, while our reflections become challenging because this man knows how to understand the truth perfectly.


I Am Hated For Loving


Whyte and Moz in splendid form enter almost gently into a bitter, sour story, with hints of violence wisely kept almost hidden, almost... Like a spider's web that smiles cruelly, so does the atmosphere of the song that seems gentle while instead becoming a well-aimed punch to the heart. The long musical end is made perfect by a simple but harmonious vocalization to cling to.


Lifeguard Sleeping, Girl Drowning


The first of the album's two masterpieces arrives: with the amazing melody written by Boorer, we can hear Moz's singing as we have never heard it to feel what sweetness really is, a sensual yet violent lullaby with its own story that the music knows how to make perfect. Depressed, ironic, sensual, it leads to unstoppable, violent weeping, describing the pain of a desire that finds its cage to die.


Used to Be a Sweet Boy


Morrissey and Whyte put their love for the 70s in a pill, composed of sweetness and loneliness, a cloud which is lost in the sky on a warm sunny day. It can only be listened to in a room, with the window closed, enveloped by a melody that sounds like a music box which sows emotional suspensions, it takes your breath away, while the story eventually grants a kiss to sadness.


The Lazy Sunbathers 


An enchanting arpeggio, Whyte is really good at it and proves it by giving Moz the go-ahead with majestic vocals, on words like rays that are lost in the playground of life, without noise, between laziness and surrender competing with each other. 


Speedway


Here it is, the second masterpiece, written again by Boorer, that concludes the album with Morrissey's most beautiful song ever.

The feeling is that of lyrics that know how to bring together the story of The Smiths with Moz's public and private current affairs, in a poignant, tepid song, a sip of tea into which disappointment, reality, bewilderment, certainties descend, in a dramatic emotional whirlwind. The music is a goddess wrapped in guitars sick of rock tension, with its feet on a shoegaze cloud, enveloping lyrics to enhance them, to make them free to gravitate in our minds, which find themselves shocked by beauty, by microbes eating the tissues of our resistance. The words take up residence to become a tattoo, a lightning bolt that shows the power of Morrissey, who does not use shouting to make us grasp his pain, but rather aspires the words into the microphone to take us inside him on a journey where his mode of expression becomes the place of his wonder, filled with hard truths.


Each Thank You is not the end but the beginning of a profound form of contact and with this album, perhaps, the bond with Morrissey becomes eternal...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford 

25 June 2022


https://open.spotify.com/album/5lKYNLYykoFAVRAeV5EqPE?si=IRzCypVPS7SZyufY6Bh8RA







mercoledì 1 giugno 2022

La mia Recensione: Morrissey - Angel, Angel Down We Go Together

 La mia Recensione:


Morrissey - Angel, Angel Down We Go Together


"It was written with Johnny Marr in mind and it is the only song that I have written with him in mind, post Smiths. I saw him in the music industry being used and being pushed around and being manipulated and I felt I was in a situation and I thought, 'Look at me, look at you - it's the same, it's a mess and this is as far as we will go' which wasn't quite true in the end but at that moment it felt pretty despairing for both, I felt despairing for both of us but I was wrong.”

Morrissey,  1992


Dovremmo imparare a guardare il cielo come un luogo dove le presenze si avvertono ma non si vedono, dando alla profondità del pensiero l’assenza della fisicità, che tanto banalizza e annulla la verità perché in grado di creare i presupposti delle scelte che si ritengono fondate, legittime, consequenziali.

E allora in questa volta celeste può trovare posto un angelo che accoglie inviti appassionati, profondi, disperati, in un cammino mentale con il piombo: dove esiste una disperazione tutto può divenire ingarbugliato, come un’edera, che non esclude la bellezza ma complica lo sguardo.

Stephen Street, musicista e produttore degli Smiths, mandò a Morrissey una linea melodica precisa, lui la valutò e decise di chiamare John Metcalfe e altri cinque violinisti per poter conferire al brano una poesia greve, dal sapore ottocentesco, da spedire al cielo. L’inizio di una bomba dalle piume color Disperazione trovò nel laboratorio mentale di Morrissey i suoi primi elementi essenziali per poter dare alla canzone l’unicità che era insita nella sua mente.

C’era bisogno di un vortice, di un limite, di poche note, le variazioni non erano richieste: avrebbero fatto tutto il testo e l’interpretazione del bardo di Stretford.

Accordata la voce con i petali di un disastro, date alle parole la guida per una scorribanda personale, i sei violinisti si ritrovarono a sudare di pelvica gioia innanzi a questa performance dove il tempo fu messo in pausa, dove il messaggio era essenzialmente uno solo, ma dalle tante diramazioni. 

AADWGT è l’amore nei confronti di premure precise, all’interno di una amicizia andata persa dentro il deserto che secca tutte le cose. E da quel deserto Moz si è preso cura di una fine, l’ha gestita, mantenuta in vita solo per novantanove secondi, quelli che bastavano per dare al dolore la bellezza e l’ultima armonia.

L’invocazione a non commettere un suicidio nel sepolcro notturno è il primo elemento per capire l’enfasi, il dramma, la polvere da sparo che vorrebbe trasformarsi in quegli antichi gladioli che un tempo coloravano le stanze di due amici dalla pelle fresca.

C’è un vestito di dolcezza in questo involucro che sfida l’estate, perché il calore fa morire l’intensità dei colori e quello dell’amicizia più di altri corre il rischio di scomparire. C’è una quota di paura enorme che consegna sia alla musica che alle parole il ruolo di fertilizzare chi disunisce, chi gode nel separare ciò che voleva essere eterno. Ed è proprio l’eternità il ricevente di questa lettera dalle foglie caduche.

In un album come Viva Hate, dove la responsabilità era enorme (bisognava tener conto del percorso di cinque anni immensi e significativi), l’esordio solista era atteso con fiori, mitra, tuoni e tantissime paure da parte di chi aveva visto il ragazzo dalla penna dorata essere uno dei pochissimi portavoce di una classe così infinita e indiscutibile.

L’album piacque, conquistò, ma non uccise il lutto.

Ma Angel, Angel Down We Go Together fu un gladiolo che spuntò dalla sabbia del deserto e rese magico l’incontro per una modalità espressiva mai entrata nel campionario effervescente, potente, devastante degli Smiths.

Si finisce per diventare tutti genitori dalle lacrime in caduta libera, come quelle che Morrissey sparge nelle sue righe dalle rughe appena nate: si rimane sedotti da come la voce racconti questa necessità donando a se stessa il privilegio di una modalità mai cantata in precedenza, abbandonando il concetto di pop per avvicinarsi a quello della musica classica. Ipotesi, tentativi di avvicinarsi alla verità potrebbero suggerire che solo questo genere musicale abbia in seno la propensione verso l’eternità.

Ascoltare questo effluvio ferisce il nostro olfatto, perché i sapori buoni sono lontani dall’essere accarezzati, siamo in presenza di un addio che mostra i suoi polsi lacerati ma ancora innamorati. Allora davvero il pianto infinito può durare per novantanove intensissimi secondi, nei quali la clessidra sembra avere la grandezza di una pietra enorme di una montagna chiamata pena.


Si ha, all’ascolto approfondito e ispessito da una pergamena che affianca le parole di Morrissey, l’impressione che esse siano il luogo del cielo adibito alla melodia e alla frustrazione, con questa vena artistica che stordisce le nuvole. Si vive l’esperienza di una compattezza che vuole lasciare libero il rifiuto al nostro abbandono emotivo per poi sequestrarlo del tutto.

Tutta la vampa che scalda i muscoli dei nostri sentimenti ci indirizza verso la struttura della canzone, che è il vincolo essenziale, voluto,  abbandonarsi al quale crea sensi in disunita propensione a fuggire da tutto ciò che eravamo abituati a conoscere del cantante Mancuniano.

Eccolo il rifugio della verità essere grattato da violini gravidi di pioggia dai fianchi graffiati, liberi di avere poco spazio per poter vivere questa storia dal viso scuro che abita le cellule del brano in modo appropriato.

E come uno scontro continuo, la velocità inchioda l’attenzione verso una forma canzone sottile che trova nella parte finale la modalità di farci inginocchiare insieme a un amore che è più forte della vita: l’apogeo diviene manifesto, divinamente.

Due sezioni separate di archi, con struttura e significato, avvolgono le parole per dar loro anche la sensazione che una guerra piena di pallottole melodiche possa finire in un devastante pareggio, dove a vincere è senz’altro il bisogno di tenere tutto perfettamente inserito nell’autostrada vergognosamente felice di un cuore isolato dalla mente.

Non sappiamo cosa abbia deciso l’angelo della canzone: rimane dopo trentaquattro anni il timore che non abbia ascoltato le invocazioni di Morrissey, che l’amore non abbia consegnato a se stesso il respiro che desertifica ogni bisogno di abbandono. Ci rimane in dono un volo con le catene sulle labbra di una canzone che da sola farebbe felice ogni essere umano dotato di buonsenso. Ma non abbiamo dubbi che l’uomo che aveva Wilde dalla sua parte abbia incominciato a creare a partire da questa canzone le tristi connessioni con una solitudine che invecchia anche la più angelica propensione alla protezione di chi si ama.

Abbiamo conosciuto attraverso questo brano la volontà della ricerca dei nemici di chi si ama, le avventure di una mente che, incollata alla sua voce, ha dato alla Storia della bellezza la corona, dalla quale per sempre scenderanno lacrime felici del loro addio al sogno eterno…


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

2 Giugno 2022


Words: Morrissey

Music: Stephen Street


"Angel, angel
Don't take your life tonight
I know they take and that they take in turn
And they give you nothing real for yourself in return
But when they've used you and they've broken you
And wasted all your money
And cast your shell aside
And when they've bought you and they've sold you
And they've billed you for the pleasure
And they've made your parents cry
I will be here, oh, believe me
I will be here, believe me
Angel, don't take your life
Some people have got no pride
They do not understand the urgency of life
But I love you more than life
I love you more than life
I love you more than life
I love you more than life"







lunedì 7 marzo 2022

My Review: Morrissey - Speedway

 My Review 


Morrissey - Speedway


A pole.

A wall.

A defence.

And if you think about it, it's all about wanting to be the effective attack that has the desired effect.

It is the decadence of a feeling that is increasingly being enlarged.

There are embankments to be conquered, with a hard and insensitive skin, as further support in this destructive phase.

Then there is Morrissey, the poet whose mind is always full of black waves and whose stocks are running low, but still resistant.

Who has the faithful look of someone who can promise loyalty to himself, till the last drop of his strength.

In his album Vauxhall and I, he decides that death and human defeat are worthy of his pen, of his voice that is increasingly inclined to cling to pain and to describe decadence with its splendid and at the same time atrocious irony.

Here then that the pole, the wall, the defence are the perfect instruments of his involvement in events that have wounded and upset him.

But it is precisely from the attacks he has suffered that the poet from Stretford has built his anti-atomic bunker, with wheels...

Yes, because his is not a passive defence and he decides to take it outside, in that world that is now so inhospitable to him.

And in the cellar of his defence, in the last visible and audible location he places Speedway, the electric saw and the hammer that will make him triumph.

Joylessly.

One is shocked by the way his old peculiar feature, dating back to The Smiths (deep lyrics over music that may not be heavy), is here consigned to the past.

It is time for an atmosphere that is a nail as rusty and taut as his voice, as his words, for a compact whole that can make his inner scream unmistakable. 

And when you are surrounded by so much sadness, by protests that become sharp tears, you can only fall to the ground knowing that it will be his own hand that will tell you that "In my own strange way

I've always been true to you" and pull you to his side. 

A mysterious act in which we find ourselves first condemned and then saved by him. 

But this is his root, his inseparable core, to which many may find it difficult to be faithful.

And this is not a song, an artistic creation that can lead to a series of reflections.

Absolutely not.

Speedway is the laceration that becomes sound with a minimal but impetuous melody, a journey into his wounds to which he gives access for four minutes and twenty-seven seconds of pure amniotic delirium, because this atmosphere seems to come from the womb of a deep suffering, which always fertilises itself...


An electric current should bring light, strength, it should help, console, fortify, remove fear.

And only in Speedway all this happens while also bringing its opposite, generating a massive series of surrendered and swampy forces, like a slime that fattens despair.


The song is definitely a manifestation of how the private sphere coincides with the public one, in a courageous act of demonstration in which the aim is to show that one's vulnerability does not mean surrendering helplessly to the enemy.

And that in reality it is even greater than it is supposed to be.

But within its boundaries there are impenetrable coffers. 

It starts with his inspiration and then meets guitars with nails waiting to become bloody.

An electric saw displaces, stuns and makes us restless souls.

Everything sounds unique and majestic from the start, in this downward increase, as if every contradiction should find its place in the music and the words.

Between e-bow and the rhythmic electric guitar and the bass as the faithful squire of the sonic mystery, Morrissey for his part decides to fix his criticism, irony and wind of madness forever in melancholic vocals with clenched teeth, gnashing, coughing up with elegance the impurities that have tried to intoxicate him.

And it is a race that sets out to leave us behind, to defeat us, to let us know that the coat in which he has closed himself forever will never be reached.

They are words like an earthquake that wants to be gentle: out of politeness, because after all, no wound of his can become gratuitous violence. 

There is no need for him to turn up the volume at all: the words do it, the drumming does it, stopping for a moment, amplifying the sense of free fall into which the song throws us without ever making us doubt. 

It's a continuous punch with his wounded knuckles giving us weeping blood but not prone to self-pity.

And that electric saw is a dagger that remains in our ears, constantly, even in its absence.


It is an almost total confession: the certainty remains that something is left inside him. The then 35-year-old Morrissey showed that his wisdom and propulsive ability to bring out anger could co-exist, to get straight to our hearts.

The guitars of Alan Whyte and Boz Boorer are the waterfall that freezes the skin, Jonny Bridgwood's bass is a sponge full of water that empties into Woodie Taylor's powerful drumming, for a song with a dense, chaotic, poignant, tribal ending.

A track that concludes the album in a funereal way: it almost seems as if he blows out every candle in our lives one by one, revealing reality to us, to make us get used to the darkness that he is already consciously living in.

Everything is one long lightning bolt that explodes in a thunderclap that finds its apotheosis in the final drumming, shattering the senses devastated by his words.

This union of lyrics and music ultimately turns out to be the testament of a period that ended with this song: at that time he was contemplating his departure from the scene, but it was with these words and musical notes that we knew the farewell would be postponed. 

Perhaps it remains his most resounding and devastating song, but it is not a cause for jubilation or celebration: it is a hearse born of those lightning bolts turned to thunder.

And even today our ears and minds ache because the poet no longer has gladioli in his pockets, but the turbulent phenomena of the sky...


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

March 7 2022


https://music.apple.com/gb/album/speedway-2014-remaster/859942535?i=859942556


https://open.spotify.com/track/7wVwKqDtZ5EZHghJ82XGw9?si=IGL63--RQm2vz2ylOaXxiQ




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