Penelope Trappes - A Requiem + Live in Salford (25th April 2025, Trinity Church)
Ogni verità comporta discese e risalite e, quando il soggetto è la necessità di un dialogo con una presenza ultraterrena (nello specifico tutto ciò che ruota intorno ai defunti), ecco emergere uno scenario visivo e sensoriale che paralizza, seduce, induce i sentimenti e i ragionamenti a compiere nuove nuove scoperte, in un viaggio nel quale la densità si misura con brani come coperte, veli, mulinelli esplorativi ascensionali, in cui il risultato è uno shock ragionato e utile.
Penelope traccia con il suo quinto album l’ennesimo sentiero educativo di chi nella ricerca compone un nuovo pezzetto della propria anima, aiutandosi questa volta anche con il violoncello, l’impronta sacra di nuovi matrimoni spirituali che permettono al suo percorso di essere lucido. Una messa che scavalca i dogmi, che paralizza le pareti, che rende accogliente la paura e i timori, con suoni e grappoli di note che precedono e seguono l’incanto di una voce in perlustrazione, capace di nevrosi, impeti, frustrate e lacrime ghiacciate, in un solstizio in cui il movimento del suo sole interiore esce dall’orbita per incontrare la luna, la terra, la vita e anche la morte, in una celebrazione eclatante di misteri incolonnati, tiepidi, vibranti, necessari e completi.
Vengono mantenute le peculiarità dei suoi assiomi artistici, l’integrità, la sua bellissima ostinazione per la contemplazione dell’emozione vibrante che da sempre la distingue. Musica come attesa, come un mutismo obbligatorio e riflessivo nei confronti di un’altra dimensione, quella temuta, della morte, ma da lei vissuta con eleganza e l’incredibile impresa nel riuscire a trasformarla in un inaspettato incanto.
Un percorso che, partendo dai boschi della Scozia, approda nei canali mistici, quelli sensoriali, nei canti di streghe e anime ondivaghe in cui il sigillo della lentezza permette l’espansione e la comprensione, passando per un folk antico, qui camuffato, quasi segregato da forme elettroniche che però intendono fare in modo che i respiri di quel genere musicale siano liberi di lasciare le tracce storiche di una modalità che ha sempre fatto del contatto con la natura umana una priorità. Penelope esalta i giochi di luci, frammenta le forme cognitive e ci fa compiere una serie di acrobazie notevoli per essere le ali della sua scrittura, del suo sagrato interiore, per essere luce rovente di una candela timida ma capace. I rituali mostrati diventano così necessità, la coda di impeti e slanci che confluiscono nella sacralità di messaggi e forme forse ignote con il compito di scuotere. La vita si mostra così come un perimetro doloroso in cui la conquista più profonda è la sua sperimentazione, facendo del ricordo non un album fotografico bensì una serie di incontri con personaggi che dispensano sapienza e misteri (druidi su tutti), per trascinare ogni cosa nel vortice di voli rapidi, sebbene la musica sia lenta e sempre piena di cenere e fumo. Le sue lacrime innanzi alla perdita del passato sono clamorosamente genuine, tradotte e trasportate nella zona piramidale di connessioni con un aldilà che fortifica la sua anima e l’allontana dalla perdizione. Le sue visioni si moltiplicano, gli innesti di antiche sacralità paiono essere fragori incontenibili, nei quali il dolore non è l’inizio né tantomeno il terminale del tutto, quanto piuttosto un compagno di viaggio, un amico, una propensione (conscia o meno) con la quale lei si rapporta splendidamente. Non canzoni ma candelabri, pillole cognitive che arrivano dai suoi luoghi nativi, un esercizio mnemonico che la indirizza nella scelta del contatto con la verità, nella obbediente forma di rispetto genitoriale, in un viaggio che attraversa i lampi e scende nella comprensione, con i lutti che diventano corde espressive, liturgiche, contaminanti e preziose, per un album che si rivela un diario nel quale imparare a scrivere un sunto e una propensione, un anticipo della Penelope che sarà, attraverso questa condivisione artistica, che ci abbraccia e ci consegna la consapevolezza di una maturità che ha trasformato il nero e le lacrime in uno spazio necessario e creativo.
Il suo occhio (araba fenice e angelo migratore) trasferisce nei solchi una testimonianza continua di getti coscienti, rallentati e quindi esaltati ed esaltanti, in cui le singole note sono diademi liberi di innalzarsi e distinguersi, creando la possibilità di successioni che ammaliano e attraggono come l’infinito della morte…
Un’opera in cui il jazz, la sperimentazione, il neofolk, le unghie di Diamanda Galas e le onde nervose di Zola Jesus sono solamente il contorno di un circolo polare che ghiaccia la furia dell’esistenza trasformandola in un fuoco fatuo. L’artista australiana crea miracoli, tormenti, sgretolamenti, processioni continue, con una produzione artistica che rende ineccepibile il tutto, in cui la penombra, l’intensità del buio, le voci degli spiriti sono tutti messaggeri di contatti futuri. Scavalcano il tempo, aggrediscono con garbo, per essere la Cappella Sistina del nostro tempo, in cui nuovi Dei e nuove forme umane, uscite dallo studio dei morti, dispensano nuove figure e nuove identità.
La drammaticità del racconto e delle immagini costituisce l’anticipo della nostra coscienza, un’eredità che partendo dalla musica inghiotte i sentieri impervi delle nostre paure, per celebrarle, consolarle ma soprattutto addomesticarle. La condensa di elementi frantuma la sicurezza, con un impianto razionale che semina umidità e secchezza nei respiri: una lunga gittata anestetizzante per indorare amare pillole ma alla fine, dopo ripetuti ascolti, ci si sente in un tempo antico, come entità viventi, vincitori sulla morte perché divenuti immortali spiriti guidati da una follia necessaria…
Salford, concerto
Nella chiesa accogliente, buia, l’artista appare con un copricapo che fa da emissario, da cantastorie di tempi antichi, deliziando la platea che, silenziosa e piacevolmente scioccata, assiste a una performance nella quale viene rappresentato il suo ultimo album A Requiem, per far incontrare le emozioni all’interno di lunghe riflessioni. Ed è magia, incubo, ipnosi, con il suo respiro nel microfono che diventa un mantra, un brivido che raggela le pareti facendo sì che il superfluo sia qualcosa da abbandonare definitivamente. Uno spettacolo lucido, che lascia lividi, gli occhi come meteore in un viaggio senza obiettivi prefissati ma in cui Penelope ci mostra la densità. Nuovi innesti, rispetto alle canzoni originali, consentono ulteriori intuizioni e la manifesta consapevolezza che con quest’ultima opera lei abbia scritto il suo capolavoro, un riassunto e una espansione della sua gravità cognitiva. La voce, mai troppo effettata (non ne ha bisogno, perfetta lo è già, senza alcun dubbio), e le sue mani sono danze sacre, ipnotiche e seducenti, con le quali riesce a palesarsi come un transfer concettuale che rende la visione e l’ascolto del concerto l’idilliaco terminale cognitivo di questo suo nuovo miracolo educativo…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
27 Aprile 2025