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giovedì 4 maggio 2023

My Review: Gintsugi - Mon Coeur

Gintsugi - Mon Coeur 


Writing through tears is sometimes a boundless thank you: it happens when magic, depth, intensity establish a strong contact between those who create and those who enjoy it.

Of her, the enchanting Luna Paese (aka Gintsugi), the Old Scribe has already spoken and he returns to do so because a spectacular song is coming out, one of those that will be part of the album (The Elephant in the Room) to be released in October.

The mouth opens wide, the shock advances in the room of amazement, with a great difficulty in feeling worthy of this vessel of medieval woodwinds running through the blood. A piano traces the course, for fingers that know well where those notes must glide: well into the stomach of Time, and they succeed in doing so because they have decided to make us lean towards the imagination, with customs and life from a few centuries ago. And, like an oil lamp, comes the Italo-French artist's vocals, which are a grassy mantle that spreads over the keyboard of her instrument and creates a story in which the pain, given by the impossibility of a love between two men, sets the conscience on fire, using a register of voice that dances between the low and high registers, to give credibility to a lily that is born in the heart while listening to this murderous delight. You can also hear her hand in the arrangements: the harmonic and melodic use is resoundingly perfect, masterfully supported by a precise electronic line that unites the distance of time and makes everything credible. Dramatic yet streamlined, soft and capable of showing rough edges, the composition is a statement of strength that makes this artist able to look her colleagues in the eye. No, let there be no juxtaposition, no wasting of energy, no seeking of escapes: Gintsugi has her own style, her own sensitivity, a pen and a strength which deserve some deep listening. A song that has in its evocative melody its magnetic wave, a triumph of salt thrown over mistakes, the conscience of a woman who takes sides and works to defend human rights, in this case those related to love. And she invents a story in which she finds solutions. One also notes the sublime work of an arrangement and production (in cohabitation with Andrea Liuzza, owner of the Beautiful Losers record company) that establish that the details of this incredible enchantment were made possible by the great initial idea. Those hands, those notes, that voice: heaven welcoming a secular prayer that respects the right to love. The song is a clear emblem of this, bringing attentions, reflections and impulses, as a profound contribution to respect.

It happens, therefore, to experience it as an act of displacement, of participation, where inequalities and differences are surrounded by the wisdom of the track, an engine that lives its moment with ease even as it creates ancient suggestions. Memorable, dense, it will only enter your awe as it happened to the Old Scribe: if contamination exists, let it at least be for something beautiful and healthy, and Mon Coeur certainly is...



Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

4th May 2023


Out on 5th May 2023


https://gintsugi.bandcamp.com/track/mon-coeur





La mia Recensione: Gintsugi - Mon Coeur

 Gintsugi - Mon Coeur 


Scrivere tra le lacrime a volte è un grazie senza confine: capita quando la magia, la profondità, l'intensità stabiliscono un forte contatto tra chi crea e chi gode di questo.

Di lei, l'incantevole Luna Paese (in arte Gintsugi), il Vecchio Scriba ha già parlato e torna a farlo perché sta uscendo una canzone spettacolare, una di quelle che farà parte dell’album (The Elephant in the Room) in uscita a Ottobre.

La bocca si spalanca, lo shock avanza nella stanza dello stupore, con una grande difficoltà nel sentirsi degno di questo vascello dai legni medievali che scorre nel sangue. Un pianoforte traccia la rotta, per dita che sanno bene dove quelle note debbono planare: ben dentro lo stomaco del Tempo, e ci riescono in quanto hanno deciso di farci inclinare verso l’immaginazione, con costumi e usanze di qualche secolo addietro. E, come una lampada a olio, arriva il cantato dell’artista Italo-Francese, che è un manto erboso che si stende sulla tastiera del suo strumento e crea una storia nella quale il dolore, dato dall'impossibilità di un amore tra due uomini, incendia la coscienza, utilizzando un registro di voce che danza tra i piani bassi e quelli alti, per dare credibilità a un giglio che nasce nel cuore mentre si ascolta questa delizia assassina. Si sente la sua mano anche negli arrangiamenti: l’utilizzo armonico e melodico è clamorosamente perfetto, magistralmente supportato da una precisa linea elettronica che unisce la distanza del tempo e rende tutto credibile. Drammatica ma snella, morbida e in grado di mostrare lati ruvidi, la composizione è un attestato di forza che rende questa artista capace di guardare negli occhi le sue colleghe. No, non si facciano accostamenti, non si sprechino energie, non si cerchino fughe: Gintsugi ha il suo stile, la sua sensibilità, una penna e una forza che meritano una profondità nell’ascolto. Un brano che ha nella melodia evocativa la sua onda magnetica, un trionfo di sale gettato sugli sbagli, la coscienza di una donna che si schiera e si adopera a difendere i diritti umani, in questo caso quelli connessi all’amore. E inventa una storia nella quale trova le soluzioni. Si constata anche il lavoro sublime di un arrangiamento e di una produzione (in coabitazione con Andrea Liuzza, titolare della casa discografica Beautiful Losers) che stabiliscono che i dettagli di questo incredibile incanto sono stati resi possibili dalla grande idea iniziale. Quelle mani, quelle note, quella voce: il cielo che accoglie una preghiera laica che rispetta il diritto all’amore. La canzone ne è un chiaro emblema, portando a sé attenzioni, riflessioni e slanci, come un profondo contributo al rispetto.

Accade, quindi, di viverla come un atto di spostamento, di partecipazione, dove le disuguaglianze e le differenze vengono circondate dalla saggezza del brano, un motore che vive con scioltezza il proprio momento anche se crea suggestioni antiche. Memorabile, denso, non potrà che entrare nel vostro stupore come è accaduto al Vecchio Scriba: se esiste una contaminazione, che sia almeno per qualcosa di bello e sano e Mon Coeur lo è di sicuro…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

4 Maggio 2023


Uscirà domani 5 Maggio 2023


https://gintsugi.bandcamp.com/track/mon-coeur










domenica 23 aprile 2023

La mia Recensione: BARA HARI - Agoraphobic

 BARA HARI - Agoraphobic


Torna la Lady Gotica di Los Angeles, sempre più addentro a una coltre melodica di sentimenti oscuri che vengono quasi anestetizzati da arrangiamenti deliziosi, mentre la chitarra graffia e dà uno schiaffo (gradito, per carità!) al cantato, vero centro di gravità permanente, che è il faro di questo brano, lento, seducente e capace, con il suo Art Pop, di lasciare tutto perfettamente godibile. Non è difficile immaginare la danza che può suscitare Agoraphofic: una fiumana di sensi a circondare i desideri per farli arrendere, uno ad uno…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

23 Aprile 2023


https://remissionentertainment.bandcamp.com/track/agoraphobic-2




My Review: BARA HARI - Agoraphobic

BARA HARI - Agoraphobic


The Gothic Lady from Los Angeles is back, more and more penetrated by a melodic blanket of dark feelings that are almost anaesthetised by delightful arrangements, while the guitar scratches and slaps (welcome, for goodness' sake!) the singing, the true permanent centre of gravity, which is the beacon of this track, slow, seductive and capable, with its art pop, of leaving everything perfectly enjoyable. It is not difficult to imagine the dance that Agoraphofic can provoke: a torrent of senses surrounding desires to make them surrender, one by one...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

23rd April 2023


https://remissionentertainment.bandcamp.com/track/agoraphobic-2








lunedì 21 novembre 2022

La mia Recensione: The Cure - The Head on the Door

 


La mia Recensione: 


The Cure - The Head on the Door


Siamo perennemente di fronte a una contraddizione: vedere o meno i presupposti di un cambiamento. E la conseguenza ci porta in luoghi scomodi e spesso urticanti. Accettare o subire, spingersi verso l’accoglienza o il rifiuto. Da quel momento la convivenza genera sentimenti e comportamenti che inficiano la sicurezza e l’equilibrio. E nella musica tutto questo può presentarsi in grandi quantità.

Qualcosa di simile avvenne con Japanese Whispers, ma in quel momento quell’album aveva delle scusanti, una carezza perché si voleva accettare l’uomo Robert Smith impegnato nel tentativo di uscire da un labirinto pieno di spine e aghi dall’effetto terrificante. Nulla da perdonare, si poteva evitare l’ascolto e si poteva anche sorridere alla sua presunta felicità, connessa alla libertà artistica che non va mai negata. Poi venne The Top e le cose tornarono nell’ambito di un gradevole ascolto.

Tutto cambiò con il loro vero sesto album in studio.

The Head on the Door è un territorio multiplo di desideri artistici, di contraddizioni sonore (come approccio stilistico), dove tutto si indirizza verso un insieme che rende sgomento lo scriba per la doverosa presa di coscienza di un lavoro che spinge la band in un luogo in cui la danza, la leggerezza, la mancanza di quel pathos clamorosamente dimostrato in precedenza ponevano la difficile accettazione del cambiamento.

Perché è di questo che mi preme parlare: non un giudizio negativo, ma l’appurare che si era davanti a un addio, a una carta d’identità mutata, spiazzante. Tocca maturare la convinzione che il gusto personale non conti nulla: si deve criticare un lavoro capendolo, oppure cambiare i propri gusti.

Io opto per la prima opzione.

L’album mostra la formazione migliore di sempre tecnicamente non in grado di scrivere canzoni pregne di qualità e sviluppo, perché ancorate al desiderio di una presa collettiva, come un atto di beneficenza in grado di soddisfare più persone. Canzoni come spie, come sondaggio, dove l’aspetto pop (nei Cure spesso presente e di qualità) qui trova una dimensione esagerata, con il desiderio di non perdere del tutto un lato oscuro, disintegrando però, in questo modo, la credibilità. Non esiste una continuità espressiva, seppure non manchino brani che veicolino piacevolezza nell’ascolto (Push, The Baby Screams, Sinking), perché non è il numero di canzoni poco capaci di entusiasmare il problema. Molte idee, confini musicali disparati e la sensazione di non voler suonare in maniera simile al passato rendono tutto questo una fatica. Bisogna però considerare che alcune melodie sono deliziose, certi passaggi dimostrano sempre un talento eccelso. La compattezza, ripeto, latente, assomiglia nuovamente a una compilation con quello che viene considerato il miglior ventaglio di canzoni a disposizione.

Non più dubbi ma rassegnazione: trasmigrata la capacità di scrivere canzoni di piombo e ruggine, ci si sente smarriti davanti a un qualcosa di non decifrabile, sconveniente e disarmante. Pare evidente che siamo  davanti a persone nuove con un cammino che mostra già una direzione che non si può abbracciare: per un senso di appartenenza che viene a mancare. E la colpa è sicuramente dello scriba, troppo immerso ad ascoltare di tutto, ma sempre alla ricerca di una qualità che qui non si presenta. Senza dubbio alcuno.

Dieci tracce, ognuna di loro non abbracciata alle altre, singole espressioni che durano il tempo necessario per essere sostituite, senza un contatto, un passaggio di consegne, senza una continuità che crei affetto e sicurezza.

Ci si ritrova davanti a un mago, il suo cilindro e un coniglio con facce diverse, ma mai in grado di generare stupore.

Con un’unica eccezione: Sinking. 

La verità è che tutto vira decisamente verso chitarre e batteria iperprodotte, dalla presa facile, un lavoro che stanca, un ammassamento che ingolfa e toglie la capacità di focalizzarsi sul suono, qui banalizzato, negando quello che era stato il valore aggiunto di tutta la carriera. Si punta invece sulla riconoscibilità stilistica, sul fatto di non avere dubbi che canzoni come queste possano scriverle solo loro. È così, ma senza qualità. 

Sembra doveroso da parte di Smith e soci mantenere quote nere nella musica, ma davanti a queste pulsioni votate al Pop tutto svanisce e, quando è la psichedelia a tornare, si fa rimpiangere: sotto questo punto di vista The Top sembra un capolavoro. L’intenzione sembra quella di un album radiofonico e in quel momento si potevano ascoltare brani decisamente  più centrati in questo senso. Bisogna considerare che, se questo è il disco che ha aperto loro le porte del successo, molto dipende da un momento storico, quello della metà degli anni ’80, nel quale l’assuefazione, la stanchezza e la mancanza di buongusto aprivano la strada ad accettare e persino a desiderare musica non propriamente capace di fare cultura e di offrire validità. Bisognava andare oltre la storia, forse anestetizzarla e proporsi non come alternativa ma come un elemento che arrivasse alle masse. E in parte ci è riuscito. Aggiungerei: purtroppo.

Il bisogno di cambiare è legittimo, come quello di separarsi da ingombri, ripetizioni, affanni, difficoltà umane che possono includere quello della creazione. È il divario rispetto al passato dei Cure a sconcertare, a rendere difficoltosa l’assimilazione, perché è più facile per un artista mutare la pelle che per un ascoltatore. Un limite su cui porre attenzione. 

Proseguiamo.

Sembra di assistere allo spettacolo di anime che si sentono all’ultima spiaggia, bramose di creare uno stupore volutamente, di dare al pubblico nuovi lidi su cui approdare, mostrare la variabilità delle proposte come atto valido in sé, per stabilizzare il rifiuto verso quelle zone senza molta luce (a volte addirittura nel buio più totale) e, se ciò è comprensibile, non lo è la dispersione in artifizi volti a stupire più che a contenere valide alternative. Morta la parte visionaria dei Cure che ci poneva davanti a domande potenti, le immagini di questo album sono fini a se stesse, facilmente sostituibili da altre. Nella precarietà della scrittura di Robert Smith risiede il mio dolore, un quasi rifiuto. 

Il leader espresse il bisogno in alcune interviste di tornare a scrivere 45 giri, di non volere un filo conduttore: obiettivo centrato, negando al loro indiscutibile passato la possibilità di confidare nella loro musica per sentirsi avvolti in quella continuità.

XTC, Roxy Music, The Clash, Japan e i Devo sembrano i nomi tutelari di questo album ma nessuna delle canzoni (con l'eccezione di Sinking) sembra in grado di mostrare uno sviluppo e migliorie rispetto ai citati artisti. Ed è qui che nasce immediatamente il rimpianto e una forte delusione.

La tavolozza è piena di colori, di luci che sembrano, per fare effetto e per non dimostrare una totale negazione del passato, dover attraversare le tenebre per non scontentare nessuno. Un disco che cerca la felicità pur non avendone e non essendo capace di donarla: sta qui, al limite, il suo torto e la sua presunzione.

Ma il clamore e il successo avuto ha davvero dimostrato come ci sia stata una arrendevolezza da parte dell’ascolto, il bisogno di decretare il successo della band inglese con un lavoro non riuscito. Lo si è fatto anche per altri artisti, confermando il trend di discesa inarrestabile di chi ha smesso di essere critico consegnando inevitabilmente la follia. 

La prima formazione a cinque, che poteva essere motivo di grande specificazione sonora, sarà in grado dal vivo, con la successiva tournée promozionale, di rivelare invece una grande abilità con le vecchie canzoni del repertorio. Il ritrovato Pearl Thompson e Boris Williams si riveleranno autentici fuoriclasse, mentre, dall’altra parte, avremmo il declino conclamato di Lol Tolhurst, incapace di dare un serio contributo.

Simon Gallup in questo lavoro sfodera alcuni giri di basso semplicemente meravigliosi (Indovinate un pò? Sinking!), ma nell’insieme gonfio del collettivo sonoro si perde pure lui, dando al suo stile e alla sua modalità espressiva l’impressione di essere stato avvolto in uno spazio dove la sua identità è venuta meno, per salvaguardare un quadro complessivo che non è stato messo fuoco.

Robert Smith, partendo da dei suoi demo, ha concesso alla band un lavoro di equipe che alla fine è andato esattamente nella direzione che lui voleva: sua la vittoria, di molti l’insoddisfazione. Spariti i colpi di fulmine con l’arte che esalta ed educa se stessa a divenire un momento importante di riflessione, tutto consta di momenti sporadici in cui trovare i brani migliori: un pò poco, se parliamo dei Cure.

Ma questo album è utilissimo: fa capire, mette dei séparé doverosi, spinge a compiere scelte e quindi a maturare, perché non è nella piacevolezza che si fa un passo in avanti. La cosa che più fa star male è la consapevolezza che non fosse un passo falso, ma una cammino che stava portando la band in altre direzioni. Non sarebbero mancate in futuro delle belle e valide canzoni ma gli album sì, ed è questo aspetto ad aver creato con quell’ascolto un senso di abbandono.

Non entro nella descrizione delle canzoni: credo di avere già sin troppo dimostrato il fatto di non gradire molto questo lavoro, ma una menzione speciale va a  Sinking.

Con un inizio spettrale, un basso assassino e avvolgente e i giochi di alternanza tra piano, chitarra e tastiera, il brano in questione entra nella pelle immediatamente, come se diventassimo acqua mentre sprofondiamo nelle note, con la capacità magistrale di nuotare nella bellezza della luce nella profondità dell’oceano. Si respira abbandono, soffocamento, con annessa una tenue disperazione che lascia aria fresca nei polmoni. Ma la storia, magicamente scritta dalla penna di Robert Smith, ci conduce a piangere disperatamente su questa voce che diventa corpo e sostanza di un viaggio del quale tutti vorremmo fare meno ma da cui siamo attratti, come se la canzone ci spingesse in una misteriosa dimensione lontana e tuttavia a portata di mano. 

Sinking sarebbe stata l’evoluzione splendida dei Cure, senza forzature e negazioni. Ma è stata posta proprio a fine album: un messaggio? Un addio? Una carezza per confermare che la qualità non è stata dimenticata?

Quello che so è che si tratta dell'unica fuoriclasse di un disco che personalmente ritengo incapace di dare qualità a una carriera sino ad allora davvero notevole. Un passo falso che troverà modo di ripetersi, portando il dolore di un necessario impianto nostalgico che non si dovrebbe provare.


Data di uscita: 13 Agosto 1985

Casa Discografica: Fiction Records

Produttori: Robert Smith - David M. Allen


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Novembre 2022

https://open.spotify.com/album/7zJzNs8eVgbkVVSQSwKRtx?si=c4u5GDNdS7aqbbZhjP2-5A







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