La mia Recensione:
Rita Tekeyan - Green Line
Colonne di fumo, negli occhi di uomini ciechi a prescindere, perché dediti a vedere quello che non c’è, per convenienza. Di solito sono gli uomini che inventano le guerre, e poi demandano ad altri di renderle concrete.
Rimangono schegge e lacrime che non vedranno né potranno mai vedere: ci sono popoli che vivono lutti dentro la loro dignità ferita.
Esistono dischi che nascono per portare sul tavolo dei potenti dai bottoni colorati il feedback di quei segreti, volutamente armati di determinazione per non lasciarli tali. E sono canzoni come bombe a mano, caricate a salve.
Perché la loro volontà è quella di far capire e non di uccidere.
Rita Tekeyan è giunta al suo secondo album e non ha purtroppo esaurito le storie da buttare, insieme alle bombe a mano, davanti alla cecità dei potenti, e pure davanti a noi.
Come possa creare poesia, melodia e ritmo con quelle rughe nell’anima è un mistero, intenso e bellissimo, sì, bellissimo, perché rivelatore di una forza che illumina. Sono 12 unghie che tracciano il confine di una Libano nascosta, tra sentieri di serenità affannate e colpite.
La non famosa Green Line, dove le atrocità squarciavano il cielo di esistenze disperate: Rita ha portato luce in quelle strade, nelle storie di case sempre accese dai terrori quotidiani.
Lei usa la sua voce come un’antilope che ancora ha energia per scappare, non si perde d’animo e ha fiato per essere la messaggera di speranze, per finalizzare il suo desiderio di strade fiorite.
Ma allo stesso tempo il suo canto è di permanenza, con il desiderio di prendere quelle storie e cancellare loro quelle rughe.
La musica è una processione di note tra le nubi e la melodia di una colomba ancora viva, tra spartiti di pianoforte ed una elettronica necessaria, tenuta volutamente su un piano evocativo. Sono minuti di magia dentro la tragedia, rivelando una energia che accerchia le nostre menti. I traumi, le ferite e le morti nell’album sono quelle di essere umani, ma soprattutto delle donne, che conoscono i raggi del sole, e Rita, con il suo cantato acuto, con il registro di voce che è tagliente, imbevuto a tratti da un crooning che scuote, ci rende consapevoli. Ci troviamo con un progetto artistico che solo nei testi, per chi è superficiale e disinteressato, potrebbe risultare indigesto: a queste persone bisognerebbe spremere bene le meningi, tra le corsie di atteggiamenti mentali egoisti.
Ma sono convinto che la musica possa essere accolta con meno difficoltà, data la sua propensione a linee melodiche interessanti e sicuramente digeribili.
La voce di Rita è bianca, in contatto con gli angeli: soffi morbidi ma al contempo robusti, vibranti, tremanti.
Il suo canto è lirico e vibrazionale, cosciente ed eclettico, portentoso e magnetico. Sicuramente rende l’armonia una danza dal linguaggio potente che fissa il nostro sguardo tra le macerie di una città messa in ginocchio.
Ballate elettroacustiche, cristalline, ritmi sincopati, traiettorie che portano polvere che si appiccica al fango fanno di questi brani un campionario di spunti, intuizioni, dalle diramazioni come soffi di vento nel cuore di una musica anch’essa ferita, ma che ha la forza in sé di non essere triste.
Lei non si nega sogni, momenti di dolcezza, ma le preme circondare il peso del dolore davanti alle coscienze con le orecchie basse, chiuse.
Questo percorso musicale ci offre magneti e calamite per trovare atomi di malinconia, chili di sperimentazione, chilometri di un Oriente che era a due passi dal nostro mondo. Si sente il suo profondo lavoro sulla voce che è capace di commuovere, di rendere intima la nostra emozione. I sussulti interiori che arrivano attivano i sensi confinandoci nello spazio di un silenzio sacrale, che sentiamo la necessità di rispettare. Un canto appassionato permeato di spettacolari luci taglienti, di recitati sul palco di un teatro della confusione e della ragionevolezza. Nei suoi tagli profondi di poesia connessa alla drammaticità trovano posto file di intuizioni e guizzi dalla notevole dinamicità, per un fine che pur essendo impegnativo ci erudisce e perfeziona.
Una eroina che in prima linea offre la sua anima per farci capire come si possa sperperare il dono della vita con la violenza: già solo per questo merita il nostro Grazie più profondo.
Fate la valigia: si parte per la Green Line di Beirut, per visitare le 12 unghie e capire le ferite degli altri…
Song by song
Con il boarding pass consegnato, siamo pronti a volare a Beirut: ci attende B.L EXPRESS e siamo subito nell’espressività intensa di Rita, con un movimento musicale che richiama le atmosfere del Medio Oriente, comprese di fragori Europei per un insieme davvero suggestivo.
Con FORÊT NOIRE il ruvido lascia spazio a una tensione più delicata, mentre la cantante Libanese ispessisce il suo sguardo all’interno della realtà di una zona martoriata.
La struggente ROOFTOPS ci porta in una dimensione particolarmente vivace nei pressi di un esoterismo accennato con il suo cantato che rimanda a Lene Lovich.
Il dramma di quella città risulta non più messo in discussione con ABRI, con la sua chiara propensione ad un livore ascetico-filosofale che colpisce in pieno. Una canzone che muta, serpente affamato che spara il veleno dentro la nostra bocca.
NORA’S TREE, furibonda danza giornaliera che sembra recitare la sua sofferenza sul teatro dei tagli vistosi, è un grumo sanguigno appoggiato ad un piano per poi trovare sostegno da una formazione che spinge verso un rock dal sapore autunnale.
Gocce di polvere da sparo nella piovigginosa DEVIL’S OB, la più triste tra le dodici unghie: il cantato recitativo rivela il contatto con l’emisfero diabolico che sembra trasformarsi nel sorriso che sorvola la nostra mediocrità. Tutto il nero di una città che reclama aiuto per non perdere la propria mente.
DIAMANDA GALAS sembra incominciare YOUR SIN, ballata neogotica dal sapore arabo, con licenza di paralizzare, per la sua dominante teatralità e con archi assassini appoggiati alla voce di Rita che ancora una volta domina.
Si arriva con WEIGHT OF PAIN ad una apparente musica dolce, ma dopo pochi secondi un violino affamato di lacrime consente l’ingresso di parole pesanti cantate con uno strascico di dolore immenso, un ritorno invocato che si rivela essere la preghiera di chi non può ottenere più nulla…
Come un rito atemporale si affaccia la coinvolgente DK, collana di visioni silenziose che avvinghiano i suoni rendendo maestoso il brano, che lentamente prende ritmo per divenire una danza tra le macerie.
Y: chiamati i Virgin Prunes a visionare la situazione, l’artista crea una cantilena che seduce sino a quando il suo registro di voce, tra scariche roboanti, va alla ricerca del cielo, raggiungendolo.
La ninnananna che sta per farci chiudere gli occhi, tra sospiri e singhiozzi, si intitola WHITE ANGEL ed è una fiumana di spiriti trattenuti con lo spago del coraggio, la voce sembra generare un riverbero gotico, con l’ugola di Rita a pitturare le urla. Il cantato poi si fa concitato verso il finale per raggiungere la perfezione.
L’album termina con la canzone che dà il titolo al suo secondo album: GREEN LINE è il congedo da un letto di ospedale da parte dell’autrice. Con il suo carattere quasi neofolk, il brano pare una processione con il volto ferito tra vie sempre più silenziose. Declamatoria e teatrale, elegante, riesce a consolare il mondo inospitale e corrotto. Sino al solo finale di chitarra che spezza ogni residuo di speranza, per fare spazio alla esplosiva e tagliente voce, ed è proprio quest’ultima che ci lascia inermi tra le sue strade.
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
29 Maggio 2022
Se volete comprare il Cd potete contattare direttamente l'Artista
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