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sabato 30 novembre 2024

La mia Recensione: At Swim Two Birds - Quigley’s Point


At Swim Two Birds - Quigley’s Point


Vini Reilly è un mago che affitta scene celesti, Johnny Marr le trasforma in vento, Roger Quigley mette entrambi sui suoi polpastrelli dorati e affitta camere piccole in cui rendere solidi i sogni. 

Potrebbe bastare questo incipit per dire dove alberga la cifra stilistica di un pittore che ha scritto un album sulla sua relazione di coppia con una ragazza dolcissima: la musica riproduce i suoi lineamenti, la sua risata accomodante, le polveri di fumo di pipe perennemente accese e la voglia di adoperare la sei corde come un tam tam amoroso sempre a disposizione dei suoi fulmini.

Non esiste il passato al momento della scrittura di queste lettere che cercano nella memoria una sospensione dal dolore, un urlo reso ubbidiente alla natura di una mente votata all’abbraccio.

Nutrire le lacrime di anestesie continue è una gran fatica. Lui lo sa e decide di pubblicare la sua delusione affiancandole granelli di gioia, con un cantautorato più sottile rispetto ai The Montgolfier Brothers che, con Mark Tranmer, avevano fatto scoprire come Nick Drake e Tim Buckley, con meno enfasi e maggior predisposizione al racconto, potevano sembrare dei bravi ragazzi, oltre che belli.

Poi la fine (Roger ne ha conosciute molte…) ha determinato il ritorno a Salford, lui che ci era nato, lasciando a Manchester solo alcune puntate mensili.

In una stanza annoiata e in attesa di un terremoto, il biondo autore riempie i posaceneri e gli spartiti, con arpeggi che passano dal folk americano al fado portoghese, al dream pop più intimo, per poi scrivere parole capaci di accarezzare i capelli dei suoi ricordi.

Il suo cantato è rispettoso, senza acredini, lasciando ai lunghi assoli arpeggiati la modalità della disintegrazione del dialogo.

Utilizza, per il suo primo vero episodio solista, registrazioni di strada, le sue camminate nei parchi, gli uccelli, i lavori in corso, sequestrando la nebbia di Weaste e Langworthy per poi circondarli di elettronica e primordiali software al fine di raggelare il suo respiro triste.

Sussurra al microfono, prende fiato tra nuvole di fumo e poi si getta nella scrittura di atmosfere che sembrano nate per un film in cui i volti e le storie sono intrisi di incertezza e desolazione ma, credete al Vecchio Scriba, sono state molte le risate sul pentagramma e la certezza che un disco non sia una collezione, bensì una semina importante e decisiva.

Anticipando parte del New Acoustic Movement, che utilizzava pattern, midi, elettronica tenera e mai invasiva, il buon Roger stabiliva un nuovo confine tra la divulgazione e il mistero.

Per capirlo basta prestare attenzione alle lunghe suite musicali dove un fraseggio viene ripetuto ma mai con l’intenzione di divenire un loop, dati gli inserti tipicizzanti degli arrangiatori degli anni Sessanta.

In quel preciso momento tutto si fa buio, scompaiono le storie e la musica diventa una bocca muta in grado di far oscillare le emozioni.

Sul manico della sua Takamine scivolano dita nervose, lucide, con il diploma della beatificazione, vista la perfetta tecnica e l’abilità di raddoppiare spesso la sei corde con compiti precisi di lavoro, come gemelle che parlano lingue diverse, senza far mancare l’intesa.

Il suo background qui non trova posizione: i suoi ascolti erano rivolti alla musica della città, mentre in questo esordio solista siamo in giro per il globo terrestre e nel tempo, come se la libertà vera fosse il distanziamento dalla realtà.

E infatti i testi sono inganni, torture, come le musiche: pare un collettivo magico che cerca di addentrarsi nel creato per abbracciare gli ascoltatori.

Invece Dante e il suo Inferno sono proprio in questi solchi, in passeggiate con abiti finti e tanto vero dolore a setacciare la speranza.

Il Brasile, il Portogallo, la Swinging London, Parigi e lo scrittore da cui ha preso il nome il suo progetto con un romanzo favoloso sono i protagonisti principali, seguiti da una pletora di sogni ingarbugliati.

La Sarah Records riconobbe a Quigley il fatto di conoscere a memoria la modalità di incespicare con pura sanezza nei contorti esercizi chitarristici di cui Reilly e Marr sono stati maestri assoluti.

Gli archi, i ritmi spesso volutamente dispari e la produzione che ha cercato di anestetizzare l’abbondanza dei suoni sono i momenti di maggior intensità di questo vascello Salfordiano che si ricorda bene del porto e delle lotte con Liverpool.

A quest’ultima città Roger dà molto spazio: nelle introduzioni di diverse canzoni la magica atmosfera del Merseyside del 1975 e 1976 sembrano spuntare fuori come raggi lunari in libera uscita.

Credo, però, che l’aspetto più difficile da sostenere sia l’inclinazione del defunto talento a congedare il tutto, tra goodbye e farewell che si abbracciano facendo sì che l’ascolto diventi una ferita, esattamente come la scrittura di questi versi ipnotici, ma capaci di essere anche deliziose ostinazioni piene di sorrisi e charme.

Colpiscono alcune assenze, certe decisioni che hanno portato alla scelta di rendere poco gonfio lo strato interpretativo se non nell’episodio I Need Him, nel quale la sua devastazione viene trasformata in una accomodante forma gentile nei confronti di parole rubate a una realtà che stabiliva la fine di una relazione.

Due lati diversi, con strutture e dinamiche che ruotano dentro una progettualità che prevede un cammino longitudinale, in grado, cioè, di trasmettere la muta della pelle della sua anima, come un forcone che affitta baci dal fieno. 

La prima parte è un resoconto fedele di antiche felicità, la seconda un’amara constatazione del precipizio e infatti gli scenari stilistici cambiano.

Notevolissima è la tinteggiatura nell’ultimo brano fatto di coriandoli dream pop, da cui poi Tom McRae e i Radiohead hanno rubato a piene mani.

Sistematica modalità di una libertà pagata a caro prezzo, l’evoluzione del suo stile lo riporterà tra le braccia di Tranmer, anche se solo per un attimo. Ma questo album è un esercizio senza paragoni, vuoi per il romanticismo col cappotto nero e gli occhi che ancora cercano una bocca da sfiorare, che per canzoni che fanno riflettere su come la felicità sia solo l’avamposto della bomba atomica…

Un disco che ha generato orgasmi mentali e applausi da parte della critica: non si erano mai udite frammentazioni creare connessioni con la morbidezza, con l’educata propensione a grattugiare il lato meno duro di una decade che sembrava preferire i frastuoni ai sussurri.

Infatti certe esperienze toccano maggiormente quando si deve acuire l’ascolto.

E dopo più di vent’anni sembra che i segreti di questo gioiello continuino a emergere, facendo del volto delle sue composizioni uno splendido anfiteatro greco dove la poesia è un’arte inferiore: i versi di Roger sono immediati e riflessivi, non cercano la memoria, bensì il modo di dare a ogni attimo una rapida fuoriuscita… 


Alex Demattteis

Musicshockworld

Salford

1 Dicembre 2024


https://open.spotify.com/album/4r8D9GORVR1xg7sMUS7hjl?si=eLO0-msNTnWai3rhVB-aEA


 






My Review: At Swim Two Birds - Quigley’s Point


 At Swim Two Birds - Quigley's Point


Vini Reilly is a magician who rents heavenly scenes, Johnny Marr turns them into wind, Roger Quigley puts both on his golden fingertips and rents small rooms in which to make dreams solid. 

This incipit might be enough to say where the stylistic figure of a painter who has written an album about his relationship with a very sweet girl dwells: the music reproduces her features, her accommodating laugh, the smoke dust of perpetually lit pipes and the desire to use the six-string as a loving tam tam always at the disposal of his lightning bolts.

There is no past at the time of writing these letters, which seek in memory a suspension from pain, a scream made obedient to the nature of a mind devoted to embrace.

Nourishing the tears of continuous anaesthesia is a great effort. He knows this and decides to publish his disappointment side by side with grains of joy, with a more subtle songwriting than that of The Montgolfier Brothers who, with Mark Tranmer, had made us discover how Nick Drake and Tim Buckley, with less emphasis and more flair for storytelling, could sound like good guys, as well as beautiful.


Then the end (Roger has known many...) brought about a return to Salford, he who had been born there, leaving Manchester with only a few monthly episodes.

In a bored room waiting for an earthquake, the blond songwriter fills his ashtrays and sheet music, with arpeggios that move from American folk to Portuguese fado, to the most intimate dream pop, and then writes words capable of caressing the hair of his memories.

His singing is respectful, without bitterness, leaving the disintegration of dialogue to the long arpeggiated solos.

He uses, for his first real solo episode, street recordings, his walks in the parks, birds, work in progress, sequestering the fog of Weaste and Langworthy and then surrounding them with electronics and primordial software to chill his sad breathing.

He whispers into the microphone, catches his breath amidst clouds of smoke and then throws himself into writing atmospheres that seem to have been born for a film in which faces and stories are imbued with uncertainty and desolation but, believe the Old Scribe, there have been many laughs on the stave and the certainty that a record is not a collection, but an important and decisive seeding.

Anticipating part of the New Acoustic Movement, which used patterns, midi, soft and never invasive electronics, the good Roger established a new boundary between disclosure and mystery.


To understand this, one only has to pay attention to the long musical suites where a phrasing is repeated but never with the intention of becoming a loop, given the typical inserts of the 1960s arrangers.

At that precise moment, everything goes dark, the stories disappear and the music becomes a mute mouth capable of swinging emotions.

Nervous, polished fingers glide over the neck of his Takamine, with the diploma of beatification, given the perfect technique and the ability to often double the six-string with precise work assignments, like twins speaking different languages, without lacking in understanding.

His background has no place here: his listenings were aimed at the music of the city, whereas in this solo debut we are wandering around the globe and through time, as if true freedom were the distancing from reality.

And indeed the lyrics are deceptions, torture, like the music: it sounds like a magical collective trying to reach into creation to embrace listeners.

Instead Dante and his Inferno are right in these grooves, in walks with fake clothes and so much real pain to sift through hope.


Brazil, Portugal, Swinging London, Paris and the writer after whom his project was named with a fabulous novel are the main protagonists, followed by a plethora of tangled dreams.

Sarah Records credited Quigley with knowing by heart how to stumble with pure sanity through the convoluted guitar exercises of which Reilly and Marr were absolute masters.

The strings, the often deliberately odd rhythms and the production that tried to anaesthetise the abundance of sounds are the most intense moments of this Salfordian vessel that remembers well the harbour and the struggles with Liverpool.

To the latter city Roger gives a lot of space: in the introductions of several songs the magical atmosphere of Merseyside in 1975 and 1976 seem to pop up like free-flowing moonbeams.

I think, however, that the most difficult aspect to sustain is the inclination of the late talent to say goodbye, between goodbyes and farewells that embrace each other, making listening a wound, just like the writing of these hypnotic verses, but also capable of being delightful obstinacies full of smiles and charm.                                 Certain absences are striking, certain decisions that have led to the choice of making the interpretative layer uninflated except in the episode I Need Him, in which his devastation is transformed into an accommodating gentle form of words stolen from a reality that established the end of a relationship.

Two different sides, with structures and dynamics that revolve within a projectuality that provides a longitudinal path, capable, that is to say, of transmitting the moulting of the skin of his soul, like a pitchfork renting kisses from hay. 

The first part is a faithful account of ancient happiness, the second a bitter realisation of the precipice, and indeed the stylistic scenarios change.

Remarkable is the hue in the last track made of dream pop confetti, from which Tom McRae and Radiohead then stole profusely.

A systematic mode of freedom paid dearly, the evolution of his style will bring him back into the arms of Tranmer, if only for a moment.                                 But this album is an unparalleled exercise, whether in romance with the black coat and the eyes still searching for a mouth to touch, or in songs that make you reflect on how happiness is only the outpost of the atomic bomb...

A record that generated mental orgasms and applause from critics: never before had fragmentations been heard to create connections with softness, with the polite propensity to grate the less hard side of a decade that seemed to prefer noises to whispers.

Indeed, certain experiences touch more when one has to sharpen one's listening.

And after more than twenty years it seems that the secrets of this jewel continue to emerge, making the face of his compositions a splendid Greek amphitheatre where poetry is an inferior art: Roger's verses are immediate and reflective, not seeking memory, but rather a way of giving each moment a quick escape…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1st December 2024


https://open.spotify.com/album/4r8D9GORVR1xg7sMUS7hjl?si=QSgE7qCjRmaOU7nBRsQBvA

giovedì 19 settembre 2024

La mia Recensione: Ist Ist - Light A Bigger Fire


 

Ist Ist - Light A Bigger Fire


“Quello che voglio esiste, se solo ho il coraggio di cercarlo”

Jeannette Winterson, scrittrice, Manchester, Uk


Esistono anime perse che assomigliano a dei cercatori di funghi, in boschi coperti dalla nebbia e dalla pioggia battente, intenti a formare la propria identità, con il coraggio in stato di allerta.

Al quarto lavoro, la band Mancuniana sfodera brillanti sonori, nuove prospettive e una carica gothic pop immensa, libera di appagare una crescita che si è resa evidente nei molti live degli ultimi anni. Un’idea, un concetto, un frastuono ragionato, un’enfasi controllata dalla frenesia, incollata a dei diamanti che spezzandosi rivelano raggi di luce poderosi.

Vibrazioni come innesti di spettri nascosti che con azione chirurgica scolpiscono il concetto del suono. Sebbene la tendenza sia di mettere in frigo il clima a loro congeniale della malinconia, l’antimateria oscura è percepibile, con evidenti sequenze umbratili che saranno riconosciute e amate dagli appassionati della prima ora.

Le sorgenti sonore sono eterogenee e scolpite con continuità e intelligenza, nello specifico, dal basso, dalle chitarre e dalla batteria, con i suoni sintetici che creano vortici liquescenti, moderni nella forma ma dal profumo antico, con l’inchino agli Human League e ai Tubeway Army.

Quello che impressiona, sbalordisce e conquista è la produzione affidata a Joseph Croys, il soldato della struttura, che ha lavorato con Hurts, Courteneers e gli Slow Readers Club. È evidente che agli strumenti è stata impartita una linea guida, un equilibrio, per poter dare più omogeneità a composizioni già in grado da sole di conquistare il cuore, ma che abbisognavano di una disciplina e di un senso di collettività che mancava nei lavori precedenti.

Palese è la volontà di condurre le canzoni in una zona mista, dove la purezza del genere musicale sia da mettere da parte: l’armoniosa unione delle forze ha generato una crescita nella scrittura, nella dinamica e nella capacità di conferire un senso di freschezza e positività che forse non erano state volute prima. Brilla la penna di Adam Houghton, come la sua nuova tendenza a modificare l’interpretazione del canto, senza perdere la matrice inconfondibile che da ben dieci anni lo caratterizza.

Però…

Però è uno shock vedere una serie di dialoghi con l’io interiore che divengono un canto tra le nuvole piene di sabbia, mentre la musica deposita cortecce di ombre.

Ed è epicità che gonfia le vene, le espande, le terrorizza, le maledice con garbo e le porta tra le strade di una Manchester sempre più stretta per questi quattro musicisti con le vie della mente percorse da una compatta idea di mutazione, ampliamento delle proprie energie e potenti motivazioni.

La freschezza dei suoni è un inganno intelligente: nulla di davvero gioioso vive nelle melodie effervescenti presenti in diversi episodi, e la canzone che chiude l’album sarà una meteora infinita, senza morte, che farà intendere quanta progressione e duttilità esista in quei polpastrelli sempre in grado di aggiungere massa alla loro calamita.

Gli Ist Ist sono capaci percepire l’emozione donata, con un numero crescente di persone che adoperano le loro composizioni per compattare la solitudine, i tratti di una evidente unicità, malgrado, soprattutto all’inizio, le comparazioni non siano mancate, generando un comprensibile tedio in loro.

Le chitarre e il basso, proprio grazie alla straordinaria produzione, sono meno vistose ma sembrano lavorare il doppio, definire l’impeto attraverso capacità multiple, finendo per indossare  il mantello del suono con grande precisione e concedendo spazio all’elettronica per rendere il tutto contemporaneo e sensato. Figlio di una realtà che nega un certo tipo di appartenenza al disagio, il disco coglie invece ciò che vive nel sommerso e, attraverso una fluida ragnatela di percezioni, diventa un metronomo che mette in riga le sbavature, uccidendole per elevare il senso. 

Canzoni come omaggio al bisogno di una coperta che assicura la sicurezza dell’anima: ecco perché tutto scorre, ma una scure, un masso, una valanga, una frana e un terremoto trovano modo di regalarci un senso di abbondanza che elettrifica i nervi e li colora di grigio.

Hanno fatto del loro sogno e delle loro necessità il perimetro di un laboratorio aperto all’intimità, al sondare e alla combustione che può privarsi dell’onda selvaggia degli esordi: tutto è più pesante, ma con raffinatezza, con il dolore che pare vesta un completo di luci…

Si piange per la vastità di incontri, si fa esperienza con il male visto da un lato atipico, si balla con la testa piena di ronzii continui, si trema per la sensazione che un addio sia sempre possibile con le nostre esistenze, si brinda al talento di un’opera che riassume, contiene, diversifica e appare nella sua magnificenza acida, conturbante e quasi impietosa. Nel momento in cui decidono di afferrare la vita, la paralizzano con obese forme di esplosioni senza fine.

Drammatico, plumbeo, onesto, concentra il percorso di una crescita sino a giungere in uno studio di registrazione dove non esiste il miracolo ad attendere i musicisti bensì un lavoro, di testa, di pancia, con le luci che visitano le ombre per creare un patto.

Sostiene la memoria, innaffia il ritmo con un poderoso bilanciamento delle pulsioni, deterge la melodia per dare una voce ai balbettii che spesso danneggiano le composizioni. I quattro non cadono nel tranello e dipingono il cielo di ogni nostra camera con la linea di un futuro evidente: gli Ist Ist sono una risorsa, non un palazzo a cui volgere lo sguardo.


Mettiamoci sull’attenti, andiamo a perlustrare questa energetica tela e mettiamoci a ballare…



Song by Song


1  - Lost My Shadows


Impetuosa, strabordante, nel suo vestito di ordinanza, ribadendo lo stile, la forma e l’attitudine degli ultimi due album, la canzone che apre questo è un anello di congiunzione che però lascia piccole tracce di ciò che accadrà. Semplice ma fragorosa, trasmette, attraverso le parole di Adam, la sicurezza che molte del passato sono ormai alle spalle, e il quarto lavoro a lunga distanza lo dimostra per davvero.




2 - The Kiss


Vibrazioni, spilli e poi il solito devastante basso di Andy aprono i cancelli, il synth di Mat disegna traiettorie vicine a Gary Numan e il ritornello è un arcobaleno che viaggia dentro i riff post-punk di ordinanza. Ma la freschezza rende il tutto diverso e attraente.



3 - Repercussions


Eccoli, evidenti, i cambiamenti, le diverse abilità, i nuovi calibrati giochi di alternanza, nei suoni, nei movimenti, per principiare una straordinaria volontà di acclimatarsi con l’epicità. Quando, nella seconda strofa, Andy cambia l'effetto del suo strumento, si rende evidente come ci sia una calibratura che conferisce  alla veste della forma canzone una specificità mai adoperata in precedenza. E il fraseggio conclusivo delle chitarre finisce per essere una sontuosa cavalcata con la voce che ritorna a usare la rabbia di un tempo…



4 - I Can’t Wait For You


Se l’inizio ci offre infiniti rimandi, dagli Stranglers, agli Interpol e a una lunga fiumana che potrebbe anche tediare, ecco che la band struttura una dolcezza assottigliando gli odori, i colori, non usando il fragore ma la delicatezza. E il controcanto di Joel, il batterista, entra come un vortice di grandine nella testa…



5 - Dreams Aren’t Enough


Quanta tristezza danza tra lacrime in attesa di essere asciugate da un destino crudele che visita l’aspetto onirico dell’esistenza. La voce scende in cantina, per salire nel cielo trasportata da una tastiera che circonda e rende possibile avvicinare, in un crossover quasi impercettibile, almeno tre decadi, per ritrovarci triturati da una chitarra sibilante, disperata…



6 - Something Else


Joseph Croys indaga, percepisce che non sono gli errori a impedire la crescita, ma occorre mettere un microscopio nelle idee. Così facendo si capisce quanto la sua mano abbia creato la possibilità che un'idea brillante diventasse un urlo rugginoso con le redini… Tenebroso e pieno di guaiti, con le parole di Adam, il lavoro di un noise caustico, il brano riesce a rendere sgomenti, con l’ineluttabile desiderio di cantare e ballare da soli, abbaiando alla luna. Le pause, i rientri, diventano il fragorio che educa il cuore…



7 - What I Know


La seconda canzone del lato B è un cortocircuito, in cui la lentezza, la rarefazione, vengono a supportare il testo e la voce, per trovare una marcia che, con la sua cadenza marziale e circondata dall’uso di una elettronica fine ma esaustiva, producono un grande senso di gioia: alcune consapevolezze rendono i brani eterni…



8 - Hope To Love You Again


Immaginate Robert Smith con la voce baritonale e i  suoi Cure nella febbricitante versione pop: ecco un raggio di sole semplice, crudo, caldo, con circuiti elettronici circolari che trasmettono un senso fluido di spostamento…



9 - XXX


Bagliori iniziali dei Can e poi una linea retta, una sottile propensione a esseri lievi ma gravitando nell’infinito dove non c’è sicurezza. Ed è una frustata al rallentatore, produce dolore, soffoca e consente ad Adam di cantare con i cavi nell’ugola, facendoci rabbrividire. Tutto si accelera, mentre la canzone rimane lenta, un miracolo questo incomprensibile ma seducente. In questa struttura lontana dal post-punk ma più incline a una sperimentazione vicina alla new age ci viene mostrata una band che sa allontanarsi pure da se stessa…



10 - Ghost


Una tragedia, un’unghia messa sotto una pressa, un dolore lento che galvanizza l’impietosa avanzata di un pezzo che spacca il cuore, come un magnete che ci fa conoscere il vuoto. L’ultimo brano è un pugno, una sedia elettrica che ci insegue: prima lentamente, poi meno, ritornando nei secondi finali a essere una torcia che illumina le nostre difese mancanti.

Drammatica, nella sua esibizione, nella sua capacità di avvolgere ogni anima nella propria rete, parte da un pianoforte che, sposando una tastiera, chiama a rapporto gli altri strumenti. Ma non è il crescendo dell’atmosfera a farci sentire gambizzati, bensì la certezza che ci sia un inquieto mistero che governa le note, il testo, per farci sentire come un malato con pochi minuti da vivere. Il melanconico approccio è solo un elettrodo in più per fare di questa composizione il modo perfetto per illuminare la lunga scia di lacrime che possono finalmente celebrare il nuovo luogo nel quale vivere. Non è pop, non è rock, è poesia che spalanca la consapevolezza e ci rende fragili, nel modo migliore, consentendoci di dare ai quattro cavalieri di Manchester il nostro abbraccio riconoscente: concludere così un album è il miglior omicidio possibile…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Settembre 2024


https://ististmusic.bandcamp.com/album/light-a-bigger-fire



Ist Ist:


Adam Houghton

Joel Kay

Andy Keating

Mat Peters


My Review: Ist Ist - Light A Bigger Fire


 Ist ist - Light a bigger fire


"What I want exists, if only I have the courage to look for it"

Jeannette Winterson, writer, Manchester, UK


There are lost souls who resemble mushroom seekers, in woods covered by fog and pouring rain, intent on forming their identity, with courage in alert.

To the fourth work, the Mancunian band shows off bright sounds, new perspectives and an immense Gothic pop charge, free to satisfy a growth that has made itself evident in the many live lives in recent years. An idea, a concept, a reasoned din, an emphasis controlled by frenzy, glued to diamonds that breaking reveal powerful rays of light.

Vibrations as hidden spectra grafts that with surgical action sculpt the concept of sound. Although the trend is to put the climate in the fridge congenial to melancholy, the dark antimatter is perceptible, with evident umbratical sequences that will be recognized and loved by fans of the first hour.

The sound sources are heterogeneous and carved with continuity and intelligence, specifically, from the bottom, by guitars and battery, with the synthetic sounds that create create liquescent vortexes, modern in the form but with an ancient perfume, with the bow to The Human League and the Tubeway Army.


What impresses, astounds and conquers is the production entrusted to Joseph Croys, the soldier of the structure, who has worked with Hurts, Courteneeers and the Slow Readers Club. It is clear that the tools were given a guideline, a balance, in order to be able  to give more homogeneity to compositions already able to conquer the heart alone, but which needed a discipline and a sense of community that was missing in previous works.

The desire to conduct the songs in a mixed zone, where the purity of the musical genre is to be put aside: the harmonious union of forces has generated growth in writing, dynamics and in the ability to give a sense of freshness and positivity that perhaps had not been desired before. Adam Houghton's pen shines, like his new tendency to modify the interpretation of singing, without losing the unmistakable matrix that has characterized him for ten years.

But ...

But it is a shock to see a series of dialogues with the inner ego that become a song in the clouds full of sand, while the music deposits bark of shadows.

And it is epic that swells the veins, expands them, terrifies them, cursed them with grace and brings them in the streets of an ever closer Manchester for these four musicians with the streets of the mind travelled by a compact idea of ​​mutation, expanding their own energy and powerful motivations.


The freshness of the sounds is an intelligent deception: nothing really joyful lives in the effervescent melodies present in different episodes, and the song that closes the album will be an infinite meteor, without death, which will make it clear how much progression and flexibility exists in those fingertips always able to add mass to their magnet.

 Ist Ist are capable of perceiving the emotion donated, with an increasing number of people who use their compositions to compact loneliness, the traits of an evident uniqueness, despite, especially at the beginning, comparisons have not been lacking, generating an understandable one tedium in them.

The guitars and the bass, thanks to the extraordinary production, are less conspicuous but seem to work double, define the impetus through multiple abilities, ending up wearing the sound cloak with great precision and granting space to electronics to make everything contemporary And sensible. Son of a reality that denies a certain type of belonging to the discomfort, the disc instead captures what lives in the submerged and, through a fluid spider web of perceptions, becomes a metronome that puts the smudges in line, killing them to raise the meaning.

Songs as a tribute to the need for a blanket that ensures the safety of the soul: that's why everything flows, but a dark, a boulder, an avalanche, a landslide and an earthquake find a way to give us a sense of abundance that electrify the nerves and there colours of gray.

The perimeter of a laboratory open to intimacy, to the probe and combustion that can deprive themselves of the wild wave of the beginning have made their dream and their needs: everything is heavier, but with refinement, with the pain that seems to dress a Complete with lights ...

We cry for the vastness of meetings, experience with the evil seen on the one hand atypical, you dance with your head full of continuous hums, it is trembled for the feeling that a farewell is always possible with our existences, toast to talent of a work that summarizes, contains, diversifies and appears in its acid magnificence, disturbing and almost merciless. When they decide to grab life, they paralyze it with obese forms of endless explosions.


Dramatic, leaden, honest, concentrates the path of growth until you reach a recording studio where there is no miracle to wait for musicians but a job, head, belly, with lights that visit shadows to create a pact .

He supports the memory, watering the rhythm with a powerful balance of the drives, he cleans the melody to give a voice to the stammering that often damage the compositions. The four do not fall into the trap and paint the sky of each of our room with the line of an evident future:  Ist Ist are a resource, not a building to look at.


Let's put on the attention, we go to pulled this energy canvas and let us dance ...


Song by Song


1 - Lost My Shadows


Impetuous, overwhelming, in its dress of order, reaffirming the style, shape and attitude of the last two albums, the song that opens this is a link that however leaves small traces of what will happen. Simple but thunderous, it transmits, through Adam's words, the security that many of the past are now behind them, and the fourth long distance work proves it for real.




2 - The Kiss


Vibrations, pins and then the usual devastating bass of Andy open the gates, Mat’s synth draws trajectories close to Gary Numan and the refrain is a rainbow that travels inside the post-punk riffs of ordinance. But freshness makes everything different and attractive.



3 - Repetcussions


Here are, evident, the changes, the different skills, the new calibrated alternation games, in the sounds, in the movements, to begin an extraordinary will to acclimatize with the epic. When, in the second verse, Andy changes the effect of its instrument, it becomes evident that there is a calibration that gives the role of the song form a specificity never used previously. And the final phrasing of the guitars ends up being a sumptuous ride with the voice that returns to use the anger of the past ...



4 - I Can’t Wait for You


If the beginning offers us infinite references, from the Stranglers, to Interpol and to a long river that could also bore, the band structures a sweetness by thinning the smells, colours, not using the roar but the delicacy. And Joel's counterpoint, the drummer, enters like a vortex of hail in the head ...



5 - Dreams aren’t enough


How many sadnesses dance in tears waiting to be dried by a cruel destiny that visits the dreamlike aspect of existence. The voice goes down to the cellar, to climb the sky transported by a keyboard surrounding and makes it possible to approach, in an almost imperceptible crossover, at least three decades, to find us shredded by a hissing guitar, desperate ...


6 - Something Else


Joseph Croys investigates, perceives that it is not the mistakes that prevent growth, but a microscope in ideas must be put. In doing so, it is clear how much his hand created the possibility that a brilliant idea would become a roaring scream with the reins ... dark and full of yelps, with the words of Adam, the work of a caustic noise, the song manages to make dismayed , with the inevitable desire to sing and dance alone, barking to the moon. The breaks, the returns, become the fragorio that educates the heart ...



7 - What i know


The second song on side B is a short circuit, in which slowness, rarefaction, come to support the text and voice, to find a march that, with its martial cadence and surrounded by the use of a fine but exhaustive electronics, They produce a great sense of joy: some awareness make the songs eternal ...



8 - Hope to love you again


Imagine Robert Smith with the baritonal voice and his band in this feverish pop version: here is a simple, raw, hot ray of sun, with circular electronic circuits that transmit a fluid movement of movement ...



9 - XXX


Initial flashes of the Can and then a straight line, a thin propensity to mild beings but gravitating in infinity where there is no safety. And it is a whisk in slow motion, produces pain, suffocates and allows Adam to sing with the cables in the uvola, making us shiver. Everything speeds up, while the song remains slow, a miracle that turns out to be incomprehensible but seductive. In this structure far from the post-punk but more inclined to an experimentation close to New Age we are shown a band that can also get away from ourselves ...


10 - Ghost


A tragedy, a nail put under a press, a slow pain that galvanizes the merciless advance of a piece that breaks the heart, like a magnet that makes us know the void. The last song is a punch, an electric chair that chases us: first slowly, then less, returning to the final seconds to be a torch that illuminates our missing defenses.

Dramatic, in its performance, in its ability to wrap every soul in its network, starts from a piano which, by marrying a keyboard, calls the other tools to a relationship. But it is not the crescendo of the atmosphere that makes us feel that we have lost our legs, but the certainty that there is a restless mystery that governs the notes, the text, to make us feel like a patient with a few minutes to live. The melancholy approach is only one more electrode to make this composition the perfect way to illuminate the long trail of tears that can finally celebrate the new place to live. It is not pop, it is not rock, it is poetry that opens awareness and makes us fragile, in the best way, allowing us to give the four knights of Manchester our grateful embrace: thus concluding an album is the best possible murder ...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 September 2024


https://ististmusic.bandcamp.com/album/light-a-bigger-fire



Ist ist:


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