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giovedì 28 novembre 2024

La mia Recensione: BIPOLAR EXPLORER - Memories of the Sky


 

Bipolar Explorer - Memories of the Sky


Tre sopravvissuti fanno da ponte radio all’epopea terrena di anime disintegrate, saltate in aria in un cielo che desidera solamente mantenere la memoria di quello che è successo: si contemplano le ragioni del disastro, si sviluppa il seme della fine con suoni (e non canzoni) che, oltre a narrare, metabolizzano con una zoppia che esclude (tranne pochissime eccezioni) la forma canzone. Pare che nella testa dell’unico autore di questo mastodontico progetto (Michael Serafin-Wells) ci sia un computer attaccato a un cratere, con vermi, rapaci, scorie, trucioli, martelli e una valanga di scosse telluriche a illuminare la volta celeste nella celebrazione di una sconfitta prevedibile.

Vengono creati, quindi, percorsi millenari, racconti che escludono il cantato ma prevedono il crooning e lo storytelling di Summer Serafin e di Sylvia Solanas, che non sono niente altro che angeli femminili con le lacrime nelle corde vocali.

Il Big Bang iniziale non è nulla rispetto a questa processione di lava, bave e rantoli, nel cimitero rovente di un sogno in apnea. 

Si muovono le parole come comete stanche mentre il Moog Synth, la bowed guitar, le percussioni sono rattoppi di una ferita compressa tra queste lamiere sonore che sprofondano attimo dopo attimo.

Sembra un volo, quello di Birdy (e infatti quel Peter Gabriel che scrisse la colonna sonora potrebbe pensare di aver trovato dei nipoti molto più guerrieri e spavaldi di lui), in cui ciò che si vede si trasforma nella dovuta esagerazione di sonorità come pali della luce in genuflessione. Tutto è accorato ma lento, facendo così lievitare la tensione, l’imbarazzo, il fastidio e la certezza che non sia la gradevolezza ciò che ci colpisce il ventre. Ed è proprio da lì che il suono si trasforma nella transizione e nella traduzione di un percorso che trova lo sbarramento di un’epoca che non ha più visibilità.

Un viaggio psichedelico nella follia del prog rallentato, nei minuscoli approcci ai Velvet Underground e a Pink Floyd, quando, cioè, possiamo ascoltare delle quasi canzoni…

Sono però attimi, delle vampate erronee, un micromondo che non può avanzare. Michael non solo è un visionario, ma procede con le undici composizioni del primo disco, per poi scomodare in quelle del secondo disco gli incubi tipicizzanti della musica industriale degli albori, quella inglese del 1976 per intenderci. Per questo motivo giunge lo stupore: un progetto Newyorkese che vive nella Terra d’Albione sin da prima della comparsa degli esseri umani. Epico, granitico, devastante, questo dodicesimo loro album e quinto doppio approfondisce maggiormente il bisogno di rendere sottile l’armonia e di fronteggiare invece la destrutturazione molecolare del pop, del rock e, come accennato prima, della forma canzone.

La chitarra è la madre che consola i suoi figli, ed è tutta farina del sacco di Michael Serafin-Wells, artigiano del tempo, detentore dello scettro dell’atomo che diventa attimo e, straordinariamente, ripetibile. Qui l’applauso deve scattare, tremante e nervoso: questo talentuoso ricercatore e sviluppatore della distruzione di ogni faciloneria artistica si mette il casco, si benda e gratta la storia, la geografia, entra nello studio del chimico nucleare costruendo la sua bomba, postatomica. Ci si ritrova in una bacinella di sabbia nella quale scendono note nere come bisturi  impazziti.

Un resoconto osceno, terribile, pesante, dove l’aria muore nella glacialità espositiva di echi e riverberi, delay e meccaniche ripetizioni robotiche in cui il ritmo non è mai sostenuto dalla batteria bensì dai loop di un iPad vigoroso e determinato a incutere paura e allucinazione continua.

La natura, che siano uccelli, pesci e quant’altro, è l’unica che pare avere dignità, l’unica a essere sopravvissuta e, quando arrivano le campane, non si ha dubbio che sia il vento a suonarle.

La sperimentazione nelle officine del suono tedesco del 1961 e del 1962 inorridirebbe davanti a questa miscela di contrattempi, avamposti sonori e cliché attitudinali che cercano loop umani e ideali da sbattere contro le viscere di un idilliaco tremore. Lo sfacelo del racconto non può prevedere empatia nei confronti di una modalità accomodante. 

Infatti.

Ciò che avviene è una valanga di ultimi respiri in volo decadente, alla ricerca del ventre terreste, come una deposizione di intenti liturgica ma agnostica: non c’è Dio in questo disco semplicemente perché l’uomo è scomparso del tutto, e dalle sue ceneri sono nati questi frammenti.

Sono visioni sospese e poi lacerate, orgasmi delle particelle lunari che celebrano il silenzio corroso, creature mostruose che escono dai corpi dei ricordi, in un assemblaggio distorto e fulminante.

Non esistono arpeggi lunghi ma note, ammassi di note, note storte, note senza possibilità di un pentagramma che veneri il loro potere.

È distruzione continua, frammentazione e mai diffusioni sognate: gli incubi veri sono lenti, smorfiosi, diseducati e abrasivi.

In alcuni momenti dell’album capiamo l’importanza dei Television e di una breve parte della carriera dei Virgin Prunes (A New Form Of Beauty) quando l'approssimazione di un parquet musicale trovava spazio nell’istinto omicida di fraseggi spericolati. 

Le stelle precipitano, l’ellisse cambia opinione e le strade diventano magazzini della memoria ipnotizzati. Per realizzare tutto questo caos si restringono i parametri della fantasia e ci si abbandona all’ossessione, come pazienti di un TSO che ridono della non comunicazione tra le parti.

Ma, aspetto fondamentale di questo lavoro, è la NON COMUNICABILITA’, non esiste un parlare e un ascoltare, ma tutto è raziocinio in frittura, con dosi di droghe sparse dentro il sibilìo costante di questo rumore basale.

Ci si ritrova a considerare certi gruppi come antichi antenati di questa sbalorditiva messa in atto di oscena crudeltà: si dovrebbe immaginare come la non musica di queste ventidue molecole scomposte non siano altro che un nuovo testamento, una nuova partitura ascensionale, perché, per davvero, tutto quello che cade trova modo di risalire con maggior circospezione.

Non c’è gioia, niente di solare, solo un alto fungo atomico che pare cercare una base per far riposare l’amarezza e la desolazione.

Della musica Neo-Folk questo doppio album ha il senso della sintesi.

Della musica Industriale quello sanguigno di una lacerazione continua nei confronti delle verità.

Della musica classica ha tutto: il pudore, l'ardore, la teatralità in cerca di un applauso paralizzato in un giorno di lavoro.

La festa è un grido indecoroso che non può presenziare.

Dello Shoegaze rimane l’abbondanza di distorsioni controllate.

Del Dream Pop la lastra dopo un sogno morto.

Del Rock l’idea che tutto muoia…


Rimane l’odore di una tragedia, di un canto senza orecchie in ascolto, una sedia elettrica ad alto voltaggio ma prive di reazioni muscolari.

In parole povere: un progetto che entusiasma il Vecchio Scriba perché ci si ritrova nel futuro, con le giuste dosi di terrore e di ambasce affittate composizione dopo composizione.

Stoica è l'intenzione di snaturare il processo di avvicinamento all’ascolto, mentre ciò che vive tra questi solchi è un rifiuto persistente del pubblico, le orme umane non sono desiderate e si preferiscono le onde del mare contaminate dall’amianto e le tracce di petrolio sulle ali dei gabbiani (tra i protagonisti assoluti di questo Lp), per connettersi al dolore che sintetizzi un proscenio e un abbandono.

Ci si ritrova, così bene, nelle sacche amniotiche di Poe, con le sue nevrosi, e nella spettacolare conversione stilistica del leader degli Psyco Tv: un gemellaggio continuo con la demenza giovanile e non senile. Si raccontano le vicende di un tempo raggomitolato nei suoni cadaverici e nelle voci femminili sommerse dai frastuoni, come lapidi in movimento in attesa del ghigno malefico.

Magnetica e crudele, la storia dell’arresto del sogno vibra in piena credibilità dato lo spessore di questo sistema convesso, che permette la fuga da ogni accettazione.

E qui si palesano i moti giapponesi, le vicende del Nepal, la storia triste di Ulisse, gli spettri di Lovecraft, i racconti ipotetici di Sofocle, e così via, in un infinito che rende petroso l’avvenire…

Non è un capolavoro (grazie a Dio) ma un testamento che disegna il futuro come una rigida lapide: se tutto deve finire per davvero abbiamo la giusta NON musica, i vestiti gettati tra i latrati del vento e la luce che si inginocchia innanzi alla morte…




Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
29 Novembre 2024

My Review: BIPOLAR EXPLORER - Memories of the Sky


 Bipolar Explorer - Memories of the Sky


Three survivors act as a radio bridge to the earthly epic of disintegrated souls, blown up in a sky that only wishes to keep the memory of what happened: the reasons for the disaster are contemplated, the seeds of the end are developed with sounds (and not songs) that, besides narrating, excludes (with very few exceptions) the song form. It seems that in the head of the sole author of this mammoth project (Michael Serafin-Wells) there is a computer attached to a crater, with worms, raptors, slag, shavings, hammers and an avalanche of telluric tremors illuminating the vault of heaven in celebration of a predictable defeat.

Thus, millennial paths are created, tales that exclude singing but involve the crooning and storytelling of Summer Serafin and Sylvia Solanas, who are nothing less than female angels with tears in their vocal chords.


The initial Big Bang is nothing compared to this procession of lava, burrs and gasps, in the burning graveyard of an apnoea dream. 

The words move like tired comets while the Moog Synth, the bowed guitar, the percussion are patches of a wound compressed between these sonic sheets that sink moment after moment.

It sounds like a flight, Birdy's (and indeed that Peter Gabriel who wrote the soundtrack might think he had found grandchildren far more warrior-like and swaggering than he), in which what is seen turns into the due exaggeration of sounds like genuflecting light poles. Everything is heartfelt but slow, raising tension, embarrassment, annoyance and the certainty that it is not pleasantness that strikes our bellies. And it is from there that the sound transforms into the transition and translation of a path that finds the barrage of an era that no longer has any visibility.

A psychedelic journey into the madness of slowed-down prog, into tiny approaches to the Velvet Underground and Pink Floyd, when, that is, we can listen to almost songs...


They are, however, moments, errant flashes, a micro-world that cannot move forward. Not only is Michael a visionary, but he proceeds with the eleven compositions of the first disc, and then in those of the second disc he disturbs the typical nightmares of the industrial music of the early days, the English music of 1976 to be clear. Hence the astonishment: a New York project that has lived in the Land of Albion since before the appearance of human beings. Epic, granitic, devastating, this twelfth album of theirs and fifth double deepens the need to make harmony subtle and instead confront the molecular deconstruction of pop, rock and, as mentioned earlier, the song form.

The guitar is the mother who comforts her children, and it is all the work of Michael Serafin-Wells, craftsman of time, holder of the sceptre of the atom that becomes a moment and, extraordinarily, repeatable. Here the applause must go off, trembling and nervous: this talented researcher and developer of the destruction of all artistic ease puts on his helmet, blindfolds and scratches history, geography, enters the nuclear chemist's office building his bomb, postatomic. One finds oneself in a bowl of sand in which black notes descend like mad scalpels.


An obscene, terrible, heavy account, where the air dies in the expositional glaciality of echoes and reverberations, delays and mechanical robotic repetitions in which the rhythm is never sustained by the drums but by the loops of a vigorous ipad determined to instil fear and continuous hallucination.

Nature, be it birds, fish or whatever, is the only one that seems to have dignity, the only one to have survived, and when the bells come, there is no doubt that it is the wind that rings them.

Experimentation in the German sound workshops of 1961 and 1962 would be horrified at this mixture of mishaps, sonic outposts and attitudinal clichés that seek human and ideal loops to slam into the bowels of an idyllic tremor. The debacle of storytelling cannot provide empathy for an accommodating mode. 

Indeed.

What happens is an avalanche of last breaths in decadent flight, in search of the earthly underbelly, like a liturgical but agnostic deposition of intent: there is no God in this record simply because man has disappeared altogether, and from his ashes these fragments were born.


They are suspended and then torn visions, orgasms of moon particles celebrating corroded silence, monstrous creatures emerging from the bodies of memories, in a distorted and fulminating assemblage.

There are no long arpeggios but notes, clusters of notes, crooked notes, notes without the possibility of a stave to worship their power.

It is continual destruction, fragmentation and never dreamed of diffusion: real nightmares are slow, dysmorphic, wild and abrasive.

In certain moments of the album we understand the importance of Television and a brief part of Virgin Prunes' career (A New Form Of Beauty) when the approximation of a musical parquet found space in the murderous instinct of reckless phrasing. 

Stars plummet, the ellipse changes its mind and the streets become hypnotised warehouses of memory. In order to realise all this chaos, the parameters of fantasy are narrowed down and we indulge in obsession, like patients of a compulsory health treatment laughing at the non-communication between the parts.

But, a fundamental aspect of this work, is the NON-COMMUNICATION, there is no talking and no listening, but everything is fried reasoning, with doses of drugs scattered within the constant hissing of this basal noise.


One finds oneself considering certain groups as ancient ancestors of this staggering enactment of obscene cruelty: one should imagine how the non-music of these twenty-two decomposed molecules are nothing less than a new testament, a new ascending score, because, for real, everything that falls finds a way to rise with greater circumspection.

There is no joy, nothing sunny, just a high atomic mushrooming that seems to seek a base to rest bitterness and desolation.

Of Neo-Folk music, this double album has the sense of synthesis.

Of industrial music, it has the bloodiness of a continuous laceration against truths.

From classical music it has everything: the modesty, the ardour, the theatricality seeking paralysed applause on a working day.

The party is an unseemly cry that cannot attend.

Of Shoegaze remains the abundance of controlled distortion.

Of Dream Pop the slab after a dead dream.

Of Rock the idea that everything dies....


What remains is the smell of a tragedy, a song with no listening ears, an electric chair with high voltage but no muscular reactions.

To put it simply: a project that excites the Old Scribe because one finds oneself in the future, with the right doses of terror and ambivalence  tearing composition after composition.

Stoic is the intention to distort the process of approaching the listening, while what lives between these grooves is a persistent rejection of the audience, human footsteps are not desired and the waves of the sea contaminated by asbestos and the traces of oil on the seagulls' wings (among the absolute protagonists of this LP) are preferred, to connect with the pain that synthesises a proscenium and an abandonment.

One finds oneself, so well, in Poe's amniotic sacs, with his neuroses, and in the spectacular stylistic conversion of the leader of Psyco TV: a continuous twinning with youthful, non-senile dementia. The events of a time curled up in cadaverous sounds and female voices submerged in the din, like moving tombstones waiting for the evil grin.

Magnetic and cruel, the story of the arresting dream vibrates in full credibility given the thickness of this convex system, which allows an escape from all acceptance.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

29th November 2024


https://bipolarexplorer.bandcamp.com/album/memories-of-the-sky


mercoledì 6 novembre 2024

La mia Recensione: Aursjøen - Strand


 




Aursjoen - Strand

“La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono a caso” - Italo Calvino


Nella spettacolare forma artistica che prevede la progressione dentro i maremoti emozionali, la lentezza diventa l’unica coinquilina ragionevole, in una pacifica e collaborativa convivenza.

Ecco che uno dei membri della polivalente band Octavian Winters innesca un detonatore sensuale, coi bassi ritmi a collegare il cielo e l’osceno del mondo, una musicoterapia che, partendo dall’elettronica curva su scale empiree e segrete, capovolge il pop e scrive canzoni come meteore e statiche statue danzanti, calibrate dal suo canto, corretto in corsa da controcanti e strategie di una produzione attenta a riversare luce tra bagliori eterei e tuttavia colmi di quel nero che non snellisce bensì preoccupa. Su questa base tutto diventa un'esperienza non catartica ma protettiva: ci sono luoghi dell’anima che l’artista di San Francisco preferisce mantenere come gocce di vetro nei suoi percorsi creativi. Musica glaciale, dove i panegirici dell’uomo comune tendono a frantumarsi, perché Aursiøen è una telefonata di note sotterranee. Da cui tutto parte per spegnere incantesimi e follie.

Un E.P. che la libera, la rinforza, capovolge il conosciuto e diviene residenza di sperimentazioni fluviali, mantenendo il contatto, nel suo timbro vocale (pieno e oscuro), con quelle voci che in passato, nel suo precedente progetto, non trovavano adiacenza e possibilità espressiva. Arrivano Siouxsie, Sinéad O’Connor, Björk, Elizabeth Frazer a ricordarci come la ricerca ostinata di una originalità sia cosa stupida: ci sarà sempre qualcuno che troverà un nome che l’ha per gioire di una vittoria inutile e irrisoria.

Questa cantante ha delle grucce nell’ugola, la sua mano scrive testi che salgono nella sua bocca per essere fantasmi gentili nel buio di notti vogliose di una distrazione. Quello che racconta e il modo in cui lo fa la mette su una discesa temporale: composizioni come un allontanamento, come una ferita sibilante in cerca di un’armonia gradevole, con richiami alla musica classica, partendo da un trip-hop nerastro all’interno di allacciamenti gotici, con una chitarra e il suo delay a frantumare la purezza, facendolo divinamente.

Il pop alternativo diviene folk alleggerito, con stravaganze davvero radiose e sublimi, con balbettii che inquinano la sicurezza, rendendoci ascoltatori in stato di fragilità, con una meccanica compositiva che avvicina la possibilità di un bacino di accoglienza popolare, mettendo a tacere chi la vorrebbe solo per poche anime.

Le stratificazioni, gli arrangiamenti, le progressioni, l’enfasi e la leggerezza (quella di Calvino nell’introduzione) sono gli elementi che continuano a partorire grappoli, frammenti, scintille di idee che reclamano note, come se uscissero dal risveglio di una persona in coma.

Micidiale, caustica, rapitrice di melodie arcane e vicine alla mitologia, questa artista lavora concetti privati, semina una lastra di impeti con lo sguardo dentro le cartucce di una voce che spara i cambi di registro con attenzione e capacità.

E dei testi, dei richiami sognanti verso gli anni Ottanta, della sensazione che sei canzoni sembrino trenta non ne vogliamo parlare?

In questo si dovrebbe tirare in ballo la seconda parte della carriera dei Dead Can Dance, forse il sistema di misura più vicino alla ragionevolezza per inquadrare il grande percorso compiuto con questo lavoro, per riuscire a dargli una credibilità che merita di sicuro.

Per il Vecchio Scriba questo non è soltanto l’E.P. del mese e dell’anno 2024, piuttosto è l’augurio che le anime pensanti possano scoprire con queste delicate pennellate artistiche una serie di mondi non connessi tra loro ma in fase di annusamento, nella spettacolare modalità di circospezione.

E si scopre come la bellezza sappia essere violenta: davanti a tutto ciò un cuore sano perde efficacia e si accascia, felicemente…


Song by Song


1 -Nytär


Una terra senza acqua esce da questi aggeggi elettronici, chiamateli computer, tastiera, beats, non importa: l’inizio del brano è già un geyser che si precisa nelle orecchie, un geniale intro per la voce che sembra uscire da un concerto della 4AD in un attimo di distrazione della massa gotica.

Pj Harvey osserva attenta: capisce come Aursjøen utilizzi il registro alto non come acclamazione o preghiera, bensì come soluzione per portare sul suolo terrestre angeli e demoni. Esempio di come la musica eterea stia a suo agio con un temporale, lento, pieno di elettronica e suspense.



2 - Apollo



Eccoli gli Octavian Winters nell’intro di chitarra: una bordata gotica che butta giù il cielo! E poi è una duna del deserto nel battibecco dei Tuareg, a benedire il connubio tra darkwave e trip-hop, con il ritornello che sentenzia la facilità che possiede di permettere alla malinconia e all’allegria di convivere. Misteriosa, trasmette un prurito piacevole, dato dalla metodica del canto, raffinato ma potente.


3 - Lilypad


Si cambia, si dimentica e si prosegue: siamo ora tra i pilastri della world music in cerca di anime voraci, di sospiri con eco e riverbero che montano la panna di una forma canzone che lascia spazio agli accenni di chitarra e tastiera, nel dondolio di un pomeriggio che vede la voce più nascosta, come una meteora in cerca di una metafora. Ma poi nell’apertura del ritornello le note in maggiore ci portano equilibrio e godimento. E ci viene in mente la stessa attitudine al gioco canoro di una cantante che è ancora un missile in anticipo nel mondo trip-hop, quella Skye Edwards dei Morcheeba che echeggia spesso in queste sei canzoni.



4 - Suns Of Tomorrow


Poi esiste l’estraneità e il giocattolo diverso nei luoghi predisposti alla ludicità.

Eccolo questo brano che visita l’ignoto, il sacro, l’accartocciare la voce per fare posto a campane, a beats magnetici, e un velo triste ci copre perfettamente gli occhi. La sperimentazione qui diviene saggezza al pascolo, per perseverare con la brevità del giro di accordi, lasciando poi spazio a un cambiamento ritmico e scenico impressionante, tra sibili e suggestioni drammatiche di altissimo livello, con incursione di fiati che creano un terrore rappresentativo di una genialità impressionante.



5 - For Want Of


L’eco maestro del dramma interiore esce a fumare: canzone che ci penetra attraverso il chiaroscuro vocale, mentre la musica, compatta, siderea, plumbea, struttura l’ascolto all’interno della pazzia maniacale di Diamanda Galas. Si canta per colpire l’aria, per irritare e tenere buoni gli spiriti, come fate, come diavolesse. Aursjøen impressiona, ci travolge con il modo in cui usa la complessità per esplodere ma solo in lontananza…



6 - Strand


Dio mio. Una chiusura che mette il magone, che ci rende orfani, visto che la bellezza e la leggerezza decidono di partorire una figlia amorfa, stralunata e vicina alla fine prematura. Un incubo rappresentato come atto contemplativo, un trasporto nomade di antiche culture millenarie che qui trovano il benvenuto e si piange, di gioia, di gioia, di gioia mentre tutto si fa muto con queste praterie vocali che divengono l’unico vento su cui depositare il nostro grazie infinito…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
7 Novembre 2024

My Review: Aursjøen - Strand


 

Aursjoen - Strand

‘Lightness for me is associated with precision and determination, not with vagueness and random abandon’ - Italo Calvino


In the spectacular artistic form of progression within emotional tidal waves, slowness becomes the only reasonable housemate, in a peaceful and collaborative coexistence.

Here, one of the members of the multi-purpose band Octavian Winters triggers a sensual detonator, with low rhythms linking the sky and the obscene of the world, a music therapy that, starting from electronics curved on empyrean and secret scales, turns pop upside down and writes songs like meteors and static dancing statues, calibrated by her singing, corrected in the race by counter-notes and strategies of a production careful to pour light among ethereal flashes and yet full of that blackness that does not slender but worries. On this basis, everything becomes an experience that is not cathartic but protective: there are places of the soul that the San Francisco artist prefers to keep as drops of glass in her creative journeys.


Glacial music, where the panegyrics of the common man tend to shatter, because Aursiøen is a phone call of subterranean notes. From which everything starts to extinguish spells and follies.

An E.P. that liberates it, reinforces it, turns the known upside down and becomes a residence of fluvial experimentation, maintaining contact, in its vocal timbre (full and obscure), with those voices that in the past, in its previous project, did not find adjacency and expressive possibility. Siouxsie, Sinéad O'Connor, Björk, Elizabeth Frazer arrive to remind us how the obstinate search for originality is a stupid thing: there will always be someone who will find a name that has it to rejoice in a useless and derisory victory.

This singer has crutches in her uvula, her hand writes lyrics that rise into her mouth to be gentle ghosts in the darkness of nights longing for a distraction. What she narrates and the way she does it puts her on a temporal descent: compositions like a distancing, like a sibilant wound in search of a pleasing harmony, with hints of classical music, starting with a blackish trip-hop within gothic allusions, with a guitar and its delay shattering purity, doing it divinely.


The alternative pop becomes lightened folk, with truly radiant and sublime extravagances, with stutterings that pollute confidence, making us listeners in a state of fragility, with a compositional mechanics that brings the possibility of a popular reception basin closer, silencing those who would like it only for a few souls.

The layering, the arrangements, the progressions, the emphasis and the lightness (that of Calvino in the introduction) are the elements that continue to give birth to clusters, fragments, sparks of ideas that clamour for notes, as if they were coming out of the awakening of a person in a coma.

Deadly, caustic, an abductor of arcane melodies close to mythology, this artist works on private concepts, sows a slab of impetus with her gaze inside the cartridges of a voice that fires off register changes with care and skill.

And of the lyrics, the dreamy references to the eighties, the feeling that six songs sound like thirty, we don’t want to talk about it?

This is where the second part of Dead Can Dance's career should be brought into play, perhaps the closest reasonable metric for framing the great path taken with this work, to be able to give it a credibility it surely deserves.


For the Old Scribe, this is not just the E.P. of the month and year 2024, rather it is the wish that thinking souls may discover with these delicate artistic brushstrokes a series of unconnected worlds, but in the process of sniffing them out, in the spectacular mode of circumspection.

And one discovers how violent beauty can be: in the face of all this, a healthy heart loses effectiveness and collapses, happily...


Song by Song


1 -Nytär


A land without water comes out of these electronic contraptions, call them computers, keyboards, beats, it doesn't matter: the beginning of the song is already a geyser that is precise in the ears, a brilliant intro for the voice that seems to come out of a 4AD concert in a moment of distraction of the gothic mass.

Pj Harvey watches attentively: she understands how Aursjøen uses the high register not as acclamation or prayer, but as a way to bring angels and demons to earthly soil. An example of how ethereal music is at ease with a storm, slow, full of electronics and suspense.



2 - Apollo



Here are the Octavian Winters in the guitar intro: a gothic broadside that throws down the sky! And then it's a desert dune in Tuareg's bickering, blessing the marriage of darkwave and trip-hop, with the refrain sentencing the ease it possesses of allowing melancholy and cheerfulness to coexist. Mysterious, it conveys a pleasant itch, given by the methodical, refined yet powerful singing.



3 - Lilypad


We change, we forget and we go on: we are now among the pillars of world music in search of voracious souls, sighs with echoes and reverberation that whip up the cream of a song form that gives way to hints of guitar and keyboard, in the rocking of an afternoon that sees the voice more hidden, like a meteor in search of a metaphor. But then in the opening of the refrain the major notes bring us balance and enjoyment. And we are reminded of the same singing attitude of a singer who is still an early missile in the trip-hop world, that Skye Edwards of Morcheeba who often echoes in these six songs.



4 - Suns Of Tomorrow


Then there is the strangeness and the different toy in the places predisposed to playfulness.

Here is this track that visits the unknown, the sacred, the crumpling of the voice to make room for bells, for magnetic beats, and a sad veil covers our eyes perfectly. The experimentation here becomes grazing wisdom, to persevere with the brevity of the chord turn, then giving way to an impressive rhythmic and scenic change, between hisses and dramatic suggestions of the highest level, with incursions of wind instruments that create a terror representative of an impressive genius.



5 - For Want Of


The master echo of the inner drama comes out to smoke: a song that penetrates us through light dark vocal, while the music, compact, leaden, leaden, structures the listening inside Diamanda Galas's manic madness. One sings to hit the air, to irritate and keep the spirits good, like fairies, like devils. Aursjøen impresses, overwhelms us with the way she uses complexity to explode but only in the distance...



6 - Strand


My God. A closing that puts us in a mood, that makes us orphans, as beauty and lightness decide to give birth to an amorphous daughter, stunted and close to an untimely end. A nightmare represented as a contemplative act, a nomadic transport of ancient millenary cultures that find a welcome here, and one weeps, with joy, with joy while everything becomes mute with these vocal prairies that become the only wind on which to deposit our infinite thanks…


Alex Dematteis

Musicshockworld
Salford
7 Novembre 2024

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...