Piero Ciampi - Piero Ciampi
Ma che bella responsabilità assistere al talento, al lavoro, alle qualità di un altro e non fare nulla, se non scendere dentro la polvere aspettando la sua essiccazione. Che cosa strana è l’ascoltatore medio, afflitto dal desiderio di essere felice all’interno della massa per trovare forza, solidarietà, senso e posizione. Tutto ciò gonfia il petto e sgonfia l’apprendimento, atrofizza la genuflessione che non è segno di paura ma di devozione, di uno slancio che sublima il tutto.
Quando nella mente arriva la possibilità di potersi trovare all'appuntamento con la bellezza che sporca le vene, si vive un ascesso del cuore e tutto bolle, ribolle, si amplifica, dilata, spaventa, deterge e assorbe l’incomprensibile e l’inimmaginabile. Questo accade nel momento in cui nelle orecchie della percezione arrivano le corse lente di un maestro senza la laurea, non attribuitagli da un corpo docente sempre più spavaldamente ignorante. Insegnanti del niente che vivono in modo corsaro nelle case di un’Italia sempre più analfabeta, almeno per quanto concerne l’arte di sicuro.
Piero Ciampi è una croce mobile, un tatuaggio dell’altrui sbaglio, un abbaglio da cui fuggire in quanto non esiste la possibilità di un confronto con chi non ha caveau, sogni segreti, racconti segregati nei bauli delle cantine. Lui no, scava, porta e riporta ancora ogni resa che abbia un dettaglio, minimo, che possa respirare nell’inconsapevolezza che fa arrendere il suo talento senza limiti, proprio lui che con essi ha giocato una sfida enorme, vincendola, senza nessuna medaglia sul petto. Canzoni? Per nulla! Siamo davanti a delle pepite, a dei graffi ingestibili, a degli accorati accorgimenti, fallaci in modo stupendo, con una dignità perfettamente legata solamente alla sua identità, e di nessun altro, in un girone unico dove approcciarsi significa immergersi in un buio che riporta in voga il periodo in cui l’uomo scappava solo dentro le corsie del cielo. In questo secondo album l’artista, a cui dare una residenza significa sconfiggerlo definitivamente, compie una serie di imprese capaci di mettere fuorigioco l’ascoltatore, il passante, l’essere perennemente rinchiuso in una stanza, l’intellettuale con la verità in tasca, tritola il sognatore romantico, prende a pugni il metodico, chi è maniacale, chi cerca negli altri domande e risposte. Quattordici anestesie, amnesie, lampi, poesie, afflizioni, contrizioni, fughe sghembe, speranze mute e sorde, esagerazioni per nulla fuorvianti, fantasie come stelle mai come le immaginereste, tavoli e baldorie ipnotiche, sconvolgimenti, assoluzioni, benedizioni, invettive sottili in bianco e nero, favole robuste come carta assorbente. Magneti coi poli ubriachi a confondere la rotta, onde che ascoltano i battiti ribaltandoli nelle illusioni più sconsiderate, amori balbuzienti e sconfitti in anticipo, figli assenti, dolori sempre presenti come gittate ineluttabili, amici da curare come un’anima imprigionata da una ricerca che crea danni a prescindere e tanto altro, in un calvario che spossa e droga chi le ascolta.
Piero trita le convenzioni e, con il lavoro sapiente, elegante, commovente di Gianni Marchetti, le canzoni diventano approcci visivi, metafore e incudini, dove il jazz, il progressive più contenuto e moderato, i respiri leggiadri di un approccio a quella musica classica ancora bacino di ispirazioni, il folk che salta nei luoghi e nel tempo, consentono una variegata parata stilistica, nella quale le combinazioni diventano scintille lente, capaci di essere viste per l’eternità, in cui non è il crescendo che galvanizza ma il dover ascoltare con estrema attenzione. Non è solo nella velocità che si possono sentire fuggire le cose…
Le chitarre acustiche, gli archi, la batteria, il basso sono la base per le scorribande delicate di un pianoforte ribelle, educato alla bellezza senza bavagli, anzi, un foulard rosso che vola sulle note per annettersi alla volta celeste celebrando una natura che, in modo spavaldo, indietreggia e avanza nella storia di impianti musicali non solo italiani, per un delirio che tocca le pareti del cuore.
Una collaborazione tra due geni che fanno dei propri campi espressivi un baluardo, un raggio di azione, un limite, una esasperata e deliziosa libertà di non avere impicci dentro queste flessioni di incanti senza catene. Non c’è nessun compromesso bensì due corpi solidi che, quando vengono uniti, rendono l’ascolto un fiume che bacia il mare senza cambiare il colore della propria pelle. Si piange, ci si sente sgomenti, si ride amaramente, ci si ritrova all’interno di correnti che non ascoltano le altre e si entra nelle diagonali delle stagioni della vita, avvertendo gli enormi grappoli vitali di testi che baciano le fascine musicali per trovare una perfetta definizione della solitudine che vive di transiti, approcci e malinconie che quando escono dalla sua ugola paiono moltitudini senza il fiatone, perennemente in viaggio.
La sincerità è l’impronta digitale di un’anima che non soltanto sonda, scava, ma soprattutto porta alla luce il calore dell’inferno, le sue diramazioni, con l’arguzia di momentanee anestesie, per dare al dolore qualche piccola possibilità di riposo. Piero è un operaio della verità, e, da poeta prestato alla canzone, pone le domande che scomodano l’intellighenzia, le classi sociali meno strutturate alla felicità, e intere categorie di anime intente a essere leggere e che, dopo averlo ascoltato, precipitano nell’onda plumbea del disagio. Pone quesiti dentro storie nelle quali si danza a fianco del peccato, scompone le sicurezze e manda a quel paese il cattivo gusto nel tempo in cui l’Italia vede addormentare la ragione che conduce al vero benessere. Lui spoglia tutto, come gesto di stizza, come atto necessario, inequivocabile, con parole che sono diserbanti naturali, attrezzando paragoni con la vita animale, tra purosangue che avanzano buffamente, conoscendo la metamorfosi e l’inquietudine del cambiamento.
Aleggia nei suoi versi una timidezza fotonica, per riuscire a rendere il pensiero un oggetto, gretto, pesante, adiacente all’impossibile, libero di ingannare ogni tentativo di caccia: solo ai veri poeti è consentito fare questo, spiazzando, come conseguenza, chi si pone di fronte con l’intenzione di capire. È proprio con la poesia che gli studiosi si garantiscono l’ignoranza e il fallimento. Piero Ciampi rifiuta le gabbie e nelle sue parole ci sono i princìpi di Michael Bakunin, la follia di Edgar Allan Poe che cattura l’ignoto, la suadenza di una pellicola muta francese degli anni Venti e le campagne piene di fattorie cadute in miseria. Non le vedi ma le percepisci queste situazioni, in un marasma di ipotesi che lui controlla per renderle inattaccabili. Quando ci si commuove si conosce sempre la perdita e, se esiste un guadagno, è quello di fare della sua esperienza un monito per la nostra.
Crea distanze, sobborghi dove far stagnare le colpe, dando alla inutilità un raggio di azione in cui ci immerge, con la sua risata invecchiata a congelare ogni pseudo entusiasmo.
Un disco purtroppo troppo vero, immenso e immerso in un vapore che solo la stupidità ama veder dissolvere e invece dovremmo farlo divenire una enciclopedia comportamentale e attitudinale che renda gli sbagli scevri della volontà di posizionarsi…
La mancata presenza di una forma canzone insistente fa intendere come costruzione e improvvisazione siano due cardini entrati in contatto per non dare fieno da mangiare alla stupidità crescente che ha inghiottito questa forma artistica popolare. I due insabbiano i trucchi, danno alla magia la bacchetta per essere custode dei segreti e si beffano delle definizioni, compiendo passi da giganti, portando avanti nel tempo quello che ancora oggi non si riesce a intendere. Coniugando il sapere e dando spazio ai guitti, questi artisti hanno trovato il modo di essere spavaldi e irruenti, con uno stile unico, raschiando pellicole di vita in luoghi sospetti, dando dignità a strutture che spesso non venivano considerate, con una sintesi quasi cabarettistica per passare ancora di più come una eruzione folle senza possibilità di essere creduta. Eccoci, quindi, al cospetto di raggi dentro i miraggi di appunti come spartiti nel vento: non lo si cattura e non si cattura questo insieme di canti e note in continuo stato di spostamento, cancellando baricentri e scomponendo le forze per conoscere il colore dell’urto. Sono lividi queste composizioni, sono rantoli, sono il canto di un perdente mentre fa calare la tristezza dentro il pozzo dove i desideri non possono sistemarsi. Piero e Gianni diventano il valzer dell’addio, il jazz che ossida, il blues che è attento a non paventare la sua presenza, per rovistare nelle carni di un pentagramma che sembra spesso uscire dai balli a palchetto degli anni Cinquanta per garantire la memoria e il rispetto. La drammaticità vive, come una forma rinascimentale gravida di allucinazioni: non creano dipendenza se non a chi sta nei loro paraggi per quattordici appuntamenti con l’ampiezza, le offerte, in una scrittura che è pura forma giornalistica, quella che entra nella ricerca di ciò che è vero e reale, per descrivere anche ciò che può voler stare lontano da tutto questo, in un carrozzone mai confusionario bensì preciso, come un intervento che serve a estirpare il cancro più grave di tutti che è l’illusione.
Quando ascolti questo album i libri e la vita si aprono, con riferimenti non sempre ovvi, con stupori, con rimembranze, con citazioni nascoste per legittimare genialità che stuzzicano e invitano gli spari a far fuggire i mediocri, mentre la famiglia, il lavoro, i piaceri vengono condotti nella stanza della resa, per essere meno spavaldi e boriosi. Non alza mai la voce Piero, casomai, raramente, il registro del cantato, sempre come se fosse un atto gentile. È tutto facilmente riassumibile in pochi versi: “Quando t’ho vista seduta accanto a me, le labbra aperte ai suoni del mattino, volevo tacere, porre fine al ricominciare”. Una fucilata poetica disarmante, inequivocabile, che rende le parti unite e disunite, nel gioco perverso di una distanza che vorrebbe essere diversa. Perché nulla della bellezza serve se non viene inseguita con un disagio paralizzante, nutrendo il linguaggio e le immagini di una catarsi che dopo aver spossato il pensiero lo getti nel fango.
Canzoni che rimorchiano, graffiano la vita nell’estate immaginaria di un viaggio dove gli affetti sono abiti che conoscono spesso il ricambio, per sincronizzare i desideri nuovi con quelli privi di luce. La solitudine rende povera solo la parte della pelle che si vede e che Piero ci consente di odorare, tra portate piene di zuccheri e abbracci richiesti.
I sapori sono l’ebbrezza che attraversa lo champagne e il vino rosso, in un tripudio che odora di imbarazzo e necessità che avanzano, in un palco pieno di giornali, goffi movimenti e i dolori a un fianco messi sotto l’occhio di bue per conferire una circonferenza logica al tutto. L’amore nell’album è un arredo che non consola gli occhi, non profuma di pace, attraversa invece lo sconforto, l'inadeguatezza, avvilisce e fa smarrire i sogni, sparge veleni senza rifiutare l'ipotesi di un benessere minimo. Le creature musicali diventano appunti da leggere dopo cena, in modo distratto, durante una passeggiata tra vicoli acclamanti la luce mentre nell’anima il buio si assesta e rovista, per trovare quello smarrimento che spossa e ingigantisce la pigrizia e il pentimento.
Le sue composizioni le viviamo come l’autore nato a Livorno quando per vederci un minimo beve “un litro molto amaro”: uno sconvolgimento necessario per uscire dalla finzione di anime posate, mai in affanno. Ecco che l’eccesso rivela la vera natura della nostra incoscienza.
Una detonazione continua che solamente la poesia del suo vagabondare permette di accettare, perché la pelle ricoperta da quella polvere è la sua: lui riesce a farci provare l’incanto di questa visione lasciando alla nostra coscienza la facoltà di decidere se sia una colpa o meno.
Quando ci troviamo nei sogni di una donna con la follia esibita nei suoi versi, il brano riesce a regnare, a diffondere le note di un piano di New Orleans e a farci ritrovare fuori zona, fuori luogo e fuori dal tempo, come la magia sa fare senza balbuzie.
Conosce, questo sipario mobile, la modalità che rifiuta di divenire un’attrazione, dando ai versi il potere di spostare i bisogni, senza la possibilità di riconoscersi, per rendere la sua e la nostra solitudine incompatibili.
Gli archi sembrano prendere questo potere per esaltarlo, in voli e danze che sfiorano l’epicentro di un terremoto nel cuore dell’universo, lontano anni luce dal nostro comprendere.
La vera genialità non comprende condivisione, rendendo ancora più cruda la distanza delle differenze: l’album più intenso, perverso, incandescente, libertario, raccapricciante nell’accezione positiva, più seducente e pesante di tutti gli anni Settanta e, probabilmente, non solo.
L’unico augurio che possa fare il Vecchio Scriba è di fare una grande indigestione di questo raro capolavoro globale e di soffrire di spasmi che conducano alla grande verità: “è successo un fatto strano” e siamo ancora qui a non capire quale sia, dentro una meravigliosa merda…