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mercoledì 31 agosto 2022

La mia Recensione: Death In June - Nada!

 Death in June - Nada!


C’erano un tempo, che sembra lontanissimo, piccole botteghe dove l’aspetto del lavoro artigianale, oltre a connettere caratteristiche romantiche e uniche, constava di passione e specificità che non facevano parte della metodologia industriale. 

In una di queste un numero ristretto di esseri umani dall’impeto ribelle e dissacratorio escogitavano teorie esistenziali e suoni molteplici, legati comunque a sonorità post-punk. Il loro breve percorso bastò per incendiare menti esigenti e affamate di oblique propensioni contenenti pillole di cattiverie camuffate ad arte. Un progetto che rapidamente prese una direzione diversa, essendosi affidato alla geniale creatività di sole due anime: Douglas Pearce e Patrick Leagas, due fiaccole di creatività dal DNA davvero distante, ma capaci con il loro effettivo secondo album di tracciare semi che da una parte germoglieranno nella creatura del solitario Douglas e dall’altra vedranno Patrick ideare e formare i Sixth Comm.

Ecco allora una freschezza contagiosa che si dirama per volontà, possibilità, capacità di creare una piramide sghemba ma assolutamente in grado di suscitare furori passionali di gemme ancora splendenti in un oggi dove la solitudine, la disperazione, la distruzione rappresentano maggiormente il segno di una attualità soffocante.


Il lavoro è un insieme di masse nichiliste moventi, un arcipelago di follie tenute ferme con lo scotch e l’intenzione di fissare poliedriche onde di depressione dalla matrice nostalgica. 


Le personalità dei due sembrano creare un lavoro diviso, dove ognuno dipinge la propria propensione con caratteristiche distanti ma che possono amalgamarsi magicamente all’ascolto, come un unicum siderale e potente. Lacerazioni continue che fanno rimbalzare le emotività distribuendole nei vari meandri Darkwave e Industrial con l’avanguardia che riassume il tutto mediante la propria volontà di scatenare gli animi in un incendio emotivo impressionante.


Album davvero seminale, capace di espandere flussi di magnetica propensione alla miscela di icone, di movimenti dove i paradossi vengono anestetizzati, e nel quale tutto converge verso un amalgama che compatta la fine degli anni ’70 alla prima parte degli ’80, in un collage dove progettualità, ispirazione e dinamismo sonoro sono stati capaci di far conoscere una modalità diversa di fare musica. Grazie anche alla supervisione di David Tibet, questo smeraldo dal color tenebra riesce a vivere di trasformazioni continue, un crocevia dove trova posto la techno pop dance assemblata con scintille minime di post-punk, con l’affacciarsi di quel neo-folk che dall’album successivo sarà sempre più presente. I testi vivono di picchi assoluti ma anche di qualche banalità: quest’ultime spariranno definitivamente dal prossimo lavoro. La matrice industrial mostra timidamente le sue pulsioni e tutto ciò è dovuto a Patrick, l’unico davvero desideroso di inserirlo in questo episodio che è comunque capace di un range stilistico impressionante. 


I due però sono stati in grado di essere manovratori calibrati di magie e tragedie, di cavalcate apocalittiche, di saper affascinare per questo calvario musicale nel tempo della dispersione dei valori umani, contribuendo a suggerire riflessioni e studi che, partendo dalla storia fatta di eccessi, ha trovato equilibrio in claustrofobici dettagli.

Con la loro musica si è inscatolati tra tripudi emotivi e pensieri che stremano, con la fatica che diventa una preziosa alleata per tenere allenate le tensioni: con Nada! siamo nel ventaglio che diventa il dettaglio dei loro forzieri, in una palestra dove allenare la nostra flessibilità per poter accettare l’ampiezza di proposte intense e folgoranti.

Tutto sembra estetismo, gloriosa e manifesta intenzione di far echeggiare la potenza del fallimento umano, con la violenza e l’operazione a farci sentire in una cella nel giardino delle torture future. Come se l’ossigeno non fosse l’elemento più indispensabile delle nostre esistenze, i due sono stati capaci di buttarci dentro tonnellate di vapori acquei, annebbiando la nostra positività e propensione alla serenità. Dieci sono i riflessi di questo diamante ondivago e sfuggente, che ci fanno galleggiare tra l’oceano e la tenebra invocata con sollecitudine e potenza.


Sono pazzie cucite sulla pelle queste canzoni, una lampada a petrolio di infinita bellezza, con una forza tellurica notevole atta a sconquassare sistemi di appassita qualità del vivere, in una frustata di effervescente propensione all’urto sensoriale: i due sono stati intensi e pieni di carburanti  più che mai tossici, per poter far impallidire le nostre stanche inquietudini.

Nada! è la nuda e cruda allergia a ciò che è noto, risaputo e stanco, un calcio alle caviglie che sa rendere tiepide le nostre doloranti lamentele.

Se la disgregazione può essere la terra di una rinascita compiuta ed efficace, ecco che questo lavoro diventa il viatico di speranze di nero vestite per allarmare la nostra bocca con gusti incatramati e acidi, ma dopo la digestione di questi diamanti un senso di eterna purezza saprà rendere più sereno il nostro vagare. 

Il piano visionario del progetto esercita dipendenza, in una cascata di elementi che sembrano legati ad una disciplina dalla gestazione complessa ma redditizia, facendo tremare il cuore, con stati di agitazione appiccicati ai gangli della base come i genitori di una malattia degenerativa che conduce al sorriso macabro e succulento. Si possono trarre deduzioni e conclusioni, ma queste composizioni sanno come indurci all’insicurezza e a ogni ascolto tutto sembra franare, mentre una sensazione di sudditanza psicologica ci scarta e strappa la mente per condurci dentro una dipendenza carnale e non salvifica: sono peccati mortali a cui noi possiamo solo arrenderci con illuminata convinzione.

Stazionare in questa palude dalle scintille atomiche ci riporta alla sensazione di una guerra che drappeggia i sensi di antichi sogni quasi malefici e dissacratori, nel contesto di un freddo interiore che brucia i pensieri: Nada! scavalca la comprensione e come una deflagrazione interrotta ci riduce a brandelli sparsi nel potere magico di una follia oncologica.

Sono mari di introspezione visiva e letterale quelli che sgorgano dalla penna di Douglas: la bassezza e il declino del mondo qui hanno ancora una maschera, che verrà tolta e sostituita nel giro di poco tempo. Intanto apprendiamo come la musica, soprattutto dove è Patrick al timone, abbia molto spazio e questo conduce il combo a trovare bilanciamenti che, quando è Douglas a scrivere, propendono verso parole più copiose e pregne di luce soffocante e tetra. Non siamo a livelli di dualità o di una separazione forzata in casa, bensì nel territorio dove intelligenze, propensioni e sensibilità diverse sono il perimetro in cui estrarre dalla melma il materiale che dai due, conviene specificarlo, è bene amalgamato. Si è comunque all’interno di specchi che invece di riflettere le altrui capacità gettano ombre che si amano in ogni caso, senza difficoltà. Spruzzate di psichedelia dal mantello affettato di graffi e grumi sanguigni conferiscono al progetto un’aura quasi biblica, con leggero rimando al periodo più nebuloso di quella corrente musicale, sponda Londinese.

Concludendo: un esempio di come certe unicità abbiano solo apparentemente vita breve, possedendo invece, tra le pieghe del mistero, tutta la motivazione e la capacità di trasferirsi nel futuro per vivere la maestosità dell’eternità.



Song by Song 


The Honour of Silence


Semi di neo-folk creano l’avamposto e il cielo diventa una lampada scossa dai tamburi, gli arrangiamenti da film western trovano residenza in una tromba che sublima il senso apocalittico di una vicenda che vuole onorare il silenzio. Le fondamenta del futuro di Douglas Pierce sono rese evidenti in questo brano, che suona tra il sepolcro e la volta celeste.



The Calling (Mk II)


Patrick canta sul brano dalla più evidente propensione elettronica dell’album, in modalità Evocazione accesa: qualcosa di sacro si impasta con le sonorità provenienti dalla Germania per un risultato di cupa bellezza, su innesti industrial che contemplano una chitarra acustica, mentre la danza ci rende ingobbiti. 



Leper Lord


Douglas diviene un arciere medievale, capace di melodie vocali vibranti, baritonali con propensione a salire verso la volta celeste. Sono gli angeli che lo invocano in questo breve brano che spalanca la notte per udire le creature piangere.



Rain of Despair


È una convulsa e quasi techno danza a farci vibrare sulle rive ipnotiche del canto, cantilena che causa dipendenza e trasporto, per farci notare come il loop di Fields sia stato scarnificato all’insegna di una magnetica espressione industrial.



Foretold 


In una stanza, dove un’introduzione quasi in odore di funzione religiosa dipinge le pareti di cupezza, echi di Kraftwerk provano l’approccio ma poi la via percorsa è quella della fuga e dello spostamento verso un cabaret dalle unghie nere, con la voce di Douglas che sembra invocare intensamente divinità dai volti osceni. Brano dall’inclinazione ebm rallentata, fenomenale ed evocativa.



Behind the Rose (Fields of Rape)


Funghi allucinogeni approcciano il folk contaminando gli umori e le movenze: altro brano simbolo dell’enfasi del nuovo sacerdote delle terre perdute, dove il tempo è un vuoto in cui perdere ogni coscienza. Gli arrangiamenti sono l’esempio di accurate perlustrazioni verso un’estetica antica, con le voci tenute leggermente a bagno nell’eco e nel riverbero. 



She Said Destroy


Fulmini, ancora, per entrare nell’oscurità con una melodia scarna ma efficace, dove ogni ritrosia collassa davanti a questo nuovo diamante pieno di decadenza e furore ammaestrato, per condurci al tempio dove si contemplano fiori essiccati e la bellezza dell’assenza della luce. E anche su questo brano migliaia di nuovi discepoli metteranno le mani per estrapolarne i segreti.



Carousel


Ecco il tappeto del mistero che viaggia tra dosi generose di groove elettronici dal ghigno ipnotico e la polvere settecentesca tirata fuori da una nuvola addormentata, appoggiata alla chitarra e a trombe evocative. Il cantato sembra essere uscito da un Marc Almond innamorato e incantato dalla sequenza di bugie e peccati.



C’est Un Rêve


Stridori, graffi e scintille di lacrime, unite al vociare caotico di ansie abbondanti sono il preludio di questo cuore nero evocato e trovato: la claustrofobica danza che ne consegue è un bouquet di follie severe e ordinate per dare in compattezza la sensazione di una doverosa prigionia sensoriale.



Crush My Love


Si conclude l’ascolto del diamante a dieci facce con l’incantevole Crush My Love, paranoica esibizione di confusione dei raggi lunari in cerca del sonno definitivo. Tra la Francia ipnotizzata degli anni ’60 ai vapori dei Can, con spruzzate psichedeliche ammalianti, la canzone rende evidente l’ampiezza dell’antenna del pianeta Death in June che trasmette frequenze colme di suggestioni e brividi congelati.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1 Settembre 2022


https://www.youtube.com/watch?v=RwtE_PJB4rI&t=18s





My Review: Death In June - Nada!

 My Review:


Death in June - Nada!


Once upon a time, which seems so far away, there were small workshops where the craftsmanship aspect, besides connecting romantic and unique features, consisted of passion and specificity that were not part of the industrial methodology. 

In one of these, a small number of human beings with a rebellious and desecrating enthusiasm came up with existential theories and multiple sounds, linked in any case to post-punk sounds. Their short journey was enough to set on fire demanding minds hungry for oblique propensities containing pills of artfully disguised wickedness. A project that quickly took a different direction, having been entrusted to the brilliant creativity of only two souls: Douglas Pearce and Patrick Leagas, two torches of creativity with truly distant DNA, but capable with their actual second album of sowing seeds that on the one hand will germinate becoming the creature of the solitary Douglas and on the other will see Patrick conceive and form Sixth Comm.

Here there is a contagious freshness that branches off in willpower, possibility and the ability to create a pyramid that is outlandish but absolutely capable of arousing a passionate fury of still-shining gems in a today where loneliness, despair and destruction are more the sign of a suffocating actuality.


This work is a collection of moving nihilistic masses, a collection of follies held in place with tape and the intention to fix polyhedral waves of depression with a nostalgic matrix. 


The personalities of the two guys seems to create a divided work, where each one paints their own propensity with distant characteristics that can magically amalgamate through listening, like a sidereal and powerful unicum. Continuous lacerations that make emotions bounce, distributing them in the various Darkwave and Industrial meanders, with the avant-garde summing it all up through its own will to inflame minds in an impressive emotional fire.


A truly seminal album, capable of expanding streams of magnetic propensity for mixing icons, movements where paradoxes are anaesthetised, and in which everything converges towards an amalgam that compacts the end of the 70s to the first part of the 80s, in a collage where planning, inspiration and sonic dynamism were able to introduce a different way of making music. Thanks in part to David Tibet's supervision, this dark-coloured emerald manages to live through continuous transformations, a melting pot where techno pop dance assembled with minimal sparks of post-punk is placed, with the emergence of that neo-folk that from the following record will be increasingly present. The lyrics have absolute peaks but also some banality: the latter will definitively disappear from the next work. The industrial matrix timidly shows its impulses and this is all due to Patrick, the only one really eager to include it in this episode, which is nevertheless capable of an impressive stylistic range. 

The two, however, have been able to be calibrated operators of magic and tragedy, of apocalyptic rides, of knowing how to fascinate through this musical ordeal in the time of the dispersion of human values, contributing to suggest reflections and studies that, starting from history made of excesses, have found balance in claustrophobic details.

With their music, one is boxed in amongst emotional jubilations and thoughts capable of exhausting, with fatigue becoming a precious ally to keep tensions trained: with Nada! we are in the fan that becomes the detail of their coffers, in a gymnasium where we train our flexibility to be able to accept the abundance of intense and dazzling proposals.

Everything seems like aestheticism, a glorious and manifest intention to echo the power of human failure, with violence and operation making us feel we are in a cell in the garden of future torture. As if oxygen was not the most indispensable element of our existences, the two were able to throw us inside tons of watery vapours, clouding our positivity and propensity for serenity. Ten are the reflections of this wandering and elusive diamond, floating us through the ocean and the darkness invoked with solicitude and power.


These song are madness sewn on the skin, an oil lamp of infinite beauty, with a remarkable telluric force capable of disrupting systems of withered quality of living, in a whiplash of effervescent sensory impact: the two were intense and full of more than ever toxic fuels to make our tired anxieties pale.

Nada! is the naked and raw allergy to what is known and tired, a kick in the ankles that is able to make our aching complaints tepid.

If disintegration can be the land of an accomplished and effective rebirth, then this work becomes the viaticum of black-clad hopes to alarm our mouths with tarry and sour tastes, but after digesting these diamonds a sense of eternal purity will know how to make our wandering more serene. 

The visionary plan of the project is addictive, in a cascade of elements that seem to be linked to a discipline with a complex but profitable gestation, making the heart tremble, with states of agitation clinging to the basal ganglia like the parents of a degenerative disease that leads to a macabre and succulent smile. Deductions and conclusions can be drawn, but these compositions are capable of inducing us to insecurity, and with each listen everything seems to fall apart, as a feeling of psychological subservience tears our minds to lead us into a carnal and unsalvageable addiction: these are mortal sins to which we can only surrender with enlightened conviction.

Standing in this swamp of atomic sparks brings us back to the sensation of a war that drapes the senses in ancient, almost malefic and desecrating dreams, in the context of an inner cold that burns the thoughts: Nada! bypasses comprehension and like an interrupted deflagration reduces us to scattered shreds in the magical power of an oncological madness.

The ones that flow from Douglas’s pen are seas of visual and literal introspection: the baseness and decline of the world here still have a mask, which will be removed and replaced within a short time. Meanwhile, we learn how music, especially where Patrick is at the helm, has a lot of space and this leads the combo to find balances that, when Douglas is writing, are leaning towards more copious words full of suffocating, gloomy light. We are not at the level of duality or a forced separation at home, but rather in the territory where different intelligences, propensities and sensibilities are the perimeter in which to extract from the sludge the material that by the two guys, it should be specified, is well amalgamated. One finds oneself, however, inside mirrors that instead of reflecting each other's abilities cast shadows that one loves in any case, without difficulty. Sprinklings of psychedelia with a cloak full of scratches and bloody lumps give the project an almost biblical aura, with a slight reference to the most nebulous period of that musical current, the London bank.

In conclusion: an example of how certain uniquenesses are only apparently short-lived, possessing instead, between the folds of mystery, all the motivation and capacity to move into the future in order to experience the majesty of eternity.



Song by Song 


The Honour of Silence


Seeds of neo-folk create the outpost and the sky becomes a lamp shaken by drums, the western-style movie arrangements find residence in a trumpet that sublimates the apocalyptic sense of a story that wants to honour silence. The foundations of Douglas Pierce's future are made evident in this track, which sounds between the sepulchre and the vault of heaven.



The Calling (Mk II)


Patrick sings on the most electronically inclined track of the album, with evocation mode switched on: something sacred is mixed with sounds from Germany for a result of gloomy beauty, over industrial implants that contemplate an acoustic guitar, while the dance curves our backs. 



Leper Lord


Douglas becomes a medieval archer, capable of vibrant, baritone vocal melodies with a propensity to soar towards the celestial vault. The angels invoke him in this short track which opens up the night to hear creatures weep.



Rain of Despair


It is a convulsive, almost techno dance that makes us vibrate on the hypnotic banks of the song, an addictive, transporting chant, to push us to notice how Fields' loop has been reduced to the essential in the name of a magnetic industrial expression.



Foretold 


In a room, where an introduction almost smelling of a religious service paints the walls with gloom, echoes of Kraftwerk try the approach, but then the path taken is the one of escape and displacement towards a black-nailed cabaret, with Douglas's voice seeming to invoke intensely obscene-faced gods. A track with a slowed-down ebm inclination, phenomenal and evocative.



Behind the Rose (Fields of Rape)


Hallucinogenic mushrooms approach folk contaminating moods and movements: another track symbolising the emphasis of the new priest of the lost lands, where time is a void in which all consciousness is lost. The arrangements are an example of accurate explorations towards an ancient aesthetic, with the voices kept lightly bathed in echo and reverberation. 



She Said Destroy


Lightning, again, to enter the darkness with a thin but effective melody, where all reluctance collapses before this new diamond full of decadence and trained fury, to lead us to the temple where dried flowers and the beauty of the absence of light are contemplated. And on this track, too, thousands of new disciples will get their hands to extract its secrets.



Carousel


Here is the carpet of mystery that travels through generous doses of electronic grooves with a hypnotic grin and eighteenth-century dust pulled out of a sleeping cloud, backed by the guitar and evocative trumpets. Vocals seem to have come out of a Marc Almond in love and enchanted by the sequence of lies and sins.



C'est Un Rêve


Shrieks, scratches and sparks of tears, combined with the chaotic clamour of abundant anxieties are the prelude to this black heart evoked and found: the claustrophobic dance that follows is a bouquet of a severe and ordered madness to convey the feeling of a dutiful sensory imprisonment.



Crush My Love


We conclude our listening of this ten-sided diamond with the enchanting Crush My Love, a paranoid display of moonbeam confusion in search of the ultimate sleep. Between the hypnotised France of the 60s to the vapours of Can, with charming psychedelic sprinklings, the song makes clear the amplitude of the antenna of Planet Death in June, which transmits frequencies full of suggestions and frozen shivers.


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

1st September 2022


https://www.youtube.com/watch?v=RwtE_PJB4rI&t=18s




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