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giovedì 24 novembre 2022

La mia Recensione: carillon del dolore - fiori malsani

La mia Recensione:


carillon del dolore - fiori malsani 


“Fa parte delle imperfezioni e delle rinunce della vita umana il fatto che la nostra infanzia debba diventarci estranea e cadere nell’oblio, come un tesoro sfuggito a mani che giocavano, e precipitato in un pozzo profondo.”


Herman Hesse


Qualcosa di eterno vive nel dolore, nella corsia cattiva di ogni oblio, nella supremazia del male che rappresenta l’uccisione dell’esistenza.

A una città in particolare tocca il triste primato di simboleggiare perfettamente tutto questo ed è quella nativa dello scriba: la maliziosa e velenosa Roma, la Regina di nefandezze, turpiloqui, devastazioni, colei che ha rubato il sole solamente per mostrare gli incanti illusori della bellezza, mentre nei sotterranei della sua mente scorrevano getti di morte senza chiusura.

Non sorprende che la band più significativa della capitale sia un riflesso fenomenale di antichi riti e quindi rilevante e sublime per questa contemporaneità ignorante che rifiuta la conoscenza e la coscienza del vero.

Questo serpente dal veleno incestuoso optò per un nome stratosferico, un’ottima potenza conquistatrice: già, è insito nel dna che al destino non si possa porre opposizione. Perfetto, per spalancare il cuore verso capricci di bisogni impestati, i ragazzi iniziarono proprio da quell’aspetto fondamentale, una attrazione fatale, obliqua, spigolosa, morbosa, cadaverica. 

Provenienti da due formazioni diverse, iniziarono subito a mettere le mani sulle frattaglie di pozioni lancinanti di scarnificazioni dal puzzo angelico nero, senza dubbi, per distinguere ogni atomo di melmosa illusione. Dovevano trafficare con ciò che suona perverso, ricoperto dalla pesantezza che schiaffeggia, ferisce, uccide.

Misero in atto una processione del suono, una facilità di note grasse e sgraziate, perfettamente allineate al selvaggio senso di soffocamento, nel vuoto cosmico di esistenze lamentose, come un vascello dai buchi pieni di sangue, naturalmente annerito e puzzolente. Sicuramente davano fastidio senza curarsi di verificare: come sacerdoti menefreghisti dovevano continuare a professare il verbo del dolore, dipingendo le note di una malattia incurabile. Fu proprio questo esordio il momento della più grande esibizione di classe marmorea del loro breve ma intenso percorso: sebbene la stragrande maggioranza abbia preferito l’Ep “Trasfigurazione”, lo scriba definisce invece “fiori malsani” il loro tempio perfetto, per la purezza vomitata senza eccessi di bravura tecnica e di produzione, ma con l’indiscutibile capacità di mostrare un talento puro, con la giusta dose di contaminazioni. Ancora capaci di non dover necessitare di termini di paragoni ingombranti, offensivi, limitativi e dannosi, tutto ciò che sta al suo interno è una fragorosa bomba sensoriale che trafigge la pelle e la mortifica.

Con un prologo e sei vere e proprie successive lame metalliche a completare quella che allora fu una uscita su cassetta, l’album permise alla band di trovare martelli come puntine da disegno con le quali graffiare la scena gotica italiana avvezza al copia e incolla. Lo fecero pure loro nel secondo lavoro, poco male: qui si trova il Sacro Graal della band capitolina, il suolo consacrato all’eternità che, come sappiamo bene, è l’unica perfezione che qualifica qualsiasi cosa e qualsiasi presenza umana. I suoni sono gli avamposti di inclinazioni atti ad attivare reazioni immediate, con le future architetture melodiche a definire la loro validità, tra devastazione e diabolico piacere. Quote di raffinatezza raggiungono i sepolcri del cielo, attraverso un filo diretto con i corpi mefistofelici del centro del pianeta Terra, in una congiunzione funzionale e sequestratrice. Sono scintillii, lucidi, metallici, che schiacciano le adenoidi e i respiri, un funerale con i nostri corpi ancora in vita ma pronti a scendere nell’abisso. 

Questo lavoro mette distanze, si separa dal flagello imitativo e proprio per questo motivo riesce a sostenere, come calamita impavida e crudele, un esercito che arriva come il prodotto dei due fratelli fondatori di quel delirio senza catene che è Roma.

Si scavalcano i generi, si oltrepassa il confine di ogni limite interpretativo e ci si libera di ogni zavorra: tutto si fa sudore, lacrima, confusione, annettendo il libero arbitrio che sfugge alla dipendenza, all’interno della nostra sconfitta, perché si finisce per adorare il tutto, dando loro, in modo manifesto, il più gonfio dei trionfi.

Ascolti queste canzoni come se avessi la consapevolezza della velocità di trasformazione della nicotina in un mare di petrolio che velocemente arriva ai tuoi gangli della base: rischi una malattia degenerativa, per diventare succube di uno strazio in grado di rendere il tuo apparato uditivo uno schiavo nero, gotico, preso a calci.

Il drumming è l’ingresso del precipizio, con memoria post-punk di manifeste influenze, in grado di un punto di contatto, come il soffio divino rappresentato nell’affresco di Michelangelo Buonarroti all’interno della Cappella Sistina, e le chitarre sono oscene rappresentanti della ferita mentale della storia dell’uomo. Un delirio di perfezione che rallegra seppur in mancanza di ossigeno. Ed è il festival del rumore che danza tra accordi e pulsioni estorte, nella via crucis obbligatoria di uno stordimento continuo. Carillon del Dolore è un bambino che sconfigge la vita sin da subito, non spreca il tempo e comincia ad assassinare i sogni, usando la fantasia per creare campi magnetici, e non immaginifici, per sconfiggere il pietoso mondo adulto.

In questo album più che canzoni troviamo compartimenti stagni di suoni continuativi, dove ciò che emerge è il senso e non il vestito semplicistico e fuorviante di schemi volti a differenziare le creazioni. I Romani giocano sporco, vogliono spaccare il sistema dell’omogeneità, del catalogabile, del già sentito, e salgono sul palcoscenico di un teatro temporale per massacrare la canzone: un omicidio dove gli strumenti sono alleati fedeli di un nichilismo che forma intelligenze innegabili, solitarie, chiuse in loro stesse mentre ci aprono le carni. 

In seguito arrivò l’attrazione per la già nota forma Deathrock, eleggendo i Christian Death come i loro Vangeli apocrifi, da cui attingere e apprendere. 

Qui no.

Qui, nel volume macabro che non abbisogna di maestri, sono loro stessi gli insegnanti che hanno sviluppato studi, teorie, esercitando il potere di uno stupore continuo, abrasivo, pelvico, senza possibilità di smorzare la loro forza.

L’Italia musicale, agli inizi degli anni ’80, importatrice schiava dell’assenza di uno spirito di avanguardia necessario (ormai da molto tempo), non poteva meritare questa effervescente dimostrazione di genialità e originalità, e li ha condannati al culto di una minoranza che però non si è lamentata: ancora oggi questa band genera cupe propensioni adoranti, rendendo ridicolo il potere dell’industria musicale e di gran parte di quella editoriale del settore, che ha sempre mostrato un colpevole disinteresse. 

Poche eccezioni: espressioni di un tutto vergognoso.

Nello scenario vacuo italiano, i Carillon del Dolore diventano angeli che, dall’alto di tenebre temute, allacciano un discorso per le anime vogliose di perlustrare i confini laceranti di ascolti massacranti che pochi volevano sperimentare: tutto trova esaltazione proprio all’interno di “fiori malsani”, un sisma di cui l’informazione ha voluto tacitare l’esistenza, perché la democrazia si prefigge solo e sempre di portare il finto bene e, quando si parla di cronaca nera, solo un ammasso di uccisioni ahimè convenzionali. Ma questo plasma nerastro abita altre forme sinistre, evoca l’intollerabile, e già per questo motivo entra nei territori pieni di ringraziamento dello scriba. 

La voce e il cantato in questo primo episodio è l’autoscontro immediato tra la comodità e la fascinazione del ventre verso poltiglie che stimolano reazioni adoranti e piene di piacevole disagio. 

Prendete le vostre contorte curiosità e prestate attenzione: si va nel petrolio emozionale dipinto di nero, per meglio conoscere queste sette spade insanguinate.


Song by Song 


1 Prologo 


Quarantanove secondi usciti da frammenti di luce di un film di Mario Bava per creare la tensione sinistra di una ninnananna di malate vicissitudini a noi segrete. Il crooning è ipnosi e le note che appaiono giocano con l’ombra.



2 A Kind Of Love/A Kind Of Hate


Tra Death in June e Super Heroines, inizia il colloquio sonoro di chitarre come frecce bagnate nei pressi di pendii di allucinanti pendenze e tamburi medievali ricoperti di molecole infette di peste bubbonica. Grida come code di lamenti e non resta che farsi trasportare dal vorticoso ritmo che accelera ogni paura.



3 On A Poetic Morning 


La pioggia invita il binomio basso e chitarra a fare della batteria una tempesta di lampi accaldati con la voce lamentosa che sembra un malevolo sottofondo. I Virgin Prunes mediterranei suonerebbero in questo modo, con la frustrante sensazione che la canzone sia il luogo della nostra totale devozione. Giungono chitarre come strali perpetui a rinsaldare il legame come una sezione ritmica avvelenata.



4 R.H.S.


L’episodio più “convenzionale” dell’album si apre con una chitarra semiacustica sorprendente per poi condurre il brano nello schema Darkwave, ma con il marchio di fabbrica di piccole schegge deathrock che preparano la base futura della band. È caos ragionato perché melodico quanta basta per consentire spazi di un classicismo che, in mano a questi suoni, incanta.



5 Elegy For A Friend


La malata esibizione di una classe hors catégorie è composta di metalli fuori dagli amplificatori, sbigottiti dai vortici di greche rimembranze, che sfidano Roma la spavalda. Il cantato è un processo di depurazione che consente alla sezione ritmica uno spazio che si alterna per rendere il brano omogeneo. Ed è San Francisco nel tempio gotico che aspetta la cugina Los Angeles, per un banchetto sonoro che lascia bava ai lati della bocca.



6 Crawling Over The Window (Just Like A Fly)


Non mancano i Joy Division portati al manicomio, bloccati da catene pesanti, la voce si esibisce da molto lontano, con timidezza, ma le tonsille sono graffianti ed efficaci. Una cantilena uscita dalla porta dell’inferno, una trascinata zoppia gotica che isola la voglia di vivere, schiacciata dal drumming post-punk imbevuto di sale e dal basso che pare una percussione a sua volta.



7 Pain


I capolavori sono vestiti spesso di piccoli cenni, contemplano la lentezza e la precisione, tutelano ogni spreco con l’abbondanza di drammi rappresentata da una parata di codici. Si può essere adulti solo quando il dolore separa il sogno dai bisogni e questo accade nella presente voluminosa dimostrazione di crateri che si sciolgono davanti alla classe di questi ragazzi dai respiri imbrattati di morte. È acidità gotica che esce dalle catacombe romane per immobilizzare il benessere e scatenare le corsie della sofferenza, sempre in una modalità lenta, al fine di assicurare la riuscita, per poi lanciare la sfida con accelerazioni che portano la mente e i corpi nel precipizio che aspetta travolto dal godimento. Qui regna la Roma del dolore e qui inizia la nostra gioia.

Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Novembre 2022 




sabato 26 marzo 2022

La mia Recensione: La Grazia Obliqua - Canzoni d'amore e morte e altri eventi accidentali

 La mia Recensione 


La Grazia Obliqua - Canzoni d'amore e morte e altri eventi accidentali


Roma, la Divina pigra dai gioielli sempre capaci di uscire dal suo ventre.

Roma, guardatela bene: lì il fato incide sulla volontà e combatte il silenzio con la sua propria luce cupa.

Roma, che spruzza acqua dentro i crateri neri del mondo che ruota attorno alla tragedia, sa ancora partorire angeli dai vestiti scuri senza per questo essere carnefici.

Dagli alberi pieni di ossigeno antico arriva La Grazia Obliqua, un combo che entra a contatto con la drammaticità e l’intelligenza portando a sé personaggi colmi di bellezza e valore, per poter percorrere le catacombe della superficie romana, spostando spesso anche i confini di questa volontà.

La loro musica è uno splendido stratagemma: come Maestri di parole e pensieri disposti ad essere lame di luce, si tuffano in suoni che partendo dal neo-folk rivisitato e corretto, galleggiano nell’art wave che seduce e la Darkwave che supporta quelle pesantezze inevitabili che devono emergere.

L’atmosfera permea il fiato di stupore e un’allegria che fanno i conti con la gravità del tempo, ma tutto è sostenibile perché streghe e maghi convivono lasciandosi in vita: è magia quella che sentiamo e che vediamo, come una cascata che prima di tutto pulisce le ferite e poi regala sogni.


E come i lasciti di una antica pergamena, i ragazzi romani raccolgono i silenzi ed i loro segreti per usare le mani come abili sirene che sanno uccidere la morte al fine di sedurre per l’eternità.

Michael Nyman, Philip Glass, Brian Eno sembrano i guardiani del loro suono, uniti nel consenso: la band ha una spiccata personalità che permette loro di navigare tra i generi musicali senza però lasciare orme evidenti, come ladri legalizzati solo per pochi attimi perché poi nel loro granaio la farina è prodotta da loro.

Canzoni come rifugio cristallino di un ritmo che si coniuga alla melodia con sapienza, dove la qualità regna indisturbata: non vi è rumore bensì luce che irradia forze deboli tremanti, come se tutto venisse messo su un palco e ad illuminarlo fosse il mistero della neve che canta parole cariche di sabbia africana.

La crescente oscurità che invece di terrorizzare consola, laddove l’intimità diventa la dolcezza di tragedie che mostrano il fianco, fa di questo album un rosario senza spine sul capo ma nello spazio sconfinato dei pensieri possiamo trovare tutto il dolore.

La forza espressiva raggiunge vette strazianti e si può toccare con mano ciò che è leggiadro e onirico, come se le melodie e le impalcature sonore fossero alleati per portare il sentimento di perdita che è francobollato sulla pelle di questo album.


Un’opera eclettica, fluida, peccaminosa e vorticosa, che si espande e offre mazzi di fiori dai petali dorati, usando la lentezza come il bacio ingannevole di un’epoca che da sempre soffia sulla capitale.

Andiamo ora ad aprire la pergamena, saremo Patrizi e Plebei con disagi moderni. Un po’ d’uva sulle mani e poi via: si va a mangiare la bellezza…



Canzone per canzone



Antro/ The meeting room


Come una fiaba musicale eseguita da Douglas Pierce (che troveremo più avanti), con il recitativo di Alessandro Bellotta (potrebbe starci il paragone con Emidio Clementi dei Massimo Volume, ma si rivela subito inappropriato) tutto vibra per poter essere sbalzato via da Alessandra Trinity Bersiani. Con il suo ingresso la musica cambia e tutto si fa lunare, sospeso e sensuale. E questo incrocio tra le due parti scivola via con un sottofondo elettronico sublime. Come una puntura a calmare le paure, il brano apre in modo sinuoso le telluriche ma lente danze.




L’ultimo sipario 


La Germania si impone: Kraftwerk e Daf, con il mistero degli altrettanto seminali NamNamBulu, e i Rammstein più melodici fanno da padrini a questa guerra, con il cielo che viene colpito a sangue da un testo magnifico per immagini, grondante silenzi che quietano ogni impeto. Il solo finale di chitarra ci porta il rock progressive dei Gonge alla mente e lo Space Rock per indurire il tutto in generosa abbondanza.



Landscapes (reanimated)


Roma si alza per andare a ballare: le vesti sono composte di seta color piombo, passi pesanti, la scia di suono che segue la scena per fare di questo brano l’eco lontano dei Camouflage inzuppati di inquietudine, tra beat elettronici e aperture improvvise nel ritornello. Qualcosa di soffice avanza, ma c’è sempre questa piacevole sensazione di una canzone che vuole inchiodare, lentamente, la disgrazia del mondo sulla croce. Il Synthpop pare timido, ma riesce ad ossigenare le vesti e a condurre il tutto verso la nebbia che protegge il groppo in gola.



Fall Apart 


I ragazzi romani sono coraggiosi: sfidano la sacra terra dei Death in June con una versione di Fall Apart. Operazione che mi lascia intellettualmente non d’accordo: avrei preferito un altro loro brano.

Però apprezzo la capacità di farle indossare una veste meno sacra e più intima, sospesa sin dall’inizio dall’elettronica che crea pathos e toglie alla chitarra acustica quella tensione che era la peculiarità del brano, insieme al testo. Qui invece musicalmente tutto si fa più complesso risultando interessante e le voci sono due che saltuariamente si accavallano creando una malinconica suggestione.



Prima del diluvio


La bellezza di un piano che sembra suonato dalle dita di un Paolo Conte di buon umore e che attraversa le notti ed il fumo di una bisca clandestina di Detroit lascia velocemente spazio ad un fare più robusto sul quale Andrea Chimenti, sul testo voluttuoso di Alessandro Bellotta, deposita la sua voce calda e ipnotica in un brano stupefacente e sorprendente. Tutto si gonfia di ombre con luci negli occhi. Ed è vitamina per il cuore che, robusto, spande calore intenso.





La figlia di Iorio


Di stupore in stupore: con l’inizio che ricorda in parte American Wheeze dei 16 Horsepower, siamo qui nell’equinozio di primavera dove tutto ha il coraggio di uscire, sebbene compaia una strega a complicare il tutto. Ma la band di Roma ha gli arnesi pronti per far vincere il bene nella storia feroce piena di cenere. Quando il neo-folk si accoppia al Dark-noir come in questo caso non può che scaturirne una sfera di luce che genera vita. E il recitato femminile nel finale regala una ulteriore sorpresa con la suspence che ci stringe piacevolmente coinvolti.




L’eterno era notte


Con un sentore di temporale in arrivo nei primi decimi di secondo del brano, ecco che appaiono i Cure di Disintegration a costruire la base musicale su cui le due voci, accostate, ci portano invece Franco Battiato nel testo e nella modalità del canto. Ma vi è spazio per sentire nelle vene di questo gioiello armonie proprie della band che senza vergogna le tiene quasi nascoste. Si deposita nella testa e diventa tutto un mantra pieno di seduzione, che nella parte in cui la chitarra prende lo spazio ci porta rose dipinte di viola. Meravigliosa!




Mishima


E non finisce la brezza che ossigena la pelle del cuore: Mishima è una nuova scintilla che musicalmente sorprende perché visita nuovi ulteriori territori e come un terremoto dei sensi svela la gentilezza che accoglie questi talenti che invocano i nostri ascolti.

Tonalità soul in evidenza controllata, l’electro-pop che manda baci ad un trip-hop mascherato e qualcosa di jazzy aleggia facendo del brano una passeggiata sonora sulla superficie lunare. Il tutto è rarefatto e ben confezionato, per lanciare Roma nel futuro, in un silenzio maggiormente sostenuto da fondamenta moderne. 

Se avevano ipotizzato un tentativo per non farsi sconfiggere dalle tenebre ci sono perfettamente riusciti.





R/ESistere


Non neghiamolo: quest’album è un crescendo di gentili abbracci che conducono alla fame di bellezza.

E il tutto trova la fine con questo ennesimo impianto sonoro che commuove all’inizio per ciò che evoca, come la conclusione di una guerra medievale.

Poi, nel cantato che unisce Douglas Pierce a Cristiano De André (una ipotesi assurda, ma che si concretizza con un risultato immenso), si fa spazio una versione apocalittica della vita che trova nella musica la sua fedele compagna. Questo sì che è un viaggio: si parte dalla città eterna per planare nel futuro fatto di lampi e tamburi che cercano e trovano nelle nuove macchine sonore un connubio perfetto, trasportando il tutto nella dimensione dell’inquietudine senza governabilità. E si esisterà continuando a resistere, perché lavori come questi saranno elementi di saggezza da considerare e non solo uno spazio riempitivo del suono.

Album altamente consigliato a tutti!


L'album uscirà il 31 Marzo 2022



Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford

26 Marzo 2022




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