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sabato 7 dicembre 2024

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us


 Midas Fall - Cold Waves Divide Us


La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che appassiona le anime in ascolto e in visione, trasportando le ombre sotto i riflettori. Ciò che ne consegue è estasi in ripetizione, tra oscillazioni e tremori. La musica può rappresentare tutto questo come tramite, indagine e una fitta ragnatela contenitiva. Se a farlo è la band scozzese Midas Fall, allora la paralisi del miocardio è garantita all’istante, come genesi di fragilità in cerca di ossigeno. Il duo (ora trio) compie il miracolo più notevole che si possa solo lontanamente sperare: scrive una genuflessione dal vivo, un concerto invisibile, direttamente nelle nostre stanze, come una vicenda privata, unica, difficilmente evitabile, per segnalare un primo incandescente atto di totale innamoramento, come coda di una lunga carriera in cui il quinto disco non fa altro che raccogliere, seminare, inventare dalle ipotetiche oscillazioni umorali un impianto definito, preciso, una invasione di corsia del nostro finto equilibrio.

Tabula rasa sì, ma piumata, ossigenata di algida bellezza proteica, in mezzo al circolo di emozioni che sono solo la coda di un palazzo mentale che verbalizza istinti, radiose giornate in penombra e la fatica di manifestare il talento di queste composizioni che attraggono il battito verso la fatica del contenerle tutte.

Più intimo, meno sognante (pare un ossimoro, una bestemmia, ma prima o poi capirete che non è così…), crudo con la malinconia che sottolinea la potenza di queste gocce che, anche quando cadono forte, sanno usare il rumore come una piuma inzuppata di sole…

Elizabeth Heaton e Rowan Burn sono due fate che ignorano il successo, le pose, i bisogni pubblici che seminano solo dispersioni. Loro raccolgono i respiri, i pensieri, e, con una frusta da cucina, fanno condensare la loro intima ricerca in un casco dorato dove tutto viene amalgamato e messo nel frigo del cuore. Sono cresciute, hanno generato pillole sonore non come figli ma come pennelli e colori da gettare nel vento. Ora più che mai vivono di giochi continui, un andare e venire dal nucleo delle forme, un utilizzo attentissimo delle diramazioni, nel quale post-rock, progressive e shoegaze si incollano alla materia della penetrazione mentale, operando la scelta che ogni bisturi sia capace di non fermarsi sul primo strato della pelle di queste canzoni. Questo spiega l’intensità, la contenuta esplosione per generare, piuttosto, un fragore più silente, circostanziato dal bisogno di usare le note come colla, come carta su cui scrivere un dna incontenibile: quello della descrizione. 

La volontà di chiamare a sé Michael Hamilton, anche lui polistrumentista e produttore, ha permesso l’ampliamento della fase di scrittura dei brani, come se davvero un membro in più rendesse questo “concerto” che è Cold Waves Divide Us un irripetibile scambio di doni, in un periodo non di grazia bensì di reali capacità in cerca di un fissativo permanente, per permettere a questa esibizione dal vivo di non terminare mai.

Ci si ritrova nella visione del mondo, nella serratura di una porta dove ognuno di noi vive la segretezza della sua esistenza, nella discarica di sogni sbiaditi, di volontà prive di mordente per poi anestetizzare la gioia al fine di farla rinsavire con queste piccole note che, incastonate, diventano massi pieni di fiori di montagna, in volo, incantato e incantevole, senza fine.

I tre sono l’imbuto nel quale cade ogni lacrima, ogni intima resurrezione emotiva, perché sanno scavare nelle peripezie delle singole espressioni delle note musicali, per correggere invece la scelta non astuta della musica contemporanea di cercare il successo. La vera arte dà sempre le spalle al pubblico…

Cunei, petardi, baci col rossetto blu e damigiane di vino entrano in queste canzoni per inebriare, stordire, commuovere e fare dell’ascolto un inferno roteante.

Musica eterea che scalda il fuoco sepolto nelle vene, adrenalina che esce dall’anestesia di ascolti mediocri, elaborazioni continue sulle strutture che rendono ogni secondo di ascolto un millennio nei battiti del nostro cuore. Angeli storditi, che vagano tra le culle di bisogni a noi non concessi, riproducono incanti e suggestioni, disegnando impeti e riflessioni, congiuntamente.

I movimenti, le torsioni, le conduzioni delle chitarre si legano agli archi, al drumming raramente potente, al basso che misura la condizione di forma dei sogni e li sorregge e poi all’espressione dell’ugola, su cui prima o poi il Vecchio Scriba scriverà un libro.

Ma, diversamente da tutti i colleghi, vorrei sottolineare che le parti musicali sono il vero pozzo pieno di petrolio, la miccia della voce, un abbraccio che consente a ognuno dei membri della band di esplorare un universo diverso. Certo, la sua è la migliore degli ultimi vent’anni e il suo cantato è di una   bellezza semplicemente devastante, incontenibile, la madre di ogni lacrima dai brividi accesi, una molla sensoriale che imbratta il viso di liquidi in dispersione continua.

Ma non è sola. Non solo lei conquista e penetra. Si deve avere il coraggio di affermare che la musica perfetta suggerisce alla voce perfetta di stare sul medesimo palco e di portare l’ascolto laddove la mediocrità non ha accesso.

Arte come nuvola in attesa di un tuono, di un tuono in attesa di dormire su una nuvola, con un pianoforte in mezzo e degli archi a sillabare vocali desueti, nella fantasia di un incontro inverosimile. 

Non è Dream Pop, non è gotica, non è un genere: ciò che è rimane relegato al mistero. Pellicole di film mai esistiti, dipinti in una bottega lontana dall’accessibilità, consentono al freddo contenuto nel titolo dell’album di tremare, di divenire frammento frenetico, di far evaporare le pretese e di conturbare l’animo. Incalzante, incastrato nella pillola magica del non conosciuto, questo percorso di note crea sinfonie prog in modo velato, tuffandosi nella modalità del goniometro e dell’inchiostro: definire, senza sbavature.

La grazia, la piuma che non accelera troppo, il dondolio della voce tra graffi e grappoli di svisate, introducono il pensiero in una locazione mai considerata prima: la confusione dello smarrimento davanti a questa bellezza insostenibile.

Gli archi, i synth, non solo aleggiano ma puntano i piedi, reclamano spazi e penetrano i timpani con quella dolcezza che disarma e sovrasta. Uniti alla voce e alla chitarra diventano piombo con i petali in bella vista…

L’avanguardia, l’originalità sono terreni che appartengono alla memoria (in ambito musicale sicuramente), ma quanto è bello constatare l'eccezione che vive in questo sciame, in questo alveare, in questo ruggito dalle corde gentili?

Armonie evocative, lampi di note, colpi di basso sincopato, patterns quasi invisibili e poi il lampo, in un sudore del sangue che dalla Scozia parte per fare un bel viaggio dentro la nostra oscena ignoranza. Ecco, quindi, questo disco divenire il maestro di una gioia perversa.

Il suono è onnivoro, divora le pareti del pentagramma, e descrive perfettamente quanto tutto derivi dalla musica classica, da quel pentolone che ancora oggi fa bollire l’acqua dell’arte musicale, senza tentennamenti. La quiete disturba chi vive maremoti, lo spettina e lo fa imbestialire. I tre, giovani marmotte nella foresta del dolore, cercano le foglie per far diramare le pellicole intuitive, oltrepassando i confini del conscio, immobilizzando l’inconscio,  per poi stabilire i turni di lavoro dei pensieri che nascono, si inseguono, ci inseguono, e ci abbattono.

“Fredde onde ci dividono”: questa la traduzione del titolo, un inganno, una verità, una precisazione, un perfetto escamotage per convogliare l’attenzione  sui rapporti, con se stessi, con gli altri, per creare una giungla emotiva nel polo artico. Il freddo non scioglie bensì sceglie solamente la temperatura migliore per conservare e, quindi, per ricordare. E l’album ci ricorda di come gli antichi fragori abbisognassero di un richiamo, come una cocaina mentale da tirare su, nel nostro cervello annebbiato.

Piangere è un regalo che l’anima offre alla tua convinzione di essere più forte di ogni cosa. Quando le canzoni cambiano il tuo umore e il flusso di pensieri diventa intollerabile e ingovernabile, allora ti rendi conto di trovarti davanti a un potere enorme, non uguale al tuo e quindi fai i conti con una fragilità enorme. In questo caso positiva e capace di renderti un pulcino nel suo primo giorno di vita. Queste sono informazioni ignote, non brani, pillole di atomi in una sfera quadrata, non brani, fiamme gassose in cui svenire per la bellezza e sicuramente non per la loro tossicità, ma mai brani: sarebbe ridurne il valore se pensassimo questo. 

I Midas Fall giungono nell’emisfero del vuoto: il loro sublime talento (non toccabile, ma fruibile solo a patto di non entrare nelle loro discariche gassose), scende nel perimetro della perfezione con l’unico vero Capolavoro degli ultimi dieci anni musicali.

C’è un noto e un ignoto che insieme squarciano il certo e lo programmano per una fuga doverosa.

Se proprio vogliamo considerarlo un album, diciamo pure che le moltitudini forme di comunicazione qui vengono assemblate e amalgamate per lasciare del tutto esterrefatti. 

Spostiamo la luce, dietro le nostre spalle, ed entriamo in questi crateri floreali, uno a uno…


Song by Song


1 - In the Morning We’ll Be Someone Else


L’inizio di questo capolavoro è un’indagine della forma stilistica, un accenno dei nervi, un battipanni che fa cadere la polvere: asciutto, melodico, nucleare nell'effetto di una intimità che frana, utilizza l’atmosfera del sogno, con la lentezza e il drumming che tenta di fare avanzare i pennelli di questi fragori tenuti lontani, mentre la voce prende per mano la parte elettronica del pezzo, nell’avamposto chimico di un’eterea manifestazione di luce che se ne va, abbandonando ogni paragone con quello che la band aveva scritto in precedenza. Ouverture e tortura: si piange subito con la chitarra shoegaze che alza le note verso un cielo lontano…



2 - I am Wrong


Il ritmo entra come lo spettacolo di una foresta decadente in fase di contenimento: il piano prospettico è quello di una corsa, invece, sebbene la cadenza musicale suggerisca una danza tribale, la tristezza e la malinconia governano queste pillole di chitarre antiche, molto prossime ai primi anni Ottanta, in cui per dire molto bastava poco… La coda del brano è un circuito elettrico di nuvole e drumming che ipnotizza la forma canzone, per concedere il ritorno di Elizabeth che rende giustizia con la sua disciplina vocale.

Diversi i generi musicali che qui fanno la muta, si incrociano per poi essere spettatori negli ultimi secondi dove tutto diventa sintesi…



3 - Salt


Memorie di Evaporate tornano, ricordandoci il loro ultimo album di cinque anni fa: vi sono composizioni nate per essere frastuono dentro la sei corde, con il supporto di vocalizzi eterei, archi quasi pudici e l’orchestrazione che passa dall’antico al moderno con disinvoltura, per poi divenire una pillola del post-rock più addentro alla tristezza e alla miseria…



4 - In This Avalanche


I testi di Elizabeth sono punture, la musica il tessuto su cui lei spazia nella sua contemplazione dolce e gentile solo all’apparenza. Un carillon, sotto forma di loop, spiana la strada a una armonia che centellina le energie, per poi esplorare il cielo quando la voce si chiude nel silenzio. Il pianoforte e il synth fanno l’amore con una chitarra che odora di Dream Pop ma scevra da condizionamenti. E infatti non manca l’appuntamento con un’attitudine fantasiosa che la porta altrove. Una ninnananna sa essere anche una perfida ma incantevole freccia…



5 - Point of Diminishing Return


L’unico brano strumentale è invece un coro gregoriano atipico: tutto si eleva alla preghiera, moderna, atea, sganciata dalla fede, per divenire un parto di post-rock vicino a quello dei Leech, per dare alle note uno spazio su cui inserire inserti e trame che ne concludano il percorso inventando la regola del limite improvviso. Glaciale, austera, di una tristezza sublime, la canzone fa da ponte perfetto tra la prima parte dell’album (attenta e premurosa) e la seconda (rantolante con un giacca di seta tra i capelli), al fine di stordire i sensi e captare l’attenzione: dove una splendida voce si assenta può esistere una musica che ne riproduce l’effetto e ciò accade, inesorabilmente, in questa occasione…



6 - Monsters


C’erano una volta  i Mazzy Star. I Low. E una pletora di band che cercava la voce per perfezionare il percorso artistico. Accade, in questo caso, che due universi paralleli si frequentino. Nell’attesa tutto diviene uno straziante episodio in cui le chitarre guardano l’orizzonte sottile tra post-rock e shoegaze per divenire la forma progressiva di un rock antico. E quella di Elizabeth uccide ogni ritrosia, sino ad appannare il vetro di singhiozzi dati dal rullante e dalle chitarre in esplorazione gassosa…



7 - Atrophy


Dove finisce il cielo vive Atrophy: il senso di morte tra le bolle di un cantato che violenta il cuore e un’orma di chitarra che avanza sino a divenire un sogno etereo e rarefatto, ci convincono che questo episodio sia talmente in grado di distruggere le difese che l’anima si concentra nello straziante commiato di forze in caduta libera. Un mantra che lascia le bave nel mattino di una intuizione clamorosa: disegnare per davvero il luogo in cui tutto finisce…



8 - Cold Waves Divide Us


La sintesi, la profezia, la ventata passionale di un giorno in cui si stabilisce il contatto con il disagio: questo brano è la cassaforte del nuovo impeto della band, la sonda che dalla lentezza e dalla precisione concettuale esce allargando il ritmo, il perimetro visivo, e fa brillare il loop e il delay della chitarra per concentrare una verità musicale per loro indiscutibile, che è quella di non ripetere mai un giorno di pioggia senza concedersi ingressi multipli. Ecco che allora i generi musicali qui presenti sono diversi ma, data la fattura della composizione, nascondono il naso lasciando intravedere solo le braccia…



9 - Little Wooden Boxes


La natura diventa nota musicale.

Il respiro degli strumenti un battito di ciglia.

Parole come cigni in un volo inquinato.

Ciò che vive nella penultima composizione dell’album è un rafforzativo, gentile e pulito, della cifra stilistica di questo incredibile viaggio: dilatazioni, incursioni di singoli accordi e la lentezza della progressione così vicina al Post-Rock senza però entrare in quei parametri. La voce, con la sua modalità evocativa, esplora la progressione senza seguirne le ombre, ed è miracolo puro di un combo perfetto…



10 - Mute


L'incipit è cavernoso, un rottame su un’onda nervosa, un malessere che si affida alla voce per creare un boato breve, non secco, ma perennemente costretto dalle poche note di un piano stregato e pregno di malefica bellezza, per impedire al tutto di morire.

Non necessita di ritornelli, di espedienti beceri in quanto è del tutto simile alla modalità tipica dei vecchi Bad Seeds di Nick Cave: dare al basso lo scettro e poi investire sul mantello fluorescente di un apparato musicale che lo supporti. 

Per approdare alla dilatazione, alla duttilità dello Shoegaze che governa il mistero e al Post-Rock, qui in veste di mago contenitivo.

Sacra, vergine, nefasta nell’accezione positiva, la canzone chiude come una goccia di rugiada questo Capolavoro: si festeggi la bellezza tra il roseto di lacrime senza fine…


Alex Dematteis (Vecchio Scriba - Old Writer)

Musicshockworld

Salford

7 Dicembre 2024


https://open.spotify.com/album/7HE5PoausnMjJAoco3miw2?si=V95H52lZQR2Q9v5PtT94zg


https://www.midasfall.com/home




 







sabato 30 novembre 2024

La mia Recensione: At Swim Two Birds - Quigley’s Point


At Swim Two Birds - Quigley’s Point


Vini Reilly è un mago che affitta scene celesti, Johnny Marr le trasforma in vento, Roger Quigley mette entrambi sui suoi polpastrelli dorati e affitta camere piccole in cui rendere solidi i sogni. 

Potrebbe bastare questo incipit per dire dove alberga la cifra stilistica di un pittore che ha scritto un album sulla sua relazione di coppia con una ragazza dolcissima: la musica riproduce i suoi lineamenti, la sua risata accomodante, le polveri di fumo di pipe perennemente accese e la voglia di adoperare la sei corde come un tam tam amoroso sempre a disposizione dei suoi fulmini.

Non esiste il passato al momento della scrittura di queste lettere che cercano nella memoria una sospensione dal dolore, un urlo reso ubbidiente alla natura di una mente votata all’abbraccio.

Nutrire le lacrime di anestesie continue è una gran fatica. Lui lo sa e decide di pubblicare la sua delusione affiancandole granelli di gioia, con un cantautorato più sottile rispetto ai The Montgolfier Brothers che, con Mark Tranmer, avevano fatto scoprire come Nick Drake e Tim Buckley, con meno enfasi e maggior predisposizione al racconto, potevano sembrare dei bravi ragazzi, oltre che belli.

Poi la fine (Roger ne ha conosciute molte…) ha determinato il ritorno a Salford, lui che ci era nato, lasciando a Manchester solo alcune puntate mensili.

In una stanza annoiata e in attesa di un terremoto, il biondo autore riempie i posaceneri e gli spartiti, con arpeggi che passano dal folk americano al fado portoghese, al dream pop più intimo, per poi scrivere parole capaci di accarezzare i capelli dei suoi ricordi.

Il suo cantato è rispettoso, senza acredini, lasciando ai lunghi assoli arpeggiati la modalità della disintegrazione del dialogo.

Utilizza, per il suo primo vero episodio solista, registrazioni di strada, le sue camminate nei parchi, gli uccelli, i lavori in corso, sequestrando la nebbia di Weaste e Langworthy per poi circondarli di elettronica e primordiali software al fine di raggelare il suo respiro triste.

Sussurra al microfono, prende fiato tra nuvole di fumo e poi si getta nella scrittura di atmosfere che sembrano nate per un film in cui i volti e le storie sono intrisi di incertezza e desolazione ma, credete al Vecchio Scriba, sono state molte le risate sul pentagramma e la certezza che un disco non sia una collezione, bensì una semina importante e decisiva.

Anticipando parte del New Acoustic Movement, che utilizzava pattern, midi, elettronica tenera e mai invasiva, il buon Roger stabiliva un nuovo confine tra la divulgazione e il mistero.

Per capirlo basta prestare attenzione alle lunghe suite musicali dove un fraseggio viene ripetuto ma mai con l’intenzione di divenire un loop, dati gli inserti tipicizzanti degli arrangiatori degli anni Sessanta.

In quel preciso momento tutto si fa buio, scompaiono le storie e la musica diventa una bocca muta in grado di far oscillare le emozioni.

Sul manico della sua Takamine scivolano dita nervose, lucide, con il diploma della beatificazione, vista la perfetta tecnica e l’abilità di raddoppiare spesso la sei corde con compiti precisi di lavoro, come gemelle che parlano lingue diverse, senza far mancare l’intesa.

Il suo background qui non trova posizione: i suoi ascolti erano rivolti alla musica della città, mentre in questo esordio solista siamo in giro per il globo terrestre e nel tempo, come se la libertà vera fosse il distanziamento dalla realtà.

E infatti i testi sono inganni, torture, come le musiche: pare un collettivo magico che cerca di addentrarsi nel creato per abbracciare gli ascoltatori.

Invece Dante e il suo Inferno sono proprio in questi solchi, in passeggiate con abiti finti e tanto vero dolore a setacciare la speranza.

Il Brasile, il Portogallo, la Swinging London, Parigi e lo scrittore da cui ha preso il nome il suo progetto con un romanzo favoloso sono i protagonisti principali, seguiti da una pletora di sogni ingarbugliati.

La Sarah Records riconobbe a Quigley il fatto di conoscere a memoria la modalità di incespicare con pura sanezza nei contorti esercizi chitarristici di cui Reilly e Marr sono stati maestri assoluti.

Gli archi, i ritmi spesso volutamente dispari e la produzione che ha cercato di anestetizzare l’abbondanza dei suoni sono i momenti di maggior intensità di questo vascello Salfordiano che si ricorda bene del porto e delle lotte con Liverpool.

A quest’ultima città Roger dà molto spazio: nelle introduzioni di diverse canzoni la magica atmosfera del Merseyside del 1975 e 1976 sembrano spuntare fuori come raggi lunari in libera uscita.

Credo, però, che l’aspetto più difficile da sostenere sia l’inclinazione del defunto talento a congedare il tutto, tra goodbye e farewell che si abbracciano facendo sì che l’ascolto diventi una ferita, esattamente come la scrittura di questi versi ipnotici, ma capaci di essere anche deliziose ostinazioni piene di sorrisi e charme.

Colpiscono alcune assenze, certe decisioni che hanno portato alla scelta di rendere poco gonfio lo strato interpretativo se non nell’episodio I Need Him, nel quale la sua devastazione viene trasformata in una accomodante forma gentile nei confronti di parole rubate a una realtà che stabiliva la fine di una relazione.

Due lati diversi, con strutture e dinamiche che ruotano dentro una progettualità che prevede un cammino longitudinale, in grado, cioè, di trasmettere la muta della pelle della sua anima, come un forcone che affitta baci dal fieno. 

La prima parte è un resoconto fedele di antiche felicità, la seconda un’amara constatazione del precipizio e infatti gli scenari stilistici cambiano.

Notevolissima è la tinteggiatura nell’ultimo brano fatto di coriandoli dream pop, da cui poi Tom McRae e i Radiohead hanno rubato a piene mani.

Sistematica modalità di una libertà pagata a caro prezzo, l’evoluzione del suo stile lo riporterà tra le braccia di Tranmer, anche se solo per un attimo. Ma questo album è un esercizio senza paragoni, vuoi per il romanticismo col cappotto nero e gli occhi che ancora cercano una bocca da sfiorare, che per canzoni che fanno riflettere su come la felicità sia solo l’avamposto della bomba atomica…

Un disco che ha generato orgasmi mentali e applausi da parte della critica: non si erano mai udite frammentazioni creare connessioni con la morbidezza, con l’educata propensione a grattugiare il lato meno duro di una decade che sembrava preferire i frastuoni ai sussurri.

Infatti certe esperienze toccano maggiormente quando si deve acuire l’ascolto.

E dopo più di vent’anni sembra che i segreti di questo gioiello continuino a emergere, facendo del volto delle sue composizioni uno splendido anfiteatro greco dove la poesia è un’arte inferiore: i versi di Roger sono immediati e riflessivi, non cercano la memoria, bensì il modo di dare a ogni attimo una rapida fuoriuscita… 


Alex Demattteis

Musicshockworld

Salford

1 Dicembre 2024


https://open.spotify.com/album/4r8D9GORVR1xg7sMUS7hjl?si=eLO0-msNTnWai3rhVB-aEA


 






giovedì 28 novembre 2024

La mia Recensione: BIPOLAR EXPLORER - Memories of the Sky


 

Bipolar Explorer - Memories of the Sky


Tre sopravvissuti fanno da ponte radio all’epopea terrena di anime disintegrate, saltate in aria in un cielo che desidera solamente mantenere la memoria di quello che è successo: si contemplano le ragioni del disastro, si sviluppa il seme della fine con suoni (e non canzoni) che, oltre a narrare, metabolizzano con una zoppia che esclude (tranne pochissime eccezioni) la forma canzone. Pare che nella testa dell’unico autore di questo mastodontico progetto (Michael Serafin-Wells) ci sia un computer attaccato a un cratere, con vermi, rapaci, scorie, trucioli, martelli e una valanga di scosse telluriche a illuminare la volta celeste nella celebrazione di una sconfitta prevedibile.

Vengono creati, quindi, percorsi millenari, racconti che escludono il cantato ma prevedono il crooning e lo storytelling di Summer Serafin e di Sylvia Solanas, che non sono niente altro che angeli femminili con le lacrime nelle corde vocali.

Il Big Bang iniziale non è nulla rispetto a questa processione di lava, bave e rantoli, nel cimitero rovente di un sogno in apnea. 

Si muovono le parole come comete stanche mentre il Moog Synth, la bowed guitar, le percussioni sono rattoppi di una ferita compressa tra queste lamiere sonore che sprofondano attimo dopo attimo.

Sembra un volo, quello di Birdy (e infatti quel Peter Gabriel che scrisse la colonna sonora potrebbe pensare di aver trovato dei nipoti molto più guerrieri e spavaldi di lui), in cui ciò che si vede si trasforma nella dovuta esagerazione di sonorità come pali della luce in genuflessione. Tutto è accorato ma lento, facendo così lievitare la tensione, l’imbarazzo, il fastidio e la certezza che non sia la gradevolezza ciò che ci colpisce il ventre. Ed è proprio da lì che il suono si trasforma nella transizione e nella traduzione di un percorso che trova lo sbarramento di un’epoca che non ha più visibilità.

Un viaggio psichedelico nella follia del prog rallentato, nei minuscoli approcci ai Velvet Underground e a Pink Floyd, quando, cioè, possiamo ascoltare delle quasi canzoni…

Sono però attimi, delle vampate erronee, un micromondo che non può avanzare. Michael non solo è un visionario, ma procede con le undici composizioni del primo disco, per poi scomodare in quelle del secondo disco gli incubi tipicizzanti della musica industriale degli albori, quella inglese del 1976 per intenderci. Per questo motivo giunge lo stupore: un progetto Newyorkese che vive nella Terra d’Albione sin da prima della comparsa degli esseri umani. Epico, granitico, devastante, questo dodicesimo loro album e quinto doppio approfondisce maggiormente il bisogno di rendere sottile l’armonia e di fronteggiare invece la destrutturazione molecolare del pop, del rock e, come accennato prima, della forma canzone.

La chitarra è la madre che consola i suoi figli, ed è tutta farina del sacco di Michael Serafin-Wells, artigiano del tempo, detentore dello scettro dell’atomo che diventa attimo e, straordinariamente, ripetibile. Qui l’applauso deve scattare, tremante e nervoso: questo talentuoso ricercatore e sviluppatore della distruzione di ogni faciloneria artistica si mette il casco, si benda e gratta la storia, la geografia, entra nello studio del chimico nucleare costruendo la sua bomba, postatomica. Ci si ritrova in una bacinella di sabbia nella quale scendono note nere come bisturi  impazziti.

Un resoconto osceno, terribile, pesante, dove l’aria muore nella glacialità espositiva di echi e riverberi, delay e meccaniche ripetizioni robotiche in cui il ritmo non è mai sostenuto dalla batteria bensì dai loop di un iPad vigoroso e determinato a incutere paura e allucinazione continua.

La natura, che siano uccelli, pesci e quant’altro, è l’unica che pare avere dignità, l’unica a essere sopravvissuta e, quando arrivano le campane, non si ha dubbio che sia il vento a suonarle.

La sperimentazione nelle officine del suono tedesco del 1961 e del 1962 inorridirebbe davanti a questa miscela di contrattempi, avamposti sonori e cliché attitudinali che cercano loop umani e ideali da sbattere contro le viscere di un idilliaco tremore. Lo sfacelo del racconto non può prevedere empatia nei confronti di una modalità accomodante. 

Infatti.

Ciò che avviene è una valanga di ultimi respiri in volo decadente, alla ricerca del ventre terreste, come una deposizione di intenti liturgica ma agnostica: non c’è Dio in questo disco semplicemente perché l’uomo è scomparso del tutto, e dalle sue ceneri sono nati questi frammenti.

Sono visioni sospese e poi lacerate, orgasmi delle particelle lunari che celebrano il silenzio corroso, creature mostruose che escono dai corpi dei ricordi, in un assemblaggio distorto e fulminante.

Non esistono arpeggi lunghi ma note, ammassi di note, note storte, note senza possibilità di un pentagramma che veneri il loro potere.

È distruzione continua, frammentazione e mai diffusioni sognate: gli incubi veri sono lenti, smorfiosi, diseducati e abrasivi.

In alcuni momenti dell’album capiamo l’importanza dei Television e di una breve parte della carriera dei Virgin Prunes (A New Form Of Beauty) quando l'approssimazione di un parquet musicale trovava spazio nell’istinto omicida di fraseggi spericolati. 

Le stelle precipitano, l’ellisse cambia opinione e le strade diventano magazzini della memoria ipnotizzati. Per realizzare tutto questo caos si restringono i parametri della fantasia e ci si abbandona all’ossessione, come pazienti di un TSO che ridono della non comunicazione tra le parti.

Ma, aspetto fondamentale di questo lavoro, è la NON COMUNICABILITA’, non esiste un parlare e un ascoltare, ma tutto è raziocinio in frittura, con dosi di droghe sparse dentro il sibilìo costante di questo rumore basale.

Ci si ritrova a considerare certi gruppi come antichi antenati di questa sbalorditiva messa in atto di oscena crudeltà: si dovrebbe immaginare come la non musica di queste ventidue molecole scomposte non siano altro che un nuovo testamento, una nuova partitura ascensionale, perché, per davvero, tutto quello che cade trova modo di risalire con maggior circospezione.

Non c’è gioia, niente di solare, solo un alto fungo atomico che pare cercare una base per far riposare l’amarezza e la desolazione.

Della musica Neo-Folk questo doppio album ha il senso della sintesi.

Della musica Industriale quello sanguigno di una lacerazione continua nei confronti delle verità.

Della musica classica ha tutto: il pudore, l'ardore, la teatralità in cerca di un applauso paralizzato in un giorno di lavoro.

La festa è un grido indecoroso che non può presenziare.

Dello Shoegaze rimane l’abbondanza di distorsioni controllate.

Del Dream Pop la lastra dopo un sogno morto.

Del Rock l’idea che tutto muoia…


Rimane l’odore di una tragedia, di un canto senza orecchie in ascolto, una sedia elettrica ad alto voltaggio ma prive di reazioni muscolari.

In parole povere: un progetto che entusiasma il Vecchio Scriba perché ci si ritrova nel futuro, con le giuste dosi di terrore e di ambasce affittate composizione dopo composizione.

Stoica è l'intenzione di snaturare il processo di avvicinamento all’ascolto, mentre ciò che vive tra questi solchi è un rifiuto persistente del pubblico, le orme umane non sono desiderate e si preferiscono le onde del mare contaminate dall’amianto e le tracce di petrolio sulle ali dei gabbiani (tra i protagonisti assoluti di questo Lp), per connettersi al dolore che sintetizzi un proscenio e un abbandono.

Ci si ritrova, così bene, nelle sacche amniotiche di Poe, con le sue nevrosi, e nella spettacolare conversione stilistica del leader degli Psyco Tv: un gemellaggio continuo con la demenza giovanile e non senile. Si raccontano le vicende di un tempo raggomitolato nei suoni cadaverici e nelle voci femminili sommerse dai frastuoni, come lapidi in movimento in attesa del ghigno malefico.

Magnetica e crudele, la storia dell’arresto del sogno vibra in piena credibilità dato lo spessore di questo sistema convesso, che permette la fuga da ogni accettazione.

E qui si palesano i moti giapponesi, le vicende del Nepal, la storia triste di Ulisse, gli spettri di Lovecraft, i racconti ipotetici di Sofocle, e così via, in un infinito che rende petroso l’avvenire…

Non è un capolavoro (grazie a Dio) ma un testamento che disegna il futuro come una rigida lapide: se tutto deve finire per davvero abbiamo la giusta NON musica, i vestiti gettati tra i latrati del vento e la luce che si inginocchia innanzi alla morte…




Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
29 Novembre 2024

mercoledì 6 novembre 2024

La mia Recensione: Aursjøen - Strand


 




Aursjoen - Strand

“La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono a caso” - Italo Calvino


Nella spettacolare forma artistica che prevede la progressione dentro i maremoti emozionali, la lentezza diventa l’unica coinquilina ragionevole, in una pacifica e collaborativa convivenza.

Ecco che uno dei membri della polivalente band Octavian Winters innesca un detonatore sensuale, coi bassi ritmi a collegare il cielo e l’osceno del mondo, una musicoterapia che, partendo dall’elettronica curva su scale empiree e segrete, capovolge il pop e scrive canzoni come meteore e statiche statue danzanti, calibrate dal suo canto, corretto in corsa da controcanti e strategie di una produzione attenta a riversare luce tra bagliori eterei e tuttavia colmi di quel nero che non snellisce bensì preoccupa. Su questa base tutto diventa un'esperienza non catartica ma protettiva: ci sono luoghi dell’anima che l’artista di San Francisco preferisce mantenere come gocce di vetro nei suoi percorsi creativi. Musica glaciale, dove i panegirici dell’uomo comune tendono a frantumarsi, perché Aursiøen è una telefonata di note sotterranee. Da cui tutto parte per spegnere incantesimi e follie.

Un E.P. che la libera, la rinforza, capovolge il conosciuto e diviene residenza di sperimentazioni fluviali, mantenendo il contatto, nel suo timbro vocale (pieno e oscuro), con quelle voci che in passato, nel suo precedente progetto, non trovavano adiacenza e possibilità espressiva. Arrivano Siouxsie, Sinéad O’Connor, Björk, Elizabeth Frazer a ricordarci come la ricerca ostinata di una originalità sia cosa stupida: ci sarà sempre qualcuno che troverà un nome che l’ha per gioire di una vittoria inutile e irrisoria.

Questa cantante ha delle grucce nell’ugola, la sua mano scrive testi che salgono nella sua bocca per essere fantasmi gentili nel buio di notti vogliose di una distrazione. Quello che racconta e il modo in cui lo fa la mette su una discesa temporale: composizioni come un allontanamento, come una ferita sibilante in cerca di un’armonia gradevole, con richiami alla musica classica, partendo da un trip-hop nerastro all’interno di allacciamenti gotici, con una chitarra e il suo delay a frantumare la purezza, facendolo divinamente.

Il pop alternativo diviene folk alleggerito, con stravaganze davvero radiose e sublimi, con balbettii che inquinano la sicurezza, rendendoci ascoltatori in stato di fragilità, con una meccanica compositiva che avvicina la possibilità di un bacino di accoglienza popolare, mettendo a tacere chi la vorrebbe solo per poche anime.

Le stratificazioni, gli arrangiamenti, le progressioni, l’enfasi e la leggerezza (quella di Calvino nell’introduzione) sono gli elementi che continuano a partorire grappoli, frammenti, scintille di idee che reclamano note, come se uscissero dal risveglio di una persona in coma.

Micidiale, caustica, rapitrice di melodie arcane e vicine alla mitologia, questa artista lavora concetti privati, semina una lastra di impeti con lo sguardo dentro le cartucce di una voce che spara i cambi di registro con attenzione e capacità.

E dei testi, dei richiami sognanti verso gli anni Ottanta, della sensazione che sei canzoni sembrino trenta non ne vogliamo parlare?

In questo si dovrebbe tirare in ballo la seconda parte della carriera dei Dead Can Dance, forse il sistema di misura più vicino alla ragionevolezza per inquadrare il grande percorso compiuto con questo lavoro, per riuscire a dargli una credibilità che merita di sicuro.

Per il Vecchio Scriba questo non è soltanto l’E.P. del mese e dell’anno 2024, piuttosto è l’augurio che le anime pensanti possano scoprire con queste delicate pennellate artistiche una serie di mondi non connessi tra loro ma in fase di annusamento, nella spettacolare modalità di circospezione.

E si scopre come la bellezza sappia essere violenta: davanti a tutto ciò un cuore sano perde efficacia e si accascia, felicemente…


Song by Song


1 -Nytär


Una terra senza acqua esce da questi aggeggi elettronici, chiamateli computer, tastiera, beats, non importa: l’inizio del brano è già un geyser che si precisa nelle orecchie, un geniale intro per la voce che sembra uscire da un concerto della 4AD in un attimo di distrazione della massa gotica.

Pj Harvey osserva attenta: capisce come Aursjøen utilizzi il registro alto non come acclamazione o preghiera, bensì come soluzione per portare sul suolo terrestre angeli e demoni. Esempio di come la musica eterea stia a suo agio con un temporale, lento, pieno di elettronica e suspense.



2 - Apollo



Eccoli gli Octavian Winters nell’intro di chitarra: una bordata gotica che butta giù il cielo! E poi è una duna del deserto nel battibecco dei Tuareg, a benedire il connubio tra darkwave e trip-hop, con il ritornello che sentenzia la facilità che possiede di permettere alla malinconia e all’allegria di convivere. Misteriosa, trasmette un prurito piacevole, dato dalla metodica del canto, raffinato ma potente.


3 - Lilypad


Si cambia, si dimentica e si prosegue: siamo ora tra i pilastri della world music in cerca di anime voraci, di sospiri con eco e riverbero che montano la panna di una forma canzone che lascia spazio agli accenni di chitarra e tastiera, nel dondolio di un pomeriggio che vede la voce più nascosta, come una meteora in cerca di una metafora. Ma poi nell’apertura del ritornello le note in maggiore ci portano equilibrio e godimento. E ci viene in mente la stessa attitudine al gioco canoro di una cantante che è ancora un missile in anticipo nel mondo trip-hop, quella Skye Edwards dei Morcheeba che echeggia spesso in queste sei canzoni.



4 - Suns Of Tomorrow


Poi esiste l’estraneità e il giocattolo diverso nei luoghi predisposti alla ludicità.

Eccolo questo brano che visita l’ignoto, il sacro, l’accartocciare la voce per fare posto a campane, a beats magnetici, e un velo triste ci copre perfettamente gli occhi. La sperimentazione qui diviene saggezza al pascolo, per perseverare con la brevità del giro di accordi, lasciando poi spazio a un cambiamento ritmico e scenico impressionante, tra sibili e suggestioni drammatiche di altissimo livello, con incursione di fiati che creano un terrore rappresentativo di una genialità impressionante.



5 - For Want Of


L’eco maestro del dramma interiore esce a fumare: canzone che ci penetra attraverso il chiaroscuro vocale, mentre la musica, compatta, siderea, plumbea, struttura l’ascolto all’interno della pazzia maniacale di Diamanda Galas. Si canta per colpire l’aria, per irritare e tenere buoni gli spiriti, come fate, come diavolesse. Aursjøen impressiona, ci travolge con il modo in cui usa la complessità per esplodere ma solo in lontananza…



6 - Strand


Dio mio. Una chiusura che mette il magone, che ci rende orfani, visto che la bellezza e la leggerezza decidono di partorire una figlia amorfa, stralunata e vicina alla fine prematura. Un incubo rappresentato come atto contemplativo, un trasporto nomade di antiche culture millenarie che qui trovano il benvenuto e si piange, di gioia, di gioia, di gioia mentre tutto si fa muto con queste praterie vocali che divengono l’unico vento su cui depositare il nostro grazie infinito…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
7 Novembre 2024

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