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domenica 12 maggio 2024

La mia Recensione: Chants Of Maldoror - Ritual Death


 

Chants of Maldoror - Ritual Death


Un nido d’api abita nel cratere del cielo, a bordo di un veicolo che lo trasporta tra le diverse forme di ingresso in studi e perlustrazioni, e nel quale quattro insetti ci mettono a conoscenza di ciò che accade. Il tempo, gli spettri, gli andamenti tellurici, i sospetti, i drammi, il dibattito religioso, il rispetto della morte, gli assassinii, genuflessioni umane sapienti, i tranelli dell’esistenza: è solo l’inizio di questa esposizione di materia in ebollizione, dove il contenuto risulta essere un fascio sonoro che scartavetra gli spiriti e li rende liberi, mediante contaminazioni e fluidi apparentemente indigesti, con un nero che diventa la luce per vedere l’intensità di un processo che conosce l’evoluzione e il suo opposto.

Le quattro api di Frosinone e dintorni mettono su una cassetta il magnetico processo di miscelazione e processione di un incanto piangente, un attraversamento delle condizioni note e quelle meno note del dolore, della fascinazione simbolica cara a queste menti gravide di interessi, dando all’occulto, al sondaggio dei segni, alla bellicosa bolla di scoperte il compito di rendere il tutto una questione solo apparentemente legata alla musica. L’ascolto comporta il sacrificio del trambusto personale, una detumescenza inaspettata, un rito di guarigione inatteso, violento, mai approssimativo, all’interno di una manipolazione funerea che vede due generi musicali non essere il senso ma il mezzo attraverso il quale si mostrano le cose più che sentirle, dando così modo allo stupore di essere materia in esposizione, una nuova scusa per le porte delle percezioni per esibire un lungo vestito pieno di merletti di anime davvero capaci di non avere paura.

Sette candelabri dalla pelle ruvida vagano nelle corsie dello spazio facendoci sentire il loro respiro, in un groviglio di tensioni e dolori lancinanti che non cercano alcuna consolazione: si è talmente inebetiti davanti a cotanta intensità, introspezione, che pare, alla fine dell’ascolto, di aver vissuto una serie di miraggi in cui la volta celeste ha voluto consegnarci segreti pesanti ma necessari per la consapevolezza di una conoscenza divenuta, brano dopo brano, più che necessaria.

Benvenuti, allora, ai nipoti del Conte di Lautréamont, che depongono la loro ghirlanda sonica sulle assi di un teatro tetro, lancinante, pieno di schegge e artigli, nel quale il ritmo, la forma, la densità delle canzoni riempiono il tutto di orgoglio e devastazione. In Italia una simile qualità percettiva non aveva mai trovato modo di essere vissuta. Non è necessario catalogare, gettare queste sapienti creature nel calderone di stupide definizioni, bensì dovremmo tutti ritrovarci nella commozione di un viaggio psichedelico e alchemico attraverso un tempio scoperto, come un incanto che si fa toccare.

È inutile andare a fossilizzare la curiosità all’interno di cosa ci può far ricordare quello che ascoltiamo qui: mi pare piuttosto più corretto diventare anime studiose che vogliono catturare ogni atomo di questa chicca assoluta colma di unicità da riscontrare, tra sacrifici e spine sul capo del nostro cuore, mai affranto ma pulsante di stelle contenenti segreti in fase di emersione.

Adolphe, David, Echo e Loren sono gli emissari, i corvi di grotte in costanti eruzioni, gli artefici di questo vagabondaggio che rende le nostre orecchie tumulti continui, febbricitanti e timorose. Le loro mani, le ugole, le propensioni sono un ardire, una sfida, un concetto, una trama bellica che ci conduce alla verità che nella sua scomodità ci abbellisce con patemi abili nell’ungerci la pelle e il pensiero. 

Viaggiatori del tempo e di incognite, i Chants Of Maldoror sembrano spiriti millenari con una vitalità ineccepibile e straordinaria: malgrado la quantità di meteore esplose nelle loro mani, la scrittura è ordinata, concentrata, capace di un sorriso macabro ma stupefacente, un miracolo nel baricentro delle loro grazie, processate, messe in ordine ed esposte come esplosioni nel nucleo di metamorfosi continue.

Partiti come emissari del Medioevo, intenti a conoscere i rituali che fanno inorridire la maggior parte delle persone, questi ragazzi già adulti spostano le intenzioni e si tuffano in una volontà artistica che solo apparentemente appare più “comoda”: in realtà divengono ancora più devastanti, tremendi cavalieri di battaglie e scontri con i moti dell’anima, studiosi ribelli, indifferenti al circostante, splendidi concentrati di capricci e ostinazioni a cui noi risulta semplice essere ubbidienti, per trasferire la conoscenza nel processo dell’esperienza.

Una decadenza che si trasforma in un luogo dove la rassegnazione, limpida, conosce impeti, e la frustrazione riesce a trasformarsi in una meravigliosa gioia più che mai atipica. 

Lo spettacolo conosce regole, circospezioni, tumulti soffocanti, stati di perdizione, all’interno di una trama mai confusa ma che diventa insostenibile solo per gli ignoranti e per le menti volutamente superficiali. Pallottole, rovi, preghiere senza Dei da raggiungere, inchini e devozioni dai linguaggi complessi: questo è il regalo offerto dai quattro senza richiedere sacrifici ma facendoci notare, in ogni composizione, che l’ascolto può generare promiscuità e abbandono delle volontà, in un rapimento che non lascia sconfitti.

Il suono, lama di metallo dalla pelle resa acida dai dolori impenitenti, è il Re del tutto, il principale maestro, l’anticipo di ogni pendio che si vivrà attraverso sequenze di accordi e ritmi che creano un boato e una discesa continua, per ossigenare il centro della terra. Il crooning, il recitativo della voce, le tonalità che sono grovigli di sangue con i libri in mano, sono appannaggio di Adolphe, sacerdote del buio, studioso incontenibile, attore e regista di un teatro interiore che fa tremare. La sua qualità più evidente è fare della voce la perlustrazione di anime in viaggio, un alunno intuitivo scevro però di legami con chi lo ha preceduto, per potersi sistemare, indomito, sul trono della bellezza.

Loren è un alchemico della melodia, uno sperimentatore, un discepolo della bellezza nera, indomito, con un impeto pieno di sale e miscele, come un druido che studia gli elementi della natura e li trasferisce sulla sua sei corde.

Echo è una bolla sonora che si stende sui tasti bianchi e neri di un synth e di un piano, per regolare la temperatura del dolore e creare piani emotivi dove tutto è adiacenza, un patto di strutture che si sposano con le altre forme musicali, per conferire al tutto sacralità.

David è il governatore degli istinti, il portiere che apre il rumore della terra e lo porta dentro i meccanismi malefici di Loren ed Echo, un trapezista del suo strumento, che definire basso è totalmente riduttivo. A lui il compito di manovrare gli umori, di pilotare i fasci emotivi dentro il ventre, di stabilizzare le onde magnetiche di una band che sembra essere una orchestra del Settecento, priva di inibizioni.

Quello che stupisce maggiormente nella musica dei COM è che ci si ritrova davanti a pennellate di suoni sulla tela della vita, per un’arte che sembra diversa da quella musicale, come un fraintendimento che però unisce entità diverse. Un processo creativo che parcellizza le conoscenze nei confronti di stili ormai irrigiditi dall’adorazione, in cui manca il processo critico. I quattro, invece, non fanno Death Rock o Gothic Rock, bensì inumidiscono la conoscenza con dipinti che disintegrano ogni convinzione, ribelli armati di intelligenza per essere fragori non voluti dal Ministero di quei due generi musicali…

Disobbedienti e anarchici, i ragazzi entrano nel labirinto di ogni tensione per destabilizzare anni e anni di convenzioni che sanno rendere inutili. C’è una piacevole arroganza da parte loro: non essere sudditi, ma regnanti inconsapevoli…

Meraviglia, e non poco, che non si possa sprecare tempo nel cercare riferimenti stilistici e culturali con questo gruppo, in quanto ciò che si evidenzia è una tortura personale innanzi al noto, sfuggendo continuamente per poter elevare la conoscenza in un campo dove le novità possono essere raggiunte.

Preferisco immaginare questo combo all’interno di uno spazio culturale che parta dall’origine degli spiriti, di impulsi che elevano il genere umano, passando dal Medioevo, per trasferirsi nel cielo, in un tripudio di sensi che espandono una necessità simile a una malattia che vivono con positività, degni del bacio della morte che li osserva compiaciuta. Creano un tappeto di putride incombenze, appuntamenti con catene e artrosi mentali, nell’idillio di un ghigno che da malefico diviene digeribile.

Attraversando gli abissi, fissano i pensieri dentro un crocefisso mentale in cui tutto è inchino e stupore, per liberare ipnosi e magnitudini in modo costante.

Aduniamoci, sospettosi e tremanti, attorno a questi sette candelabri, per  mettere per iscritto, prima di adorarli, le nostre paure…


Song by Song


1 - Reunion and Death

“I sink the knife in the mother’s heart

and the capes grow scarlet from violet”

Cavità metallizzate, vapori e fuochi fatui entrano nella coda di un funerale emotivo con il recitativo di Adolphe che regna sulle scintille sonore gravide di allucinazioni provenienti dalla baia di San Francisco.

Molto più di un teatro del dolore: qui, sin da subito, ci si ritrova catapultati nel fragore di un abbandono dove lo smarrimento è dato da chitarre acide, con impeti nucleari.



2 - Feast In Black (Mortualia)

“My soul is in shards, in and out of the way spot of my skull”

La lotta degli abitanti dell’inferno diventa un sacrificio inevitabile, e la voce, che pare lontana per non farsi raggiungere, declama versi inospitali, la morte nel suo manifesto trionfo del momento del funerale consente alla musica di essere eterea ma ribelle, con il synth di Echo che dà l’idea di dipinti tetri e malinconici e il basso a scandire ogni paura…



3 - Post Mortem

“Restless shapes are dancing on the blade of my knife”

Immagina, in una notte piena di fulmini, i Virgin Prunes a cena con i Bauhaus, tra litigi e risate impertinenti, in oscillanti adorazioni di gesti violenti comandati dai COM con grande intelligenza. Cupa, greve, lancinante esibizione di scomodità uditive nel fruscio delle api che lavorano per detergere l’ignoto all’interno della paura. Lancinante parata di suoni che incollano al vetro viscido di coscienze in tumefazione… 



4 - Resurrection

“Resurrection is real death!”

Si va a Francoforte, a bussare alla porta della casa di Varney Cantodea, per vederla danzare felice, per questa composizione che arriva dal Settecento, mentre, dopo un bagno di modernità, si sacrifica in un movimento breve ma efficace. Si contesta, si riduce la religione a una miseria evitabile, si fa spazio alla verità millenaria perennemente negata e l’ovvio trova la luce manifesta della volta celeste. Ridondante senza distorsioni, la canzone è il miracolo della seduzione gotica al suo massimo livello…



5 - Baptism Until The Angel

“Doesn’t appear the lost image of the end”

Scosse nevrotiche, lame sul manico di Loren, gramigna nella voce di Adolphe, qui mago nero della morte, messaggero con le borchie nel cuore, mentre si lancia nei solchi del basso e della drum machine, con la chitarra che indaga e crea pertugi…



6 - Red Communion

“With Angels crucified on red roses in bloom”

Lo scenario cambia, ci si ritrova in una chiesa ipnotizzata da Echo, maestra e pittrice in avanscoperta: dopo pochi secondi il brano diventa una allucinazione sensoriale al cospetto della paranoia, per catturare il sonno umano e catapultarlo nel baratro del tempo. Marziale, oscura, impenitente e malvagia, la composizione  riduce al minimo la melodia e l’armonia per essere caos e genuflessione paralizzante…  


7 - Requiem Aeternum

Sull’eterno riposo la band scioglie una nuvola sonora che appanna l’udito e ci fa precipitare nello sconforto, in una ritmica che inchioda mentre la voce fa accapponare la pelle e la mente vaga persa nel limbo dell’ignoto. Suoni come cadaveri freddi, dove solo il basso alla fine sembra ricordarci che stiamo ascoltando qualcosa di “umano”.

Un congedo sorprendente che fissa il valore della band laddove nessuno se lo aspetterà, perché chi precede vive il lutto della incomprensione…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
12 Maggio 2024



giovedì 9 maggio 2024

La mia Recensione: Joy Division - Closer


 

Joy Division - Closer


“Il dolore più grande del mondo è quello che, goccia a goccia, trafigge l’anima e la spezza”

Francisco Villaespesa


Nella storia umana esistono legami che si tramandano senza che ci sia il contatto diretto, come una traiettoria che oscilla nascostamente. In questo caso stiamo parlando della Odissea, il trapianto delle avventure più estreme che, nel marzo del 1980, in soli tredici giorni, ha deciso di entrare nel corpo musicale di un progetto pieno di sintomi adiacenti all’originale, un viaggio catastrofico e allucinante, planato nella radura fredda degli studi Britannia Low, a Islington, Londra, per consegnarci non un idillio bensì il metro che misura la differenza tra il bene e i malesseri più estremi.

Tra Salford e Macclesfield esistono 41 chilometri e i quattro ragazzi si spartivano questa distanza recandosi a Manchester, la cupola grigia dell’esistenza più torbida e sconquassata. Il divertimento consisteva nella fuga dalla realtà, creando isole immaginifiche all’interno di un circuito elettrico fatto di note musicali ed estremi paradossi. La cultura della città lasciava l’ozio dei primi anni Sessanta e nel bel mezzo degli anni Settanta sprintava per accaparrarsi simpatie, favori e il consenso delle stelle. I Joy Division furono la frattura più evidente, ma mai vennero ostacolati: i Buzzcocks intravidero la loro nera bellezza e li accolsero per un tour durante il quale i JD scrissero le 9 canzoni che dettero a Unknown Pleasures un triste primato, vivo ancora oggi, ovvero quello di fare un album nuovo che smentisse molta di quella attitudine senza mancare però di qualità. Closer è un urlo ragionato, diabolico, magnetico, un’onda magmatica di stanchezze, introspezioni, una febbre in bianco e nero che permane, senza esitazioni. Raccoglie i detriti di un’anima allo sbando, il pulsare entusiasta degli altri tre componenti, giovani pieni di vitamine e speranze, deliziosi fannulloni in cerca di uno status che li porti via da questo agglomerato urbano sempre più in conflitto con la vita quotidiana. I testi, infatti, sono un diario giornaliero nei quali i pensieri non sono assunti a manifestazioni artistiche disarticolate dalla realtà ma ne sono invece il calco, l’impronta, lo scatto attitudinale di una volontà che si precisa nell’affermazione della debolezza come il limite che non può essere battuto. Nove composizioni divise in due lati: il primo gravita dentro la sistematica intenzione di mostrare l'inaccessibilità, il non piacevole che richiede il congelamento riuscendo però a far sudare l’anima. Il secondo è un ammasso di pensieri in totale putrefazione che si fanno accompagnare da musiche tetre, lapidarie, piene di pioggia e vento, per portare lontano, nel ricordo postumo, un’assenza di energia che somiglia a un canto senza i magneti della disperazione.


Sin dalla copertina, dove viene eliminato il significato religioso (della Madonna appare solo un braccio e il Gesù di Nazareth è quasi totalmente nascosto), capiamo che siamo innanzi a una immagine che non riassume il contenuto bensì indica la partenza, l’intenzione, l’estrema bellezza e intensità della fascinazione nei confronti della morte, qui mostrata nell’atto della vicinanza, dell’accoglienza, della spartizione delle lacrime. Ma il secondo lavoro dei JD non è una sintesi del dolore, nemmeno un cielo che attraverso l’esaltazione possa condurlo alla devozione. È un resocontare con la bilancia su un palmo e lo sguardo smarrito sull’altro, in un gioco dinamico di forze in grado di far perdere le coordinate. Closer è un boato sotto forma di un giocattolo con le guance essiccate attraverso un Post-Punk chirurgico che contempla l’assunzione di nuove metodologie espressive. Ecco, dunque, nei solchi apparire, “dolcemente”, i pruriti di una Coldwave spaventata, i primi vagiti di quella Darkwave che si prenderà la giusta quota di responsabilità subito dopo l’uscita di questo gioiello. Non mancano quote di una psichedelia elaborata e di una propensione a dare ai rumori quella validità che nella musica industrial poteva anche procurare fastidi. Il disco, per mezzo della maledetta capacità di Martin Hannett di raggiungere quella perfezione non gradita dai quattro, mummifica l’emozione (quella spontanea) per generare un corto circuito mentale nel quale lo smarrimento, la paura e la tensione fanno sembrare il tutto il frutto di una proiezione cinematografica, per consentire all’horror e al drammatico la convivenza, non forzata.

Troppo si è detto sul suicidio di Ian Curtis, del testamento e di tante altre gratuite ingenuità e sciocchezze: ci troviamo, invece, nel territorio di espressioni sbilanciate, impeti ingovernabili, gioia e dolore come una pastoia inevitabile, con la capacità di suscitare pensieri pieni di magneti sanguinei in costante caduta. Ian parla di se stesso e lo fa davanti a un microfono: nessun testamento conosce questa dinamica…


Dovremmo pensare a come per una volta la musica si sia disinteressata dei testi e che solo una magica congiunzione abbia potuto far credere a un legame tra le due parti. Ma Bernard, Peter e Stephen in quel tempo non ascoltavano nemmeno il cantato del povero ragazzo diviso e atrofizzato dagli spasmi. Dopo quarantaquattro anni si può affermare che sia stato un bene, una coincidenza strabiliante da lasciare sbigottiti. 

I temi affrontati nel disco sono circumnavigazioni spettrali, con la fatica incollata alla mancanza di ogni speranza, un lucidare la morte spegnendo la vita, depositando i sogni nel caveau dove ogni interesse non poteva maturare. Eretto, nerboso, elettrico e potente, una incudine lenta con accelerazioni che precedono la lunga processione che conduce nella zona del silenzio che può consegnare la verità. I brani sono uniti solo dal fatto che i musicisti e la voce risultino  perfettamente riconoscibili: per il resto è una slavina che scompone ogni armonia e la delicatezza muore secondo dopo secondo, snervando i sogni e le velleità per conquistare un eremo che si chiama Capolavoro, quello che non rende felice nessuno, il più triste che si possa immaginare…

Tutto, in questo getsemani moderno, si dirige verso la non piacevolezza e l’urto incombente tra il desiderio di sentire come procede e l’assoluta volontà di spegnere ogni transistor.

Ed esistono ancora persone che definiscono questo lavoro “dark”...

Il delicato vetro di quest’ultima creazione non è nient’altro che un circo dove il clown non esce, mostra il suo trucco attraverso ombre cinesi, e i cavalli, quelli di solito non domati, qui si siedono e si fanno pettinare la criniera dalle lacrime congelate di Ian, assoluto protagonista, non voluto, di un assolo lacerante, verso dopo verso. L’atmosfera, plumbea e vibrante, conduce spesso al fastidio, alla reazione di anime che vorrebbero negare la vera identità di un ascolto che spezza lo stomaco. Riti, ideali, dispersioni, scontri, dal “No Future” del Punk al “Sono fottuto”: sembrano essere passati tanti anni e invece no, i Joy Division con questo gioiello dimostrano come ogni impeto possa perdere foga e trovare la melma di attriti sempre più coscienzosi e capaci. Sconvolge il fatto che la band dimentichi la poesia della metodica Post-Punk, fatta di riferimenti letterari della fine dell’Ottocento per divenire l’avamposto di una serie di furibonde analisi introspettive: forse è proprio per questo motivo che la definizione del genere nei confronti di Closer perde valore, in quanto veniamo catapultati su un lettino scoprendo che uno psichiatra fatica a raccogliere informazioni. Avviene per le parole come per la musica: la forma canzone, solo apparentemente, aiuta a credere che la pazzia non sia una molla che prende la vita e la fa rimbalzare ordinatamente. È esattamente il contrario e da qui inizia la difficile gestione di artrosi, artriti e degenerazioni che parrebbero cadere nel lago del malcontento. 


Si debbono individuare le zone di appartenenza, quelle di rifiuto, quelle nelle quali la band si scontra con se stessa, con il produttore, con il tempo che non sembra in grado di accettare che questi figli non vigilino sul reale, ma decidano invece di posizionarsi sulla coda del tempo per dare una serie di addii. Muore tutto in queste nove canzoni, nessuna ipotesi di copia e incolla, di una riproduzione o di una continuazione, perché il vero capolavoro è quello in cui il proprio senso, il proprio spazio, nella collocazione misteriosa che non mette a proprio agio nessuno, sia un archivio irraggiungibile anche per il futuro.

Closer, dall’iniziale terremoto sensoriale, diventa una galassia in continua esplosione, tra ritmi tribali, circonferenze genetiche in ebollizione e la smagnetizzazione di ogni fiducia. Non può e non deve piacere questo insieme di tensioni, ma devono essere insegnanti ingobbiti dalle diottrie dubbiose in quanto, forse, il primo guadagno di questo lavoro è proprio quello di dare alla vista meno importanza possibile. Ed ecco quindi che l’apparato uditivo si trova a soccombere, incapace di gestire queste non canzoni, queste disarmonie, stonature, ansie, apprensioni e suoni cadaverici che sotterrano ogni sorriso.

Ha una collocazione temporale scolorita dalla mancanza della conoscenza e della memoria da parte di chi quegli anni non li ha conosciuti, vissuti, desiderati: molti album del 1980 sono coperte lise, bucate, assottigliate, e se questo ha resistito è solo apparentemente per un legame con la tragedia.

Ora è tempo di scendere nelle corsie di queste composizioni per assestare alla consapevolezza un uppercut deciso, perché nulla è concesso all’ascolto se non avere un vuoto vicino nel quale gettarsi…


Song by Song


1 - Atrocity Exhibition

Con un inizio tribale da cui i Cure prenderanno moltissimo, si entra nella zona della non melodia, di una continua infiltrazione psichedelica che viene controbilanciata dal cantato di Ian, l’unico in grado di dipingere una sottile linea armonica. Ma è un tripudio di suoni, sciabolate, con il basso che pare affiancarsi al funk per rallentare la venatura acida dell’approccio chitarristico di Bernard, mentre Stephen mette ghiaccio nelle vene per una omogeneità, non voluta, con le parole del cantante. Un inizio snervante, lungo, che subito mette in chiaro le cose: Closer non sarà la festa dei sensi ben pettinati…



2 - Isolation

Unknown Pleasures si affaccia solo per il basso pieno di nevrosi e il drumming, per il resto avvertiamo la presenza di un synth che getta la band in una nuova zona e prospettiva: precedere il tempio della musica con una esagerata esibizione di mute espressioni in circospetta esibizione. Pare mettere dosi di allegria quella tastiera ma, invece, il brano è una splendida contorsione, nel dirupo di una solitudine che avanza e reclama attenzione. Si danza come robot in prestito dai Suicide, evidenziando piuttosto i confini di un rock in fase di escursione. 



3 - Passover

L’autonomia dell’intenzione, quando è ingravidata da certezze nerastre, si fa supportare da chitarre accennate e taglienti, un basso quasi nascosto, un drumming semplice ma militare, sino a quando si scopre una evoluzione che genererà, nell’arpeggio di Bernard, un nuovo genere musicale di cui i The Sisters Of Mercy saranno i primi discepoli. Ian è un rabdomante calcolatore, spietato, chirurgico, mai impulsivo, trattiene la catastrofe dei versi in un cantato che sembra solo apparentemente privo di ogni emozione. Brano che mostra lo scricchiolio dell’anima e una capacità della musica di continui allarmi, la non voglia di trovare un momento in cui la canzone possa conoscere vette diverse. Misteriosa, dilegua in ogni suo movimento il desiderio di vivere…



4 - Colony

L’attacco glam, poi via, dopo pochissimi secondi, nei territori dei Killing Joke, dove il nervosismo passa attraverso i cavi, le rullate e le oscillazioni di una chitarra epilettica…

Roboante, sfibrante, una progressione di tagli sulla pelle e la sensazione di una gemma che desidera nascondersi…



5 - A Means to an End

Il futuro conosce se stesso solo dopo la morte: questo miracolo balistico spazza via la storia del Post-Punk, di ogni dottrina preventiva per spalancare lo stupore e irrigidire i nervi. Invita la danza a rimanere legata come una prostituta mentale, per generare delirio e maldicenze varie. Il primo momento di una costruzione scheletrica dei futuri New Order appare come un arcobaleno in decadimento, che misura le cose, gli impeti, affidandosi a una chitarra che pare figlia dell’album Scream dei Banshees. Ma il basso di Hook è il vero mantra, colui che ipnotizza prima che il cantato baritonale di Ian ci sequestri l’anima per l’eternità….



6 - Heart and Soul

Una vita, gli eccessi, gli estremi, le calamite, i disordini e l’ubbidienza a un destino da scrivere in fretta assorbono l’intera composizione con un cantato quasi dolce, perfettamente intonato, quasi potente, del tutto devastante, all’interno di una architettura che non indugia ma che trova il metodo per strutturare il tutto in pochi movimenti sino a dare, nel finale, l’impressione di un abbandono volontario a se stessa. Tutto è accennato, misurato, scheletrito, raffreddato, messo nella cantina delle decisioni che logorano i nervi, annichilendoli…



7 - Twenty Four Hours

Il manifesto e l’apoteosi di un attorcigliamento dei muscoli trova la pulsione Post-Punk all’interno di bacilli e virus che rendono l’ascolto un cielo in caduta libera, senza appigli. Magnetica, buia, devastante, affida al terzetto musicale il compito di disegnare lacrime, mentre a Ian tocca illuminare il disastro esistenziale, in un epilogo che frantuma ogni sogno. La voce, sapientemente illuminata dalle polveri oscene di un villaggio artico, rende inutile ogni gioia, con l'imbarazzo di un ascolto che potrebbe, da solo, spezzare ogni respiro…



8 - The Eternal

Martin Hannett scrive il suo epitaffio con la band di Manchester, donando la sua classe a una canzone che non è altro che una processione misurata dal minimalismo di un piano che tocca le lacrime portandole dentro le parole di Ian, per dare a questo palcoscenico l’odore di macerie intellettuali e fisiche, in un abbandono floreale che incanta sebbene paralizzi. Si entra nell’intimo, nei posti normalmente inaccessibili, di un'anima in litigio con se stessa, dove la frattura evidente si specchia nella teatralità di cupe e avide atmosfere. Muore la Musica attraverso uno spettro cupo rimbalzante nella voce piovigginosa che annichilisce il pianto. Niente di simile era mai apparso prima e non troverà il futuro a sospirare per un seguito: il brano è una processione che oltrepassa le definizioni, perché inserito in una nuvola che si dissolve secondo dopo secondo…



9 - Decades

L’ultimo petalo è sintetico, una tastiera che sembra uscire da un videogame in bianco e nero, un progressivo e lacerante consumo di ogni vitalità entra nel cimitero dei sogni a sincronizzare la giovinezza con la vecchiaia di ogni volontà, nella sfibrante decadenza di una esistenza che cancella ogni scatto. Un assolo della tastiera conduce Ian a porre una domanda che mette l’assenza sul trono, a testa bassa, in uno spazio dove ogni respiro nel microfono diventa un grido sincopato che non fa altro che pronunciare una sentenza obbligatoria, lasciando il cuore nella sua dannazione. Secca, come una tavolozza acrilica senza pulsioni, la canzone esalta il mood dell’album e abbraccia la band nel suo saluto: non esiste addio quando la storia ha deciso che questo lavoro rappresenterà un unicum per i posteri, con l’imposizione che nulla dovrà assomigliargli…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9 Maggio 2024


sabato 4 maggio 2024

La mia Recensione: Piero Ciampi - Piero Ciampi


 

Piero Ciampi - Piero Ciampi


Ma che bella responsabilità assistere al talento, al lavoro, alle qualità di un altro e non fare nulla, se non scendere dentro la polvere aspettando la sua essiccazione. Che cosa strana è l’ascoltatore medio, afflitto dal desiderio di essere felice all’interno della massa per trovare forza, solidarietà, senso e posizione. Tutto ciò gonfia il petto e sgonfia l’apprendimento, atrofizza la genuflessione che non è segno di paura ma di devozione, di uno slancio che sublima il tutto.

Quando nella mente arriva la possibilità di potersi trovare all'appuntamento con la bellezza che sporca le vene, si vive un ascesso del cuore e tutto bolle, ribolle, si amplifica, dilata, spaventa, deterge e assorbe l’incomprensibile e l’inimmaginabile. Questo accade nel momento in cui nelle orecchie della percezione arrivano le corse lente di un maestro senza la laurea, non  attribuitagli da un corpo docente sempre più spavaldamente ignorante. Insegnanti del niente che vivono in modo corsaro nelle case di un’Italia sempre più analfabeta, almeno per quanto concerne l’arte di sicuro.

Piero Ciampi è una croce mobile, un tatuaggio dell’altrui sbaglio, un abbaglio da cui fuggire in quanto non esiste la possibilità di un confronto con chi non ha caveau, sogni segreti, racconti segregati nei bauli delle cantine. Lui no, scava, porta e riporta ancora ogni resa che abbia un dettaglio, minimo, che possa respirare nell’inconsapevolezza che fa arrendere il suo talento senza limiti, proprio lui che con essi ha giocato una sfida enorme, vincendola, senza nessuna medaglia sul petto. Canzoni? Per nulla! Siamo davanti a delle pepite, a dei graffi ingestibili, a degli accorati accorgimenti, fallaci in modo stupendo, con una dignità perfettamente legata solamente alla sua identità, e di nessun altro, in un girone unico dove approcciarsi significa immergersi in un buio che riporta in voga il periodo in cui l’uomo scappava solo dentro le corsie del cielo. In questo secondo album l’artista, a cui dare una residenza significa sconfiggerlo definitivamente, compie una serie di imprese capaci di mettere fuorigioco l’ascoltatore, il passante, l’essere perennemente rinchiuso in una stanza, l’intellettuale con la verità in tasca, tritola il sognatore romantico, prende a pugni il metodico, chi è maniacale, chi cerca negli altri domande e risposte. Quattordici anestesie, amnesie, lampi, poesie, afflizioni, contrizioni, fughe sghembe, speranze mute e sorde,   esagerazioni per nulla fuorvianti, fantasie come stelle mai come le immaginereste, tavoli e baldorie ipnotiche, sconvolgimenti, assoluzioni, benedizioni, invettive sottili in bianco e nero, favole robuste come carta assorbente. Magneti coi poli ubriachi a confondere la rotta, onde che ascoltano i battiti ribaltandoli nelle illusioni più sconsiderate, amori balbuzienti e sconfitti in anticipo, figli assenti, dolori sempre presenti come gittate ineluttabili, amici da curare come un’anima imprigionata da una ricerca che crea danni a prescindere e tanto altro, in un calvario che spossa e droga chi le ascolta.

Piero trita le convenzioni e, con il lavoro sapiente, elegante, commovente di Gianni Marchetti, le canzoni diventano approcci visivi, metafore e incudini, dove il jazz, il progressive più contenuto e moderato, i respiri leggiadri di un approccio a quella musica classica ancora bacino di ispirazioni, il folk che salta nei luoghi e nel tempo, consentono una variegata parata stilistica, nella quale le combinazioni diventano scintille lente, capaci di essere viste per l’eternità, in cui non è il crescendo che galvanizza ma il dover ascoltare con estrema attenzione. Non è solo nella velocità che si possono sentire fuggire le cose…

Le chitarre acustiche, gli archi, la batteria, il basso sono la base per le scorribande delicate di un pianoforte ribelle, educato alla bellezza senza bavagli, anzi, un foulard rosso che vola sulle note per annettersi alla volta celeste celebrando una natura che, in modo spavaldo, indietreggia e avanza nella storia di impianti musicali non solo italiani, per un delirio che tocca le pareti del cuore.

Una collaborazione tra due geni che fanno dei propri campi espressivi un baluardo, un raggio di azione, un limite, una esasperata e deliziosa libertà di non avere impicci dentro queste flessioni di incanti senza catene. Non c’è nessun compromesso bensì due corpi solidi che, quando vengono uniti, rendono l’ascolto un fiume che bacia il mare senza cambiare il colore della propria pelle. Si piange, ci si sente sgomenti, si ride amaramente, ci si ritrova all’interno di correnti che non ascoltano le altre e si entra nelle diagonali delle stagioni della vita, avvertendo gli enormi grappoli vitali di testi che baciano le fascine musicali per trovare una perfetta definizione della solitudine che vive di transiti, approcci e malinconie che quando escono dalla sua ugola paiono moltitudini senza il fiatone, perennemente in viaggio.

La sincerità è l’impronta digitale di un’anima che non soltanto sonda, scava, ma soprattutto porta alla luce il calore dell’inferno, le sue diramazioni, con l’arguzia di momentanee anestesie, per dare al dolore qualche piccola possibilità di riposo. Piero è un operaio della verità, e, da poeta prestato alla canzone, pone le domande che scomodano l’intellighenzia, le classi sociali meno strutturate alla felicità, e intere categorie di anime intente a essere leggere e che, dopo averlo ascoltato, precipitano nell’onda plumbea del disagio. Pone quesiti dentro storie nelle quali si danza a fianco del peccato, scompone le sicurezze e manda a quel paese il cattivo gusto nel tempo in cui l’Italia vede addormentare la ragione che conduce al vero benessere. Lui spoglia tutto, come gesto di stizza, come atto necessario, inequivocabile, con parole che sono diserbanti naturali, attrezzando paragoni con la vita animale, tra purosangue che avanzano buffamente, conoscendo la metamorfosi e l’inquietudine del cambiamento. 

Aleggia nei suoi versi una timidezza fotonica, per riuscire a rendere il pensiero un oggetto, gretto, pesante, adiacente all’impossibile,  libero di ingannare ogni tentativo di caccia: solo ai veri poeti è consentito fare questo, spiazzando, come conseguenza, chi si pone di fronte con l’intenzione di capire. È proprio con la poesia che gli studiosi si garantiscono l’ignoranza e il fallimento. Piero Ciampi rifiuta le gabbie e nelle sue parole ci sono i princìpi di Michael Bakunin, la follia di Edgar Allan Poe che cattura l’ignoto, la suadenza di una pellicola muta francese degli anni Venti e le campagne piene di fattorie cadute in miseria. Non le vedi ma le percepisci queste situazioni, in un marasma di ipotesi che lui controlla per renderle inattaccabili. Quando ci si commuove si conosce sempre la perdita e, se esiste un guadagno, è quello di fare della sua esperienza un monito per la nostra.

Crea distanze, sobborghi dove far stagnare le colpe, dando alla inutilità un raggio di azione in cui ci immerge, con la sua risata invecchiata a congelare ogni pseudo entusiasmo. 

Un disco purtroppo troppo vero, immenso e immerso in un vapore che solo la stupidità ama veder dissolvere e invece dovremmo farlo divenire una enciclopedia comportamentale e attitudinale che renda gli sbagli scevri della volontà di posizionarsi…

La mancata presenza di una forma canzone insistente fa intendere come costruzione e improvvisazione siano due cardini entrati in contatto per non dare fieno da mangiare alla stupidità crescente che ha inghiottito questa forma artistica popolare. I due insabbiano i trucchi, danno alla magia la bacchetta per essere custode dei segreti e si beffano delle definizioni, compiendo passi da giganti, portando avanti nel tempo quello che ancora oggi non si riesce a intendere. Coniugando il sapere e dando spazio ai guitti, questi artisti hanno trovato il modo di essere spavaldi e irruenti, con uno stile unico, raschiando pellicole di vita in luoghi sospetti, dando dignità a strutture che spesso non venivano considerate, con una sintesi quasi cabarettistica per passare ancora di più come una eruzione folle senza possibilità di essere creduta. Eccoci, quindi, al cospetto di raggi dentro i miraggi di appunti come spartiti nel vento: non lo si cattura e non si cattura questo insieme di canti e note in continuo stato di spostamento, cancellando baricentri e scomponendo le forze per conoscere il colore dell’urto. Sono lividi queste composizioni, sono rantoli, sono il canto di un perdente mentre fa calare la tristezza dentro il pozzo dove i desideri non possono sistemarsi. Piero e Gianni diventano il valzer dell’addio, il jazz che ossida, il blues che è attento a non paventare la sua presenza, per rovistare nelle carni di un pentagramma che sembra spesso uscire dai balli a palchetto degli anni Cinquanta per garantire la memoria e il rispetto. La drammaticità vive, come una forma rinascimentale gravida di allucinazioni: non creano dipendenza se non a chi sta nei loro paraggi per quattordici appuntamenti con l’ampiezza, le offerte, in una scrittura che è pura forma giornalistica, quella che entra nella ricerca di ciò che è vero e reale, per descrivere anche ciò che può voler stare lontano da tutto questo, in un carrozzone mai confusionario bensì preciso, come un intervento che serve a estirpare il cancro più grave di tutti che è l’illusione.

Quando ascolti questo album i libri e la vita si aprono, con riferimenti non sempre ovvi, con stupori, con rimembranze, con citazioni nascoste per legittimare genialità che stuzzicano e invitano gli spari a far fuggire i mediocri, mentre la famiglia, il lavoro, i piaceri vengono condotti nella stanza della resa, per essere meno spavaldi e boriosi. Non alza mai la voce Piero, casomai, raramente, il registro del cantato, sempre come se fosse un atto gentile. È tutto facilmente riassumibile in pochi versi: “Quando t’ho vista seduta accanto a me, le labbra aperte ai suoni del mattino, volevo tacere, porre fine al ricominciare”. Una fucilata poetica disarmante, inequivocabile, che rende le parti unite e disunite, nel gioco perverso di una distanza che vorrebbe essere diversa. Perché nulla della bellezza serve se non viene inseguita con un disagio paralizzante, nutrendo il linguaggio e le immagini di una catarsi che dopo aver spossato il pensiero lo getti nel fango. 

Canzoni che rimorchiano, graffiano la vita nell’estate immaginaria di un viaggio dove gli affetti sono abiti che conoscono spesso il ricambio, per sincronizzare i desideri nuovi con quelli privi di luce. La solitudine rende povera solo la parte della pelle che si vede e che Piero ci consente di odorare, tra portate piene di zuccheri e abbracci richiesti.

I sapori sono l’ebbrezza che attraversa lo champagne e il vino rosso, in un tripudio che odora di imbarazzo e necessità che avanzano, in un palco pieno di giornali, goffi movimenti e i dolori a un fianco messi sotto l’occhio di bue per conferire una circonferenza logica al tutto. L’amore nell’album è un arredo che non consola gli occhi, non profuma di pace, attraversa invece lo sconforto, l'inadeguatezza, avvilisce e fa smarrire i sogni, sparge veleni senza rifiutare l'ipotesi di un benessere minimo. Le creature musicali diventano appunti da leggere dopo cena, in modo distratto, durante una passeggiata tra vicoli acclamanti la luce mentre nell’anima il buio si assesta e rovista, per trovare quello smarrimento che spossa e ingigantisce la pigrizia e il pentimento. 

Le sue composizioni le viviamo come l’autore nato a Livorno quando per vederci un minimo beve “un litro molto amaro”: uno sconvolgimento necessario per uscire dalla finzione di anime posate, mai in affanno. Ecco che l’eccesso rivela la vera natura della nostra incoscienza.

Una detonazione continua che solamente la poesia del suo vagabondare permette di accettare, perché la pelle ricoperta da quella polvere è la sua: lui riesce a farci provare l’incanto di questa visione lasciando alla nostra coscienza la facoltà di decidere se sia una colpa o meno.

Quando ci troviamo nei sogni di una donna con la follia esibita nei suoi versi, il brano riesce a regnare, a diffondere le note di un piano di New Orleans e a farci ritrovare fuori zona, fuori luogo e fuori dal tempo, come la magia sa fare senza balbuzie.

Conosce, questo sipario mobile, la modalità che rifiuta di divenire un’attrazione, dando ai versi il potere di spostare i bisogni, senza la possibilità di riconoscersi, per rendere la sua e la nostra solitudine incompatibili. 

Gli archi sembrano prendere questo potere per esaltarlo, in voli e danze che sfiorano l’epicentro di un terremoto nel cuore dell’universo, lontano anni luce dal nostro comprendere. 

La vera genialità non comprende condivisione, rendendo ancora più cruda la distanza delle differenze: l’album più intenso, perverso, incandescente, libertario, raccapricciante nell’accezione positiva, più seducente e pesante di tutti gli anni Settanta e, probabilmente, non solo.

L’unico augurio che possa fare il Vecchio Scriba è di fare una grande indigestione di questo raro capolavoro globale e di soffrire di spasmi che conducano alla grande verità: “è successo un fatto strano” e siamo ancora qui a non capire quale sia, dentro una meravigliosa merda…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
4 Maggio 2024

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