La mia Recensione:
Virgin Prunes - Caucasian Walk
Le stelle del cielo di Irlanda sono state intossicate nell’anno del Signore 1982, intossicate da una nube fradicia di ogni tempesta emotiva. La causa di questo dolore stellare è stata generata da un rito pagano pieno di veleni assortiti, messi dentro un pentolone da sei druidi saggiamente impazziti: volevano far arrivare alla volta celeste i sapori di questi intrugli e non hanno fallito nell’intento.
Il tutto si chiamava If I Die I Die.
Da questo involucro malato e perverso si eleva come massima espressione artistica la canzone Caucasian Walk, che è un insieme di liquidi malsani e contaminanti oltre ogni immaginazione: tra urla nevrasteniche, danze arabe distorte controtempo, un loop degno dei P.I.L. più crudi e selvaggi, tutto è proteso verso il palco del diavolo che celebra la creazione di questa terapia urticante.
Il testo evoca una paralisi emotiva e creativa, con annessa una critica molto violenta atta a liberare i denti della follia per un morso letale. Parole che intrappolano e seducono, fanno sentire perfettamente il puzzo di morte che intanto esce dal pentolone.
La produzione dell’album fu affidata a Colin Newman dei Wire: ha saputo contenere i sei ragazzi scatenati di Dublino ma niente ha potuto con questo brano, in quanto era impossibile trattenere l’impeto che sgorga da note e modalità davvero vulcaniche, che sembrano provenire anche dal primo album di Siouxsie & The Banshees.
Davanti allo specchio dove la razza umana e la bestia si trovano pronti ad affrontare un duello, la tribù delle prugne vergini va all’assalto, facendo vibrare tutto.
L’arte, pura come un purosangue scatenato, esplode dentro i solchi: non esistono ostacoli che la canzone non possa superare, trascinando l’ascolto in una danza sbilenca e vorace, siamo come assatanati che ringraziano questi druidi pieni di coralli dalla schiuma calda.
Asfissiante, corrosiva, robotica, con un impianto melodico che è una sirena di un’ambulanza addomesticata, le voci arrivano a completare il tutto dando l’impressione di una rivolta che dall’Irlanda è pronta a conquistare ogni anima che voglia concedersi a questa ipnosi molecolare.
Il brano accenna ad una violenza controllata e di sicuro riusciamo a sentire quelle parole esattamente capaci di farcele percepire appropriate su un ritmo che è una serie di pugni allo stomaco. Il finale è il palcoscenico, osceno, di due creature che con il loro canto picchiano le stelle e non solo sopra le loro teste: una canzone come questa non può essere fermata in nessuna parte del mondo. Gli Dei concedono il lasciapassare per un avvelenamento che non lascia salvo nessuno.
I suoni sono evocativi, tra il terreno e l’incubo di un inferno interessato a questi irlandesi che sembrano avere tutte le carte in regola per diventare un giorno cittadini onorari, per via di questa follia che dimentica la calma e le buone maniere: i Virgin Prunes sono splendidi diavoli, eccitati, eccitanti e in Caucasian Walk hanno già gettato il loro carbone lavico, senza esitazioni. Basterebbe già il testo per capire che esistono demoni interiori nelle loro menti ed è spettacolare come ciò che sembra un ben riuscito atto lisergico possa però anche dimostrare quella lucidità che deve essere riconosciuta. Rilevano i problemi generosamente offerti dalla politica, arrivano ad accennare alla frustrazione sessuale mettendo il tutto dentro quel famoso pentolone. Sono graffi estemporanei ma continui, vocaboli che vengono fuori non da un cut-up o da improvvisazioni spontanee: c’è un piano di lettura della realtà che, se osservato attentamente, ci conduce, insieme a loro, a scorgere il mondo malato e sconvolto.
Diventa facile perdersi, liberare ogni paranoia dentro l’involucro di questo spazio creativo che sembra puntare a renderci anime in viaggio dove all’arrivo è pronto ad accoglierci un nuovo pellegrinaggio: raggiunta la Mecca si riparte con la bava alla bocca per trovare nuovi luoghi nei quali l’obiettivo è non rimanere invischiati.
Tutto diviene un impasto di colori, di trasgressioni, di umori tenuti incollati da un loop minimale ma capace di saldare il tutto verso un terreno dove ogni cosa si libera, non come catarsi ma come rifugio, folle ed essenziale, in modo da dare alla libertà una maschera, aver paura della quale è l’ultima delle preoccupazioni: occorre assaggiare il gusto del veleno e diventare come le stelle, intossicate ma felici…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
1 Luglio 2022