Gene - Olympian
“Nessuno è inutile in questo mondo se è capace di alleggerire i pesi di un altro uomo.” Charles Dickens
“Se avessimo una forte visione e percezione di tutta la vita umana quotidiana, sarebbe come sentire l’erba che cresce e il cuore dello scoiattolo che batte, e moriremmo di quest’urlo che esiste dall’altra parte del silenzio.” George Eliot
Una stella fatica a guardarsi: nel cielo non esiste nessuno specchio e l’idea che si ha di sé rimane tale, un vagare senza certezza. Questo accadeva nei primi anni Novanta nella musica Inglese: la capitale europea stava cedendo lo scettro, la Regina era morta da anni…
Arrivò la stupidità del giornalismo inglese che inventò la dicitura Britpop e fu la continuazione di un delirio che creava schieramenti inutili.
E poi Londra.
I Gene.
Emerse un palo della luce dentro il caos di quella città e aveva sin dagli esordi mostrato le rughe della bellezza, dell’intensità dello sguardo, aveva ossigenato l’aria con la poesia di immagini che avevano consentito la nascita di due singoli strepitosi, non inclusi nell’album. Non una meteora, non un inganno, non una metafora, non un affanno, bensì la necessità di una scrittura che ponesse quelle quattro anime distanti dalla confusione dello Star System.
Matt James (il batterista, il più fantasioso di quegli anni) e Kevin Miles (il bassista, quello con il tocco più delicato) passeggiavano nel tempo con i sogni e le pinte di birra, in attesa, in frenata, senza aver paura di sprecare la prima occasione che sarebbe potuta arrivare. Una sera, a un concerto, Steve Mason, giovane di una bellezza sottile e quasi nascosta, senza la sua amata chitarra, incontrò i due in un locale: l’inizio di un delirio con le rose sul capo trovava una fisicità che di lì a poco avrebbe manifestato un talento enorme. Nacquero gli abbozzi, i tavolozzi, i respiri senza parole, senza immagini. La storia, si sa, aspetta sempre un lampo, in questo caso biondo e timido, e il suo nome era Martin Rossiter, l’angelo della pianura, quella dove i palazzi e i ponti creano immagini potenti. Nacque la band, e nacque Olympian, il primo folle freno, l’anticipo di quello che poi sarebbe stato il secondo album, meglio strutturato e prodotto, senza però il sudore sulla schiena.
Inquadrare le strutture di questa collezione di gocce di sudore è semplice: il pop aveva trovato un dolore giusto, la penna, non miracolata ma vera, per dettagliare lo sconforto e la solitudine cadere insieme alle lancette del Big Ben. Ma c’era tanto da fare, in quanto esisteva un mondo nel circuito Londinese che si opponeva: i Blur e i Suede dettavano legge e si doveva passare da loro per avere il lasciapassare. Ma Steve, il guerriero, il diavolo vestito di marrone chiaro, che aveva tra i denti melodie inarrivabili, cambi ritmo che, con l’immenso intuito di Matt, potevano sublimare l’arte senza tennamenti, aveva deciso di affrontare a muso duro le due band.
Tutto parte con una canzone nata ascoltando un festival, presentato da John Peel. Da quell’istante la musica, per i quattro ragazzi dalla risata facile, non sarebbe più stata un gioco.
Il vecchio scriba ha visto la genesi di quelle undici luci di candele, e mai avrebbe immaginato che sarebbero entrati degli strumenti e si sarebbero presentati degli arrangiamenti a disarcionare le prime impressioni.
I violini, il cello, la tastiera del vicino di casa di Martin: queste tre situazioni avrebbero sconvolto per sempre i primi pianti di queste tenere e fragili discese di pioggia. Pieni di dubbi, con la malsana convinzione che il mercato li avrebbe respinti, i ragazzi londinesi non cercarono di promuovere l’album più di tanto, vista l’armata britannica che era scesa in campo: troppi i dischi, le storie, le mode, la confusione da dover affrontare per avere la certezza di una anche misera attenzione.
Olympian è un trattato di economia domestica della riflessione, di emisferi in contatto, un calvario educato, con il presente che è indice di tensione e il passato che non riesce a svanire: nessuna fuga possibile, per far così divenire la penna stilografica di Martin in grado di far scendere, liofilizzate per la maggior parte dei testi, storie dove il capriccio di un desiderio non poteva che durare per pochi minuti. Si spiega così la rabbia del vecchio scriba davanti alla stupidità di chi ha sempre paragonato questa band a una di Manchester: non ci vuole poi molto per sentire che ciò che suona all’interno del disco è Londra, solo Londra, il Nord non riesce proprio a entrare. Prendete i ritmi delle chitarre acustiche ed elettriche di Mason: i Jam sono lì. Sorridono, applaudono e possono stare muti: i nipotini hanno la loro forza, la scorza e la volontà per divenire qualcuno senza somigliare a nessuno.
Non vi basta? Ascoltate Matt James: sembra pure lui scrivere le parole, giocare con Martin per far cantare le sue bacchette, anticipare l’ugola col fumo dentro di questo cantante potente, che sfiora le emozioni prendendole a ceffoni sorseggiando del buon Brandy.
Già, l’alcol: le canzoni fanno l’effetto di una ubriacatura in un giorno di nebbia, togliendo i punti di riferimento, spostando i punti cardinali a piacimento, per un insieme che dura meno di un’ora.
Il tempo, questo nemico della stupidità, amico della sensibilità, scombussola la scrittura di Martin: deve giostrarlo, deve batterlo, e cosa fa per raggiungere questo obiettivo? Lo seduce, gli dipinge, nei versi, tratti che lo rendono quasi sereno, con inganni straordinari, riusciti, facendolo cedere. Fu alla fine delle registrazioni di Olympian che Rossiter capì di avere il grande male dell’anima, e quello gli piegò le gambe, ancor prima di iniziare il tour…
Leggere i testi di questa testimonianza, unica, di una dolce ribellione, e di una già matura propensione al cedimento, fa nascere immediatamente la convinzione che questo fascio di tossine non l'avrebbe portato tanto lontano, e così avvenne. I temi, le vicende, le storie vissute dai personaggi di questo disco sono tutti con la voce debole o piena di raucedine, mai limpida: i loro giorni sono storti e contorti, e ogni inizio di giornata è uno schianto. I quattro trovano il sistema di sembrare distanti dall’attualità: non sono attaccati morbosamente agli anni Settanta come i Suede, non sono così dinamici come i Blur, non sono così stupidi come gli Oasis, o frivoli come gli Elastica, bensì più inclini a mediare come i Mancuniani Mansun, dentro territori leggeri dove i riferimenti non lasciano troppo le orme.
Il rock graffia senza necessitare di eccessivi distorsioni, il Northern Soul è più nell’ugola di Martin che negli strumenti, il blues è quello americano, obliquo, con i colori di una sei corde che non esita mai, e che conosce la storia ma sa inciderne una nuova. Si danza con il taccuino degli appunti, le lenti del cantante diventano le nostre, scompare la moda di Carnaby Street e si entra nei Docks con gli anfibi, di notte, confusi e infelici: non è il sole che può servire a una città che, sin dagli anni Sessanta, ha inventato luci false…
Ecco la similitudine con gli Small Faces: l’eleganza dell’opposizione, sempre. Dal punto di vista climatico, si hanno oscillazioni d’umore, non si può negare l’evidente bisogno di mostrare e nascondere la realtà, partendo dal linguaggio, sia musicale che letterario. Ci si sposta, quindi, più verso l’inizio del secolo scorso che non negli ultimi tre decenni. Viene spiegato in questo modo la necessità di Mason di spaziare nel blues e nel country, non quello degli anni Novanta di sicuro. Il basso spesso decide la direzione, illumina la voce, mentre gli accordi sono sempre in attesa di morire, sorridenti…
C’è un episodio, in Olympian, che da solo potrebbe portarvi lontano dall’ascolto che, onestamente, è quello che vorrebbe il vecchio scriba: questo lavoro deve morire prima o poi nel suo petto o in quello di pochi altri.
L’episodio si intitola To The City, la trasgressiva, la maleducata, la meravigliosa forma di capriccio che porta l’album sulle onde del Mississippi: non più armonia, ricerca di colori tenui, ma una aggressione, iniziale, nei confronti di ogni gentilezza. Ma, se ascoltate bene, noterete come poi i Gene siano capaci di far arrivare atmosfere Francesi, i Byrds bussano, i Rolling Stones pure, sino alla veemenza di Steve che porta la canzone nel suo bacino pieno di fili elettrici scoperti.
Olympian non esiste, è un piano onirico nel bel mezzo degli anni Novanta, un’oasi nel tempo degli Oasis, una incanto senza medaglie, ma con quella unicità che fa sì che a ogni ascolto si muoia un pò di più…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Supino
23 Aprile 2023
https://open.spotify.com/album/63pLihcr6nXOYNy0mzUWdV?si=9nlAjmv8Tk2yFOqpAJhUQA