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giovedì 9 maggio 2024

La mia Recensione: Joy Division - Closer


 

Joy Division - Closer


“Il dolore più grande del mondo è quello che, goccia a goccia, trafigge l’anima e la spezza”

Francisco Villaespesa


Nella storia umana esistono legami che si tramandano senza che ci sia il contatto diretto, come una traiettoria che oscilla nascostamente. In questo caso stiamo parlando della Odissea, il trapianto delle avventure più estreme che, nel marzo del 1980, in soli tredici giorni, ha deciso di entrare nel corpo musicale di un progetto pieno di sintomi adiacenti all’originale, un viaggio catastrofico e allucinante, planato nella radura fredda degli studi Britannia Low, a Islington, Londra, per consegnarci non un idillio bensì il metro che misura la differenza tra il bene e i malesseri più estremi.

Tra Salford e Macclesfield esistono 41 chilometri e i quattro ragazzi si spartivano questa distanza recandosi a Manchester, la cupola grigia dell’esistenza più torbida e sconquassata. Il divertimento consisteva nella fuga dalla realtà, creando isole immaginifiche all’interno di un circuito elettrico fatto di note musicali ed estremi paradossi. La cultura della città lasciava l’ozio dei primi anni Sessanta e nel bel mezzo degli anni Settanta sprintava per accaparrarsi simpatie, favori e il consenso delle stelle. I Joy Division furono la frattura più evidente, ma mai vennero ostacolati: i Buzzcocks intravidero la loro nera bellezza e li accolsero per un tour durante il quale i JD scrissero le 9 canzoni che dettero a Unknown Pleasures un triste primato, vivo ancora oggi, ovvero quello di fare un album nuovo che smentisse molta di quella attitudine senza mancare però di qualità. Closer è un urlo ragionato, diabolico, magnetico, un’onda magmatica di stanchezze, introspezioni, una febbre in bianco e nero che permane, senza esitazioni. Raccoglie i detriti di un’anima allo sbando, il pulsare entusiasta degli altri tre componenti, giovani pieni di vitamine e speranze, deliziosi fannulloni in cerca di uno status che li porti via da questo agglomerato urbano sempre più in conflitto con la vita quotidiana. I testi, infatti, sono un diario giornaliero nei quali i pensieri non sono assunti a manifestazioni artistiche disarticolate dalla realtà ma ne sono invece il calco, l’impronta, lo scatto attitudinale di una volontà che si precisa nell’affermazione della debolezza come il limite che non può essere battuto. Nove composizioni divise in due lati: il primo gravita dentro la sistematica intenzione di mostrare l'inaccessibilità, il non piacevole che richiede il congelamento riuscendo però a far sudare l’anima. Il secondo è un ammasso di pensieri in totale putrefazione che si fanno accompagnare da musiche tetre, lapidarie, piene di pioggia e vento, per portare lontano, nel ricordo postumo, un’assenza di energia che somiglia a un canto senza i magneti della disperazione.


Sin dalla copertina, dove viene eliminato il significato religioso (della Madonna appare solo un braccio e il Gesù di Nazareth è quasi totalmente nascosto), capiamo che siamo innanzi a una immagine che non riassume il contenuto bensì indica la partenza, l’intenzione, l’estrema bellezza e intensità della fascinazione nei confronti della morte, qui mostrata nell’atto della vicinanza, dell’accoglienza, della spartizione delle lacrime. Ma il secondo lavoro dei JD non è una sintesi del dolore, nemmeno un cielo che attraverso l’esaltazione possa condurlo alla devozione. È un resocontare con la bilancia su un palmo e lo sguardo smarrito sull’altro, in un gioco dinamico di forze in grado di far perdere le coordinate. Closer è un boato sotto forma di un giocattolo con le guance essiccate attraverso un Post-Punk chirurgico che contempla l’assunzione di nuove metodologie espressive. Ecco, dunque, nei solchi apparire, “dolcemente”, i pruriti di una Coldwave spaventata, i primi vagiti di quella Darkwave che si prenderà la giusta quota di responsabilità subito dopo l’uscita di questo gioiello. Non mancano quote di una psichedelia elaborata e di una propensione a dare ai rumori quella validità che nella musica industrial poteva anche procurare fastidi. Il disco, per mezzo della maledetta capacità di Martin Hannett di raggiungere quella perfezione non gradita dai quattro, mummifica l’emozione (quella spontanea) per generare un corto circuito mentale nel quale lo smarrimento, la paura e la tensione fanno sembrare il tutto il frutto di una proiezione cinematografica, per consentire all’horror e al drammatico la convivenza, non forzata.

Troppo si è detto sul suicidio di Ian Curtis, del testamento e di tante altre gratuite ingenuità e sciocchezze: ci troviamo, invece, nel territorio di espressioni sbilanciate, impeti ingovernabili, gioia e dolore come una pastoia inevitabile, con la capacità di suscitare pensieri pieni di magneti sanguinei in costante caduta. Ian parla di se stesso e lo fa davanti a un microfono: nessun testamento conosce questa dinamica…


Dovremmo pensare a come per una volta la musica si sia disinteressata dei testi e che solo una magica congiunzione abbia potuto far credere a un legame tra le due parti. Ma Bernard, Peter e Stephen in quel tempo non ascoltavano nemmeno il cantato del povero ragazzo diviso e atrofizzato dagli spasmi. Dopo quarantaquattro anni si può affermare che sia stato un bene, una coincidenza strabiliante da lasciare sbigottiti. 

I temi affrontati nel disco sono circumnavigazioni spettrali, con la fatica incollata alla mancanza di ogni speranza, un lucidare la morte spegnendo la vita, depositando i sogni nel caveau dove ogni interesse non poteva maturare. Eretto, nerboso, elettrico e potente, una incudine lenta con accelerazioni che precedono la lunga processione che conduce nella zona del silenzio che può consegnare la verità. I brani sono uniti solo dal fatto che i musicisti e la voce risultino  perfettamente riconoscibili: per il resto è una slavina che scompone ogni armonia e la delicatezza muore secondo dopo secondo, snervando i sogni e le velleità per conquistare un eremo che si chiama Capolavoro, quello che non rende felice nessuno, il più triste che si possa immaginare…

Tutto, in questo getsemani moderno, si dirige verso la non piacevolezza e l’urto incombente tra il desiderio di sentire come procede e l’assoluta volontà di spegnere ogni transistor.

Ed esistono ancora persone che definiscono questo lavoro “dark”...

Il delicato vetro di quest’ultima creazione non è nient’altro che un circo dove il clown non esce, mostra il suo trucco attraverso ombre cinesi, e i cavalli, quelli di solito non domati, qui si siedono e si fanno pettinare la criniera dalle lacrime congelate di Ian, assoluto protagonista, non voluto, di un assolo lacerante, verso dopo verso. L’atmosfera, plumbea e vibrante, conduce spesso al fastidio, alla reazione di anime che vorrebbero negare la vera identità di un ascolto che spezza lo stomaco. Riti, ideali, dispersioni, scontri, dal “No Future” del Punk al “Sono fottuto”: sembrano essere passati tanti anni e invece no, i Joy Division con questo gioiello dimostrano come ogni impeto possa perdere foga e trovare la melma di attriti sempre più coscienzosi e capaci. Sconvolge il fatto che la band dimentichi la poesia della metodica Post-Punk, fatta di riferimenti letterari della fine dell’Ottocento per divenire l’avamposto di una serie di furibonde analisi introspettive: forse è proprio per questo motivo che la definizione del genere nei confronti di Closer perde valore, in quanto veniamo catapultati su un lettino scoprendo che uno psichiatra fatica a raccogliere informazioni. Avviene per le parole come per la musica: la forma canzone, solo apparentemente, aiuta a credere che la pazzia non sia una molla che prende la vita e la fa rimbalzare ordinatamente. È esattamente il contrario e da qui inizia la difficile gestione di artrosi, artriti e degenerazioni che parrebbero cadere nel lago del malcontento. 


Si debbono individuare le zone di appartenenza, quelle di rifiuto, quelle nelle quali la band si scontra con se stessa, con il produttore, con il tempo che non sembra in grado di accettare che questi figli non vigilino sul reale, ma decidano invece di posizionarsi sulla coda del tempo per dare una serie di addii. Muore tutto in queste nove canzoni, nessuna ipotesi di copia e incolla, di una riproduzione o di una continuazione, perché il vero capolavoro è quello in cui il proprio senso, il proprio spazio, nella collocazione misteriosa che non mette a proprio agio nessuno, sia un archivio irraggiungibile anche per il futuro.

Closer, dall’iniziale terremoto sensoriale, diventa una galassia in continua esplosione, tra ritmi tribali, circonferenze genetiche in ebollizione e la smagnetizzazione di ogni fiducia. Non può e non deve piacere questo insieme di tensioni, ma devono essere insegnanti ingobbiti dalle diottrie dubbiose in quanto, forse, il primo guadagno di questo lavoro è proprio quello di dare alla vista meno importanza possibile. Ed ecco quindi che l’apparato uditivo si trova a soccombere, incapace di gestire queste non canzoni, queste disarmonie, stonature, ansie, apprensioni e suoni cadaverici che sotterrano ogni sorriso.

Ha una collocazione temporale scolorita dalla mancanza della conoscenza e della memoria da parte di chi quegli anni non li ha conosciuti, vissuti, desiderati: molti album del 1980 sono coperte lise, bucate, assottigliate, e se questo ha resistito è solo apparentemente per un legame con la tragedia.

Ora è tempo di scendere nelle corsie di queste composizioni per assestare alla consapevolezza un uppercut deciso, perché nulla è concesso all’ascolto se non avere un vuoto vicino nel quale gettarsi…


Song by Song


1 - Atrocity Exhibition

Con un inizio tribale da cui i Cure prenderanno moltissimo, si entra nella zona della non melodia, di una continua infiltrazione psichedelica che viene controbilanciata dal cantato di Ian, l’unico in grado di dipingere una sottile linea armonica. Ma è un tripudio di suoni, sciabolate, con il basso che pare affiancarsi al funk per rallentare la venatura acida dell’approccio chitarristico di Bernard, mentre Stephen mette ghiaccio nelle vene per una omogeneità, non voluta, con le parole del cantante. Un inizio snervante, lungo, che subito mette in chiaro le cose: Closer non sarà la festa dei sensi ben pettinati…



2 - Isolation

Unknown Pleasures si affaccia solo per il basso pieno di nevrosi e il drumming, per il resto avvertiamo la presenza di un synth che getta la band in una nuova zona e prospettiva: precedere il tempio della musica con una esagerata esibizione di mute espressioni in circospetta esibizione. Pare mettere dosi di allegria quella tastiera ma, invece, il brano è una splendida contorsione, nel dirupo di una solitudine che avanza e reclama attenzione. Si danza come robot in prestito dai Suicide, evidenziando piuttosto i confini di un rock in fase di escursione. 



3 - Passover

L’autonomia dell’intenzione, quando è ingravidata da certezze nerastre, si fa supportare da chitarre accennate e taglienti, un basso quasi nascosto, un drumming semplice ma militare, sino a quando si scopre una evoluzione che genererà, nell’arpeggio di Bernard, un nuovo genere musicale di cui i The Sisters Of Mercy saranno i primi discepoli. Ian è un rabdomante calcolatore, spietato, chirurgico, mai impulsivo, trattiene la catastrofe dei versi in un cantato che sembra solo apparentemente privo di ogni emozione. Brano che mostra lo scricchiolio dell’anima e una capacità della musica di continui allarmi, la non voglia di trovare un momento in cui la canzone possa conoscere vette diverse. Misteriosa, dilegua in ogni suo movimento il desiderio di vivere…



4 - Colony

L’attacco glam, poi via, dopo pochissimi secondi, nei territori dei Killing Joke, dove il nervosismo passa attraverso i cavi, le rullate e le oscillazioni di una chitarra epilettica…

Roboante, sfibrante, una progressione di tagli sulla pelle e la sensazione di una gemma che desidera nascondersi…



5 - A Means to an End

Il futuro conosce se stesso solo dopo la morte: questo miracolo balistico spazza via la storia del Post-Punk, di ogni dottrina preventiva per spalancare lo stupore e irrigidire i nervi. Invita la danza a rimanere legata come una prostituta mentale, per generare delirio e maldicenze varie. Il primo momento di una costruzione scheletrica dei futuri New Order appare come un arcobaleno in decadimento, che misura le cose, gli impeti, affidandosi a una chitarra che pare figlia dell’album Scream dei Banshees. Ma il basso di Hook è il vero mantra, colui che ipnotizza prima che il cantato baritonale di Ian ci sequestri l’anima per l’eternità….



6 - Heart and Soul

Una vita, gli eccessi, gli estremi, le calamite, i disordini e l’ubbidienza a un destino da scrivere in fretta assorbono l’intera composizione con un cantato quasi dolce, perfettamente intonato, quasi potente, del tutto devastante, all’interno di una architettura che non indugia ma che trova il metodo per strutturare il tutto in pochi movimenti sino a dare, nel finale, l’impressione di un abbandono volontario a se stessa. Tutto è accennato, misurato, scheletrito, raffreddato, messo nella cantina delle decisioni che logorano i nervi, annichilendoli…



7 - Twenty Four Hours

Il manifesto e l’apoteosi di un attorcigliamento dei muscoli trova la pulsione Post-Punk all’interno di bacilli e virus che rendono l’ascolto un cielo in caduta libera, senza appigli. Magnetica, buia, devastante, affida al terzetto musicale il compito di disegnare lacrime, mentre a Ian tocca illuminare il disastro esistenziale, in un epilogo che frantuma ogni sogno. La voce, sapientemente illuminata dalle polveri oscene di un villaggio artico, rende inutile ogni gioia, con l'imbarazzo di un ascolto che potrebbe, da solo, spezzare ogni respiro…



8 - The Eternal

Martin Hannett scrive il suo epitaffio con la band di Manchester, donando la sua classe a una canzone che non è altro che una processione misurata dal minimalismo di un piano che tocca le lacrime portandole dentro le parole di Ian, per dare a questo palcoscenico l’odore di macerie intellettuali e fisiche, in un abbandono floreale che incanta sebbene paralizzi. Si entra nell’intimo, nei posti normalmente inaccessibili, di un'anima in litigio con se stessa, dove la frattura evidente si specchia nella teatralità di cupe e avide atmosfere. Muore la Musica attraverso uno spettro cupo rimbalzante nella voce piovigginosa che annichilisce il pianto. Niente di simile era mai apparso prima e non troverà il futuro a sospirare per un seguito: il brano è una processione che oltrepassa le definizioni, perché inserito in una nuvola che si dissolve secondo dopo secondo…



9 - Decades

L’ultimo petalo è sintetico, una tastiera che sembra uscire da un videogame in bianco e nero, un progressivo e lacerante consumo di ogni vitalità entra nel cimitero dei sogni a sincronizzare la giovinezza con la vecchiaia di ogni volontà, nella sfibrante decadenza di una esistenza che cancella ogni scatto. Un assolo della tastiera conduce Ian a porre una domanda che mette l’assenza sul trono, a testa bassa, in uno spazio dove ogni respiro nel microfono diventa un grido sincopato che non fa altro che pronunciare una sentenza obbligatoria, lasciando il cuore nella sua dannazione. Secca, come una tavolozza acrilica senza pulsioni, la canzone esalta il mood dell’album e abbraccia la band nel suo saluto: non esiste addio quando la storia ha deciso che questo lavoro rappresenterà un unicum per i posteri, con l’imposizione che nulla dovrà assomigliargli…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

9 Maggio 2024


domenica 21 aprile 2024

La mia Recensione: Duran Duran - The Chauffeur

 


Duran Duran - The Chauffeur 


Quando le favole si tingono di nero, si caricano del dramma, affondano le mani nel sacrilegio del dolore, la confusione diventa l’unica chiarezza, in una corsa affannata verso quell’amore che nega di spalancarsi, di essere consumato senza onde malefiche.

Abbiamo la fortuna di poter pensare a tutto questo ascoltando una chicca che resiste all’usura, che ancora oggi ferisce, per una strana apologia che non può essere scalfita da teorie opposte. Un gioiello pieno di brillantini che non soffoca la magnificenza che alberga nella sua profondità, regno dove la magia e il segreto continuano a pulsare.

La band di Birmingham, che ha depositato nello scrigno del tempo questa cometa senza morte sul suo dorso, scrisse nella maturità della sua adolescenza questo brano, vascello, treno e soprattutto auto, per portare concetti morali a bordo di una storia dove l’amore, la passione, il fastidio, l’ineluttabile consumo dei desideri potessero divenire un messaggio spinoso, una puntura mentale che, insinuandosi ascolto dopo ascolto, causasse una paralisi, come unico vero atto di devozione a un circuito che già di per sé era in grado di generare dipendenza. Saper coniugare la sensazione pop a una fascina di tensioni grigiastre con l’uso dei synth (veri piloti di questa lenta corsa), è un’operazione davvero notevole, con la capacità di lasciare nella bocca degli ascolti un gusto amaro e dolce, in un connubio che azzera ogni competizione. Il pianoforte in modalità flanger, il basso sensuale, il lavoro di programming, della drum machine e poi della batteria confluiscono tutti quanti in un testo, nella voce, per direzionarsi nel ventre della notte, lo scenario perfetto dove relazionarsi con la meditazione, fatto, in sé, da vivere come un avvenimento disarmante se si prendono i Duran Duran per quello che erano, ragazzi alla ricerca del successo e ingiustamente non considerati musicisti di talento e grandi capacità. Ci pensa questo brano a sgombrare dubbi, a immergere la classe nella clessidra del tempo, dove nulla può avere data di scadenza. Quello che magnetizza il tutto è il flusso poetico di questo testo, una storia che puzza di frustrazione, di un amore segreto che spia senza avere possibilità di essere corrisposto, in una flagrante detonazione razionale che coinvolge i battiti del cuore, in una pulsante drammaticità, che vede convogliare generi musicali in un atrio dove l’accoglienza e lo studio sono incrociati per completare la perfezione di un progetto. In questo scenario il divertimento sparisce, dissolto da queste trame sonore e dalla voce nasale di Simon che sembra soffocare le parole con il suo registro alto per sfumare poi nel crooning finale.


Tracce di Baudelaire, di Ian Curtis, del teatro folle che cerca di dipingere le pareti del cervello con cupi colori, scendono nelle onde ipnotiche del brano sin dall’inizio, con note drammatiche del piano che già esibiscono il respiro pesante, per convogliare il magnete senza possibilità di sgancio verso il nostro ascolto: l’insieme è una spinta verso le viscere del desiderio, la sua attrazione verso l’impossibilità che esalta la morte.

L’arpeggio del synth è la vera goccia diabolica che scende sui nostri timpani: ingannevole in quanto apparentemente piacevole, con il passare dei secondi diventa una tortura che non lascia scampo, concedendo a un flauto sintetico di recare un sollievo momentaneo, una nuova forma che cattura l’apparato uditivo. 

Il nervo synthpop è in grado di perlustrare la decadenza tipica del post-punk, per un miracolo mesmerico, una “piacevole” camicia di forza, un loop da cui correre via è impossibile, come dal penitenziario di Alcatraz. In questo contesto, si rende evidente lo sconvolgente approccio nella scrittura di un impegno, che qualifica la band e la mette in condizione di essere meritevole di essere ascoltata da chi storce il naso: tutto spazzato via da questi trecentoventuno secondi di amletica propensione, dove tutto si complica, diventa una metafora adulta che si appiccica allo scettro di qualità innegabili. Eccoci nella cruda realtà, non c’è nulla di profetico, nessuna bugia, ma un lungo calvario che non declina responsabilità, anzi, fa l’opposto, per generare moti consapevoli che oscurano il futuro…


Minuti come insetti prendono sede nell’alchemica forma di una canzone che fugge pure da se stessa, avendo sulle caviglie tenebrose note che rimarcano la sensazione che negli anni Ottanta anche essere dei voyeur dell’amore significava far parte della squadra della sofferenza, in cui l’oggetto del desiderio, così agognato, diveniva l’unico colpevole. I Duran Duran lo presero e lo rinchiusero nella canzone che ne attesta la colpa, per l’eternità…

Si ha la sensazione che i cinque abbiano preso gocce d’acqua e le abbiano depositate nelle note, filtrate, coccolate, per lasciarle poi andare verso il loro destino, come se tutto fosse solo l’anticipo di una nuova modalità artistica che di lì a poco si sarebbe palesata del tutto. E avvenne: da questa perla sono nate imitazioni sghembe, ma anche artisti in grado di cercare di ripetere il miracolo di questa processione razionale e sensoriale. La raffinatezza, la produzione, il lavoro di sinergie protese verso la luce della candela che rende cupa la scena fanno rabbrividire, finendo con l’avere nelle tasche fazzoletti pieni di lacrime che danzano lentamente durante l’ascolto, da sole.

Quando la musica non ha possibilità di negarsi la permanenza nella volta celeste, ecco che divenire succubi rimane l’unica gioia praticabile, malgrado il contesto…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

21 Aprile 2024

giovedì 18 aprile 2024

La mia Recensione: David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 album)



 

David Potts - The Blue Tree / The Red Tree (2 albums)


Come è buffa la vita, quando riempie il pianeta di esistenze che sembrano avere poca visibilità e poi, immediatamente, le ributta nelle strade dando loro una nuova occasione. È il caso del protagonista di questo scritto, un talento indiscutibile, in grado di creare, con la sua fantasiosa e abile versatilità, due album in uscita contemporanea, quasi per tappare il buco di un’assenza che a parere del Vecchio Scriba sembrava una bestemmia, visto il valore di queste ventuno composizioni totali. Due alberi, due figure paterne, proprietari del percorso di questo artista, dai connotati solo in parte simili, vedono il musicista (chitarrista e bassista) e cantante muoversi tra l’alternative, l’indie pop, il folk più solare, la dance elegante e leggera.

Nel 1989 a Manchester il bassista dei Joy Division formò una band che si chiamava Revenge. Uno dei loro membri, che sostituì l’originale chitarrista David Hicks, è il soggetto di questa recensione. Dopo quella esperienza con Peter Hook i due misero in piedi il progetto Monaco che tanto ebbe successo con il brano What do you want from me, antipasto dell’insieme di attitudini dance che scrissero.

E dopo diversi anni eccoci a parlare dell’esordio come solista di David Potts con gli album The Blue Tree e The Red Tree

The Blue Tree appare come la descrizione di una giornata primaverile attorno a questo albero, con canzoni che volano come uccelli felici di tornare ad abitare in quei luoghi, libere di muoversi con gioia e capaci di contaminare l’entusiasmo con la loro esuberanza giovanile.

The Red Tree pare, invece, un insieme di brani scritti da quegli stessi uccelli con qualche anno in più, dove la maturità si mostra anche con approcci più spigolosi, in cui il ritmo rimane alto ma con maggior decisione nel tracciare il percorso di quei voli. Si ha come l’impressione che si sia nei paraggi dell’autunno, ma con la volontà di avere ancora quei sorrisi che solo la primavera sa distribuire.

In entrambi i lavori la scrittura è sorprendente, scavando nei territori celesti degli anni Settanta e proseguendo nella decade successiva per quanto riguarda l’aspetto di brani eclettici, che fanno danzare. La chitarra, quando si presta ad esibire assoli brevi ma efficaci, dimostra l’intenzione di catturare il senso delle composizioni, perfezionandole ulteriormente, facendoci vibrare e volare con la mente attorno a quei due alberi, che, alla fine dell’ascolto dei due dischi, paiono essere amici di lunga data.

Si riesce a sorridere, ridere, pensare, ballare in un cielo che sembra così lontano da quello di Manchester, per trovare immagini, luoghi e sensazioni che ci mostrano il mondo in lungo e in largo, con il merito di farci salire sulla sospirata macchina del tempo. 

Decisamente un debutto meraviglioso che non deve sfuggire alla vostra fame  musicale, se volete che sia ricoperta di qualità.


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
19 Aprile 2024


La mia Recensione: Adrian Borland - Beautiful Ammunition


 

Adrian Borland - Beautiful Ammunition


“Lo stress, l’ansia, la depressione nascono quando ignoriamo chi siamo e iniziamo a vivere per piacere agli altri “ - Paolo Coelho


Ci sono anni che assomigliano a delle tempeste, precipitose, vogliose di resettare il sistema Terra, in tutte le sue funzioni.

Nel 1994 uscirono Superunknown dei Soundgarden, No Need to Argue dei Cranberries, Grace di Jeff Buckley e venne registrato l’Unplugged dei Nirvana.

E poi Adrian Borland.

I cantanti di tutte queste formazioni sono anime che ora si esibiscono nel cielo, tra disagi, agi e perlustrazioni per noi inaccessibili.

Se il Vecchio Scriba deve scegliere quali, tra questi  album, hanno saputo miscelare meglio il sogno, la positività, l’ombra, il gelo e il disgelo, il flusso di impeti in cerca di luce, è indubbio che quello dell’ex leader dei Sound sia quello a cui guardare con più profondità, dato l’enorme flusso di elementi che ha reso il suo terzo ma primo vero disco solista quello più vicino al miracolo umano. 

Vi sono segnali di arcobaleno, schizzi di una mente che cerca di riparare i danni di un circuito leso e indebolito da abusi precisi, come sono anche presenti paracaduti, fionde, il sudore di una slavina che nella scrittura della musica cerca uno specchio sincero. Adrian crea un insieme di canzoni con l’intenzione di ripararsi ancora di più dalla disillusione, lui che aveva investito sogni e realtà per portare il suo talento sul palco del mondo. Non aveva fallito, così come i suoi compagni di viaggio che avevano fatto dei Sound dei cavalieri dalla bella divisa ma perdenti. Qui sembra di vedere (finalmente, aggiungerei) uno scrittore in grado di adoperare ponti e riflessi per attingere a generi musicali poco praticati o difficilmente associabili al suo percorso. Coraggioso, epidermico, intransigente, dolce, romantico, non manca di dare pennellate della sua psiche frustata e frustrata, ma con l’intenzione di mettere una candela nei versi e soprattutto nell’impianto sonoro, dove le chitarre semiacustiche prendono il sopravvento e prova a giocare con i cambi di atmosfera, di ritmo, per condurre la sua potente sensibilità nei bordi di una costruzione più pop e cantautorale, sfiorando i sentieri di Leonard Cohen, Tim Buckley e Neil Young. Niente paragoni, ma solo l’intenzione di mettere in evidenza la vera indole di un’anima che cerca di alleggerire le lame taglienti della sua chitarra elettrica e della sua voce, che, in questo lavoro, si attesta su un registro medio-basso e quando cerca il cielo lo fa senza gridare, piangere o intenta a far sentire la mancanza di ossigeno.

Il pronome personale Io viene utilizzato all’interno di una quasi totale assenza di interlocutori, e sembra di trovarsi nel vascello di uno Storytelling pieno di acqua da cullare, curare e spargere lontano da quelle dita che in questo disco preferiscono deviare la corrente elettrica per favorire luoghi in grado di offrire un minimo di serenità. Se si scava all’interno dei testi l’amarezza, la delusione, la rabbia vengono sostituite dall’impotenza, la rassegnazione e una incredibile positività che sbuffa, spinge, vuole emergere e nuotare in quei giorni che paiono costruiti per dare ai suoi piedi una strada più sicura su cui camminare.

Assistiamo a un processo concepito ed eseguito quasi totalmente da Borland, mostrando eclettismo, determinazione e la volontà di quella intimità che in qualche modo si era sempre negato. Rispetto ai primi due lavori senza i Sound questo pare essere un colloquio riservato con una mente che si sgancia dai propri cliché per strutturare nuove ipotesi. Certo, la produzione è vicina alla perfezione, le canzoni, pur non mostrando l’idea di essere inclini alla zona della conquista della massa di ascolti (non ha mai corso il rischio, per dire la verità, e sicuramente è stato meglio così), sembrano affermare una indipendenza, come se il momento dovesse essere storico soprattutto per loro. Ma si ha una strana sensazione: si avverte come le sedici edere siano piene di un veleno dalla faccia ingannevole, come una truffa che il rock non può più permettersi. Adrian cerca di scrivere ballate atipiche, spesso forza il colore del suono, alcune volte impasta la zona acustica e quella elettrica come un clown che gioca, maldestramente (ma solo apparentemente) con il dolore, per poi pentirsene e tirare giù la saracinesca e farle immergere nel solito buio…

Si piange, con una levatura spirituale indenne dallo scorrere del tempo, per sorridere e abbracciare il futuro e poi quella canzone nella quale sembra dipingere un raggio di sole mai visto prima: la porta è aperta…

Ma Beautiful Ammunition è un coriandolo che conosce il modo di perdere i colori, di cadere velocemente, di finire incastrato sotto il tappeto, di appiccicarsi alla pelle, come un piacevole fastidio da cui è impossibile separarsi. Il suo cantato fa flettere i famosi nervi, calcola spazi nuovi, perlustra traiettorie visive inimmaginabili e pare correre lentamente, in un ossimoro doveroso e alla fine straziante.

Niente da fare: la sofferenza non l’ha abbandonato ma gli ha permesso, perlomeno, di alzare lo sguardo e di fargli credere che il presente e il futuro non sono più nemici che si guardano in cagnesco.

Quando i toni si fanno drammatici, la paura ci stringe il cuore, si diventa complici della sua fragilità e le lacrime si mischiano.

Il lavoro più delicato nei testi è accompagnato da graffiti sonori che sembrano lontani dalla drammaticità, ma spesso si nota come nessuno possa rinunciare all’altro: la guerra delle parole, le quasi farneticazioni, i punti più bassi, vengono come redarguiti dal pentagramma che vorrebbe una scrittura svincolata dalla tristezza. Missione impossibile, ma tutto ha rischiato di raggiungere i colori della maschera di Arlecchino. Quanta bellezza, inconfutabile, offre questo esercizio, questa lotta con il tatuaggio di un armistizio, che si palesa nella totalità di un album che non fotografa ma scrive il destino, come una identità postdatata che troverà la sua precisazione e la sua eterna forma dolorosa il 26 Aprile del 1999…

Ora non ci rimane che uscire da quella porta aperta, prendere Adrian per mano e andare a fare una bella passeggiata con questo fiume dalla faccia pulita che, se però ti soffermi a guardarlo bene, nella sua oscena profondità, saprà farti tremare le gambe…


    Song by Song


1 - Re-united States of Love

“Redraw the map, push the frontier back”

Un inizio che sembra un congedo: non c’è nulla di chiaro se non nelle note di una chitarra e di una batteria che cercano di stoppare le parole, ma niente impedisce alla voce, al coro con Vikki Stilwell (presente in diversi episodi nell’album), di tracciare un sorriso…


2 - Open Door

“I’ve felt the darkness of the world, but now I need some light”

Lou Reed si affaccia, come paiono fare i Church e gli Alarm, in una adunata che odora di anni Ottanta, con il canto che cerca appigli nel proprio passato. Incandescente in una giornata di pioggia.


3 - Rocket

“We could blast right of here if you put some thrust in me”

Gli applausi del cielo cercano i polpastrelli di Adrian e la sua ugola: come un racconto di Joyce, tutto pare anelare alla primavera. La chitarra elettrica sembra in odore di e-bow, ma poi scivola in un semi approccio blues…


4 - Stranger in the Soul

“But I don’t feel the pain that loneliness brings”

Uno degli episodi più toccanti di questa anima pungente: scava, annaspa, con una chitarra circolare che cerca di estraniare la solitudine dai suoi fianchi, in un groviglio di emozioni nel quale nulla cambia ma si vuole fingere il contrario. Lo stop and go ci mostra la delicatezza, note quasi spagnoleggianti, e un sole incline a cadere…


5 - Break My Fall

“You’ll break my fall and my heart will never know”

Echi iniziali dei Cocteau Twins vengono immediatamente stoppati dalla voce di Adrian che in modo cadenzato avanza nella trappola della realtà, sgomitando con leggiadria nel cunicolo della depressione…


6 - Station of the Cross

“I can’t relive each moment when I got too close to truth”

Il programming trova l’apoteosi, nuove soluzioni cavalcano la scena, in una veste musicale eccellente e piena di novità. Gli accordi del piano sono baratri, mentre la voce angelica vola nel labirinto sentimentale colorando la fiducia e fermando il dolore…




7 - Simple Little Love

“They took apart your simple heart with their calculating minds”

Il ritmo torna a farsi vicino al Country, con la spinta americana del sogno più famoso del mondo che entra nei versi, per poi catapultare l’attitudine australiana dei già citati Church in una girandola ritmica altalenante…


8 - White Room

“Can’t you see how this splits me then you’ll see how I crack”

I Radiohead hanno saputo trarre spunto, come molte altre band, da questo brano irresistibile e straziante: anche il dolore ha una poesia nel suo baricentro e Adrian l’ha trovata, registrata, esibita, con la musica che sembra uno scivolo che, partendo dall’infanzia, conclude il suo girovagare nella morte…



9 - Past Full of Shadow

“Between the lines you misread the signs”

Quando l’autore di Winning decide di toglierci il respiro non abbiamo scampo: la produzione perfetta conferisce al brano la giusta dose di drammaticità, in un circuito soffocante che brama la pelle bianca di un’anima ormai spenta. Segnali di arrangiamenti e di arcobaleni pieni di pioggia conferiscono al pezzo il premio Nobel per il maggior numero di lacrime versate…


10 - Ordinary Angel

“I tasted grace and got drunk on bliss”

Si corre, i suoni adiacenti al pube, si cade e si rotola nel prato alcolico di un sogno mai così apparentemente libero, con la chitarra elettrica che spinge Adrian verso il registro alto della voce per accarezzare le nubi dove gli angeli lo attendono…


11 - Lonel Late-nighter

“A song in the sad key from the heart of man tell me not to be ashamed to cry”

Come collegare le ballads degli anni Ottanta a quelle ancora da rodare degli anni Novanta: Borland cerca il ritornello, il cantato che oscilla, per trovare le lacrime libere di sciogliersi. Uno dei momenti più verosimilmente pop dell’intero album: splendido, innocente e crudele allo stesso tempo…


12 - Someone Will Love You Today

“Could be the man who sells you the paper a cynical sparkle of hope in his smile”

Gli U2 saranno gelosi (quelli di Gloria, per intenderci), in quanto Adrian Borland dimostra un talento che gli irlandesi non hanno mai avuto: come passare dall’ironia, alla goccia pop che invoca l’alternative per poi dilagare, con estrema semplicità, in un ritornello gonfio di aria da baciare, sino alle gocce finali di una chitarra in odore di J.J. Cale.


13 - Forgiveness

“But we are full of pollutants”

Arriva l’inverno della mente, i passi si fanno lenti e le ombre cupe, archi camuffati gettano le loro tensioni nel testo che sgomenta ma precisa il percorso di un’esistenza in cerca di aiuto. Quando i due registri di voce si trovano all’unisono non c'è più possibilità di resistere al dolore…


14 - Rootless

“I’ve been sawing through these chains”

Il brano più atipico di questo album, con le sue soluzioni in cerca di approdo, l’inventiva del cantato, una impalcatura che cerca sostegno nel talento. Tutto fugge e probabilmente fa di questo episodio il meno convincente…


15 - In Passing

“These yellow lights are not enough to illuminate this night”

Un arpeggio, un cielo, un bisogno che non trova identità e permanenza: la sensazione è di un doveroso tentativo di mostrare le crepe di una mente che ricorda i giorni passati e si ritrova con i calici vuoti…



16 - Shoreline

“And you wish you had a life at least somebody you could die for, why don’t you open up and breathe?”

Il momento più alto e toccante è riservato alla fine: chi non piange non ha cuore, non ha passioni…

Si entra nella psiche di un sogno, il contrasto con il rumore assordante della tragedia che imperversa nel calendario e la scommessa di non forzare la mano. Le parole vincono, rubano la scena, e la voce diventa il palcoscenico di un teschio che cade nella sabbia ancora ricoperto di pelle e di battiti del cuore. Quando si plana nel ritornello le lacrime si sono già ossidate…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Aprile 2024


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