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martedì 18 ottobre 2022

La mia Recensione: Rowland S. Howard - Pop Crimes

 Se il Pop commette un crimine è quello di lasciare andare via per l’eternità un mago dalle unghie nere che si è preso la licenza di congedarsi con un album che ha proprio nel suo cuore un piglio Pop.

Ma non l’ha mai conquistato veramente e lui l’ha guardato storto, quasi incurante, certamente poco affascinato.

E il suo epitaffio è un grido a bassa voce, tra tormenti e moti angelici che fanno a pugni, con ramificazioni urticanti e rasserenanti per uno scontro che come risultato dà un disco meraviglioso, tra lacrime tenute in volo fisso davanti agli occhi, con la sensazione che ti cadano tra le pupille.

Con l’antico compagno di scorribande ed eccessi Mick Harvey, Rowland ha fissato per l’eternità la malinconia dei suoi battiti, esposto le sue vene a colpi di ombre continue senza mai sprofondare nell’oblio, come se fosse ancora in grado di governare le fiammate del cancro che di lì a poco l’avrebbe portato in un’altra dimensione. Ascoltando le otto tracce, sette originali e una incredibile cover dei Talk Talk, si entra nei suoi spasmi educati ma capaci di arrivare dentro di noi come folgori, perché la sua unicità, eleganza, raffinatezza e l’infinita classe mostrano tutte quante questo impianto scenico generoso e che lo qualifica, a detta dello scriba, come il miglior autore di canzoni del suolo australiano. Il disco è infarcito di blues nero, tagliente, lento, appoggiato sulla colonna vertebrale di un’America capace ancora di stimolarlo. La cura del dettaglio ubriaca, la finalizzazione che lo rende denso di atmosfere delicate ma vibranti (dove spicca la sua voce impastata con la grazia in un ballo cupo) accompagna le composizioni verso una spiaggia adornata di luci soffuse, sino a inebetire del tutto l’ascolto. Un rallenty continuo che fa esplodere il cuore dentro un lavoro celestiale di acute visioni sonore che ne espandono la bellezza al cielo. Il canto del cigno è cupo, intenso ma mai votato alla disperazione: tutto è cosciente, pieno zeppo di sofisticata propensione a creare brani che mutano a seconda del nostro umore. Ecco allora che si presta a un uso diverso, elemento che lo contraddistingue e lo consegna all’Olimpo di ciò che si deve conoscere, come un obbligo severo ma gentile.

I testi, cantati con una modalità che sembra essere il frutto di fiori che fuoriescono da vasi di lava con il mantello, sono efficaci escursioni di un pianeta psicologico che cerca ascolto, tra trame amorose con la polvere da sparo, e graffi decadenti mentre si espongono al sole. Una scrittura capace di vibrare da sola, per una emulsione che schiaccia il vapore acqueo, sempre pronto a uccidere, quando si tratta di contesti amorosi, per una mancata capacità di ascolto e confronto, un je t’accuse raffinato ma sempre evidente, per necessità e per via di un delirio che non conosce resistenze. La finestra del suo petto è rotta, caduta tra le braccia di una preghiera che non sembra possibile che venga ascoltata dalla madre di Cristo, come invece è il bisogno di qualcuno nella canzone che ci mostra pienamente come le sue storie siano a un passo dall’assurdo ma dannatamente umane. Sempre attenta a non esagerare con l’uso delle rime, la sua scrittura tratteggia profili psicologici, sospetti, grida che scendono dalle mani alle corde della sua chitarra che, ubbidiente, la segue nel vortice di trame dalla scorza dura, quasi impenetrabile. Sentire questa sua comunicativa così fulgida, nel contesto di note spesso d’acciaio, ruvide, grevi, crea non uno iato bensì una fascinazione incontrollabile.

La musica? Una sinfonia in perfetta sincronia con il deserto, dove tutto è secco, preciso nell’individuare ciò che è indispensabile, sopra un disincanto che muove le note in caduta libera senza però togliere il respiro, che la rende una prerogativa di chi sa come fare un patto con l’impossibile…

Ballads color velcro, in attitudine di protezione, con melodie dalle spine pettinate che inducono all’accoglienza, superando la paura di essere sedotti da tsunami sonori senza volontà di fare sconti. E quando il ritmo si alza un pò non è la danza che ci aspetta ma un volteggio, per poter baciare le ombre che lo compone. Si precisa la sua capacità di coinvolgimento con gli altri artisti dando la certezza che non siano session men bensì veri e propri membri di una band dal percorso millenario, sicuri, audaci e capaci di depositare ai piedi del cielo un tappeto su cui far volare i nostri ascolti estasiati e beneficiati di questa propensione univoca. Sempre come se fosse un arco pronto a lanciare le sue frecce, il genio australiano veste le canzoni come scie di vento, specialmente quando gli accordi sono quasi semplici, nessuna ostentazione da mostrare, piuttosto il bisogno di coricarsi sopra le trame di dense melodie per creare un unicum che non possa avere crepe sulla pelle. Si vola tra l’Australia degli anni 80 e la poesia ipnotica degli chansonnier francesi degli anni 60, senza perdere di vista quanta poesia, macchiata di una vena nera e calda, avesse lui stesso creato con The Birthday Party, il cilindro impazzito che alzò la polvere su un’Australia dormiente e non attenta ad alcune sensibilità che stavano creando rifiuti pieni di malcontento. Le chitarre sarcastiche e arcigne lanciano sibili romantici dentro un involucro in cui il basso e la batteria sembrano spose perennemente attente a lavare le macchie di così tanta radioattività. Perché queste canzoni, apparentemente di facile fruizione, in realtà corrodono e sanno sgretolare quel senso di bellezza che ci fa masticare tutto avendo lo stesso gusto in bocca. Invece…

Invece ciò che ascoltiamo è un complesso edificio di striminziti riferimenti (comunque da cogliere) e la valanga ipnotica di musicisti che si sono dati appuntamento davanti alla porta del mistero. La voce benedice e stordisce, perché nella sua apparente pacatezza esiste la stessa quota di furore del suo vecchio inquilino di quella Sydney che è stata la fionda che ha unito lui e il tenebroso Nick Cave verso una cittadinanza artistica e umana europea.

La stoffa però è la medesima: Rowland sa come ipnotizzare e farci rimpiangere la nostra minima dose di tranquillità. Sono episodi fumanti, tesi verso la conquista di una zona dove il soffocamento è elettrico, contorto, dove ciò che serve non è la forma canzone perfetta ma porti di accoglienza per una pioggia di lacrime quasi ammutolite dalla sua bravura. Sa esprimere ma al contempo contenere inchiostri di battiti slegati dalla futilità di milioni di anime indaffarate con il disimpegno, giostrando il tutto con scelte oculate, al di là della perfezione, perché questo accade a chi va oltre la propria strabordante genialità.

In questa narcolessia evidente, compaiono però episodi di poetica propensione verso le illusioni, lo spostare le attenzioni verso il prossimo, come portatore sano di miracoli improbabili, dentro relazioni torbide, in  addii che gonfiano il dolore e aumentano la mancanza di un’oasi di tranquillità.

Non vi è bisogno di caos, i testi strappano le tende degli ascolti portando alla preoccupazione, come se l’artista fosse un amico reale: Shut me Down raccoglie tutta questa intensità.

Non un testamento ma lo specchio della sua profonda difficoltà nel vivere: canzoni come autopsie che ci rendono gli occhi piccoli e già pieni di frequenze nevrotiche, quasi epilettiche, perché in questo flusso ogni secondo è un lutto tra la gioia e la morte che si sfidano in baci asfissianti.

E si dia spazio al silenzio, tra un episodio e l’altro, sia data via libera alla riflessione, i testi tra le mani e la curiosità, e la voglia di trovare il modo per sconfiggere la paura: dentro il suo distorto sistema artistico e umano vivono fascine di rugiada pronte a snellire la noia e le abitudini di brutti e confusi ascolti. In questa torbida collezione di esagerazioni c’è più equilibrio che in molte canzoni pop, dannatamente capaci di commettere crimini senza la nostra consapevolezza. Ora è il tempo di pescare nel suo maremoto, di farsi trascinare dalla sua bellezza a contatto con il diavolo per un’esperienza dove anche l’ascolto sarà fradicio di emozione…


Song by Song


(I know) A Girl Called Johnny


Il primo botto, quello che scoperchia il cielo, proviene da questa storia cantata a due, con Rowland che duetta con Jonnine Standish: è una piccola camminata psichedelica nella mente del prolifico artista australiano che apre subito il forziere del suo talento con una canzone che sprigiona emozione, con le voci che esaltano l’organo di Mick Harvey, e svetta per delicatezza e un malato romanticismo.



Shut me down


Il blues si tinge le dita di nero e con il profumo di whiskey che gli visita l’anima e le corde vocali, in una trascinante, epica dimostrazione di ciò a cui cosa possa condurre la mancanza della persona amata, ci fa giungere all’estasi. Anche da questo brano si capisce come lui e Nick Cave siano fratelli nell’anima, nessuno copia nulla dall’altro, ma sono invece uniti da attitudini simili che finiscono dentro un’orgia lenta. I rintocchi di organo creano poesia nel cuore mentre tutto va a sparpagliarsi nel cielo.



Life’s What You Make It


Non una cover ma un delirio soffocante condiviso con Mark Hollis, dove le chitarre sprigionano tensione e rendono dissacrante ogni tentativo di approcciarsi al brano dei Talk Talk: Rowland è l’unico che potesse davvero rivelarne gli scoppiettii con le ali distorte, in un viaggio dentro gli Usa rurali, malati e stanchi. Una corda che contiene una voce pronta a precipitare, trasportata da un’atmosfera blues-folk in cerca di uno schianto.



Pop Crimes 


Il male esiste, è un basso satanico che non concede repliche, perché conquista coinvolgendo per prima una chitarra sulle soglie dell’inferno. Il testo, una spada piena di tagli, consente a Howard di sprigionare violenza con la voce quasi mimetizzata dentro strali e graffi, per un risultato che è sconvolgente e stratificante. Una follia che si alza dal lettino e cade dentro amplificatori che sanno equilibrare il tutto con schitarrate ed il mare ipnotico dello strumento di J.P. Shilo che ci rende prede esangui.



Nothin


Oltre il capolavoro: Nothin è una pietra piena di fumi contaminanti che stroncano l’apparato uditivo per entrare dentro le mancanze che si sciolgono con il vento. Ed è Country/Gothic Americana & Folk Noir di purissima fattura, che conquista e appiattisce tutto con la sua linea melodica breve ma davvero capace di assestare un pugno nello stomaco.



Wayward Man


Il diamante più puro dell’album, feroce, con il basso di Brian Hooper che porta le chitarre a sventagliate acide, amplessi di nera attitudine, mentre Rowland diventa un quasi Crooner spiritato e immenso. Tutto stride e ferisce, chitarre come sirene con la voce sul punto di rompersi, e il vuoto che lascia spazio a un bridge aperto verso la fine del mondo.



Ave Maria


Nico è sempre viva, dove non esiste la sua voce vive la sua anima che qui sfodera un sorriso nero all’interno di un matrimonio con i proiettili dentro la memoria che torna ferendo, lasciando il cuore in uno sparo avvolto da musiche quasi paradisiache, ma è solo una comoda illusione.



The Golden Are of Blooshed


Fermi tutti: il sangue diventa tenebra, la storia raccontata è perversa e allucinata, la voce un lupo in cerca del giusto spazio per esibire i suoi artigli, dove la sfiducia nel partner porta la musica ad esserlo altrettanto, per magiche connessioni nel ventre del male. Un incubo che ha radici nella letteratura, che passa attraversa Jim Morrison alleggerito di acidi ma gonfio di alcol, per depositarsi dentro un’atmosfera sinistra ma vellutata, quasi capace di attirare le anime innocenti in un teatro degli orrori dalla pelle truccata. Ed è la vita che muore in una grotta con la chitarra che spranga il respiro, chiudendo questo gioiello senza tempo in un abbraccio soffocante…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Ottobre 2022


https://open.spotify.com/album/0rpPmk289NRqguHC8XQ0LV?si=PH7_FDBxTNurEPB_NrOtnA






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