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sabato 12 marzo 2022

La mia Recensione: Altar De Fey - The Insatiable Desire...

 La mia Recensione

Altar De Fey - The Insatiable Desire…

2019


Arti sezionati e nei quali il dolore diventa motivo di studio, con la lacerazione del tempo che porta, dentro ad un’anima sempre più complice e schiava, il consenso di demoni infuriati e tremendi.

Getti di aria liquida e torbida come fango benefico entrano nelle tracce orgasmatiche per separare il male dal resto della mondo, con esplosioni laterali, che escono da grotte e tane mistiche.

Una processione del sacro cuore del Deathrock a rendere il tutto malefico e soffocante, iperattivo e asfissiante, dove la band di San Francisco riprende, per questo album, elaborazioni del periodo 1983-1985 e le congela nel tempo per un’eternità che saprà magnificare la loro tendenza omicida con canzoni che sono attentati sonori e psichici.

Questo è il loro secondo lavoro dopo il ritorno e tutto prosegue senza intoppi: l’ampiezza del dolore da trasportare non ha raggiunto ancora la massa.

Di quella formazione, quella originale, attiva per cinque anni ma che al tempo non pubblicò nulla, sono rimasti Kent Cates, chitarrista e indagatore degli estremi andamenti del suono e della sua malvagità, un trionfatore di schegge arcuate e grevi, creatore Maestro del dolore che sa renderlo reale con quelle dita che sacrificano il bene sull’altare del Dio del Male.

E con lui Aleph Kali, il controllore del tempo, quello che con i suoi tamburi e il suo drum kit fa spaziare la pesantezza del ritmo come coltello e roccia lavica.

I due, reduci e superstiti, hanno portato nel loro tempio fumoso e gassoso il malefico Jake Hout, la voce delle urla infinite, un lupo dei sepolcri antichi per fargli fare un giro dentro le sue corde vocali pregne di grattugie e alabarde, per spaventare la vita con la sua propensione cruda senza alcuna paura.

E l’altro nuovo angelo nero è Skot Brown, marmorea e impietosa  mano pesante del basso tribale e osceno,  una grassa spina dal mantello nero che soffoca e opprime con i suoi giri che sono ispezioni e punizioni al contempo.

Sono insaziabili desideri che per mostrare la loro faccia e l’allucinante propensione alla distruzione e al suicidio impiegano trentacinque minuti: più breve di una messa cattolica, ma troppo lunga per ogni anima lucida e solare, perché questa processione e indagine diventa insopportabile per chi teme la realtà di questo tempo.

Non esistono sconti, non sono ammessi benefici, non c’è via di fuga: una volta arrivati a queste otto lapidi il viaggio dentro il cimitero dei sogni impiccati sarà il trionfo della collina degli incubi, quindi siate pronti a divenire brandelli di vita in decomposizione.

Con lo sguardo verso la vicina Oakland, dove tutto bolle e semina cattiverie assortite in poderosa processione, la band di San Francisco infligge la sconfitta più tremenda alle giovani leve che pensano che il Deathrock possa trovare nuove forme e miscelazioni: sia mai, siate dannati, e per stabilire le regole e le genuflessioni i quattro sparano canzoni con la purezza di un genere che non può subire contaminazioni e manipolazioni.

La storia nacque per ripetersi e per rendere sin dall’inizio chiaro il breve confine che queste schizzate propensioni melodiche possono avere.

Tutto è rimasto come quaranta anni fa: nessun braciere artificiale, nessuna divagazione concessa, nessuna diavoleria moderna a infliggere umiliazioni sonore.

Gli Altar De Fey scavano cunicoli, mettono trappole, graffiano la terra con le mani che non urlano dal dolore: anzi, lanciano potenti grida di gioia malefica e corrosiva.

Il fiato conosce aggressioni, le orecchie si piegano sanguinanti e il groppo in gola diventa l’esplosione di gioia delle tenebre.

La tristezza e la delusione di un vivere melmoso si coniugano, come serpenti aggrovigliati e famelici, veleno in dosi massicce dentro questi crateri di suono che gravitano nel ventre come spada di Damocle in costante avvicinamento: alla morte non c’è scampo e tanto vale conoscerla in anticipo.

I quattro creano per far diventare le canzoni torri gemelle in esplosione continua dove neanche la polvere potrà alzarsi dalle macerie: tutto chiuso nella grotta accogliente, tutto sarà silenzio infinito e mortale come sono questi labirinti sonici.


Sono peccati dalle braccia lunghe queste canzoni che vogliono strozzare i palazzi di un mercato sterile e rigido e che non vuole interferenze. 

Gli Altar De Fey non possono accettare il delirio di gente che cerca di assoggettare la massa e lancia strali e bestemmie di nero colore per seppellire intenti e possedimenti.

Musica allora come funerale planetario che, imparata la lezione del punk e del post-punk,  butta chili di inchiostro nero come vomito estremo, a impiastricciare il mondo per renderlo consapevole. 

Il Deathrock è acido e tribale e la band di San Francisco esalta la radice portandola nei corridori del sistema nervoso centrale per deflagrare ogni resistenza.

Tutto diventa epico e perverso, malato e senza forze in arrivo: si suda ballando la gravità dell’esistenza e si affittano vetri rotti da consegnare a mani e gambe in costante propulsione.

Se qualcuno pensa che nel Deathrock sia congenito il gene della noia non si sbaglia: questa è musica che esprime la verità di un mondo che inventa gioie e soddisfazioni dal fiato corto.

Si preferisca la verità.

E allora non può che essere cenere in volo.

Canzoni che diventano nicchie maniacali, frustranti e che non fanno altro che abbassare la volontà dei sogni di vincere la guerra.

Marziali e ossessivi, sanno dilungarsi sino a generare il benvoluto fastidio per trame che spengono la luce ad ogni secondo.

Nelle loro composizioni non ci sono ibridi, ma canzoni come neri cavalli purosangue in cavalcata selvaggia e coordinata: la loro bellezza sta nella purezza.

L’album presenta Edgar Alan Poe mentre scrive sulla pelle dei pipistrelli odi all’odore acro della morte e lo fa passeggiando con Howard Phillips Lovecraft, per un racconto horror di bibliche proporzioni, perché i testi di questo album connettono la nera poesia alla paura più vistosa.

Ne è esempio la granitica “The Secret”, supernova irraggiungibile in corsa perenne con il suo basso gravido di rocce in sfacelo e la chitarra malata ed ellittica, che si muove per sfuggire alla paura che lei stessa genera: la forma più deprimente è l’indulgenza che libera tutti in una corsa straziante e terrifica.

E i due scrittori americani sono presenti anche nella mefistofelica “Vampires” dove i Virgin Prunes compaiono alla radice quadra, in uno stato lisergico di piena esaltazione.

Con “You do not scare me” sono invece i The Lords of The New Church a fare capolino, come imbottiti di gocce di aconito.

Ma questo lavoro è una officina che ha materie prime che escono dal proprio sottosuolo, dimostrando quanto questa band sia stata rilevante e abbia condizionato le scorribande notturne di migliaia di adepti.

Gli Altar De Fey hanno confezionato un album eccelso per le operazioni eseguite senza anestesia, con canzoni che schizzeranno nei cervelli come lascito di una primordiale idea di completa distruzione di ogni colore…


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

12 Marzo 2022


https://open.spotify.com/playlist/6rbXxUSU0JTNlOQ99gO5Rh?si=098eb5f92b394303


https://music.apple.com/gb/album/the-insatiable-desire/1508732501




My Review: Altar De Fey - The Insatiable Desire...

 My Review

Altar De Fey - The Insatiable desire...

2019


Limbs dissected and in which pain becomes an object of study, with the laceration of time that brings, within an increasingly complicit and enslaved soul, the consent of raging and tremendous demons.

Jets of liquid and turbid air like beneficial mud enter the orgasmic tracks to separate evil from the rest of the world, with lateral explosions coming out of caves and mystical dens.

A procession of the sacred heart of Deathrock which makes everything evil and suffocating, hyperactive and asphyxiating, where the San Francisco band takes, for this album, elaborations of the 1983-1985 period and freezes them in time for an eternity that will magnify its murderous tendency with songs that are sonic and psychic attacks.

This is their second work after their comeback and everything goes on smoothly: the extent of the pain to be carried has not yet reached the masses.

Of that line-up, the original one, active for five years but which at the time did not publish anything, Kent Cates remains, guitarist and investigator of the extreme trends of sound and its evil, a triumphant of arch and rough splinters, master creator of pain who knows how to make it real with those fingers that sacrifice good on the altar of the God of Evil.

And with him Aleph Kali, the controller of time, the one who with his drums and drum kit makes the heaviness of rhythm extend like a knife and lava rock.

The two of them, veterans and survivors, have brought to their smoky and gaseous temple the devilish Jake Hout, the voice of endless screams, a wolf of the ancient sepulchres, to take him for a ride inside his vocal chords full of grating and halberds, to frighten life with his raw propensity without any fear.

And the other new black angel is Skot Brown, a marble and merciless heavy hand of the tribal and obscene bass, a big thorn with a black cloak that suffocates and oppresses with its notes that are inspections and punishments at the same time.

They are insatiable desires that take thirty-five minutes to show their face and their hallucinating propensity for destruction and suicide: shorter than a Catholic mass, but too long for any lucid and sunny soul, because this procession and investigation becomes unbearable for those who fear the reality of this time.

There are no discounts, no benefits allowed, no escape: once you get to these eight tombstones the journey into the cemetery of hanged dreams will be the triumph of the hill of nightmares, so be prepared to become shreds of decaying life.

With a look towards the nearby Oakland, where everything boils and sows assorted wickednesses in a mighty procession, the band from San Francisco inflicts the most tremendous defeat to the young generations who think that Deathrock can find new forms and mixtures. Never! You have to be damned. And in order to establish the rules and genuflections these four guys shoot songs with the purity of a genre that cannot undergo contamination and manipulation.

History was born to repeat itself and to make clear from the outset the short boundaries that these sketchy melodic propensities can have.

Everything has remained as it was forty years ago: no artificial braziers, no digressions are allowed, no modern devilry to inflict sonic humiliation.

Altar De Fey dig burrows, set traps, scratch the earth with hands that do not scream with pain: on the contrary, they launch powerful cries of evil and corrosive joy.

Their breath knows aggression, their ears bend bleeding and the lump in their throats becomes the joyful explosion of darkness.

The sadness and disappointment of a muddy life combine, like tangled and ravenous snakes, poison in massive doses inside these craters of sound that gravitate in the belly like a sword of Damocles in constant approach: there is no escape from death and we might as well know it in advance.

The four guys create in order to make the songs become twin towers in continuous explosion where not even the dust will be able to rise from the rubble: everything will be closed in the welcoming cave, everything will be an infinite and deadly silence as these sonic labyrinths are.


These songs that want to throttle the palaces of a sterile and rigid market that does not want interference are sins with long arms. 

Altar De Fey cannot accept the delirium of people who try to subjugate the masses and launch black-coloured arrows and curses to bury intentions and possessions.

Music, then, as a planetary funeral that, having learned the lesson of punk and post-punk, throws kilos of black ink as extreme vomit, to sully the world in order to make it aware. 

Deathrock is acid and tribal and the San Francisco band enhances the root by taking it into the corridors of the central nervous system to explode all resistance.

Everything becomes epic and perverse, diseased and without incoming forces: you sweat dancing on the notes of the seriousness of existence and rent broken glass to deliver to hands and legs in constant propulsion.

If someone thinks that in Deathrock is congenital the gene of boredom is not wrong: this is a music which expresses the truth of a world that invents joys and satisfactions with short breath.

Let's prefer the truth.

Then it can only be ashes in flight.

Songs that become manic, frustrating niches that do nothing but lower the will of dreams to win the war.

Martial and obsessive, they know how to linger until they generate the welcome annoyance of textures that extinguish the light at every second.

There are no hybrids in their compositions, but songs like black thoroughbred horses on wild, coordinated rides: their beauty lies in their purity.

The album features Edgar Alan Poe writing odes to the acrid smell of death on the skin of bats and he does so while walking with Howard Phillips Lovecraft, for a horror story of biblical proportions, because the lyrics in this work connect black poetry to the most conspicuous fear.

One example is the granitic "The Secret", an unattainable supernova in perpetual race with its bass fraught with crumbling rocks and the sick, elliptical guitar, which moves to escape the fear it generates: the most depressing form is the indulgence that frees everyone in a harrowing and terrifying race.

And the two American writers are also present in the mephystolic "Vampires" where the Virgin Prunes appear at foot power, in a lysergic state of full exaltation.

With "You do not scare me" it is The Lords of The New Church who peep out, as if filled with drops of wolfsbane.

But this work is a workshop that has raw materials coming out of its own subsoil, showing how relevant this band has been and has conditioned the nightly raids of thousands of followers.

Altar De Fey have crafted an album that excels in operations performed without anaesthesia, with songs that will splash through the brain as a legacy of a primordial idea of the complete destruction of all colours...


Alex Dematteis

Musicshockworld 

Salford

March 12th, 2022


https://open.spotify.com/album/5A0KxSuvWWJdpAX7W9JrQf?si=fICnxlEdSZWo-ltq7KuxNg


https://music.apple.com/gb/album/the-insatiable-desire/1508732501




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