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lunedì 18 settembre 2023

La mia Recensione: The Sound - Jeopardy

The Sound - Jeopardy



“È sufficiente l'impatto di un verso per far esplodere i detriti che seppelliscono l'anima.“

Nicolas Gomez Davila


L’amore non conosce la sconfitta, anche se vive in un granello di lucide ferite, perché il suo senso è in ogni caso una vittoria, spesso portentosa, a volte meno, ma non in grado di perdere.

Nel 1979 nacque la casa discografica Korova, lo fece a Londra e la prima band a firmare fu quella degli Echo & The Bunnymen, provenienti da Liverpool. Poi una di Wimbledon, attiva sin da prima del gruppo di The Killing Moon, che recitava il suo tentativo di ammissione al mondo musicale con un altro nome.

The Sound.


Il sentire comune viveva alla fine degli anni Settanta una fase purtroppo convinta di un approccio stolido, che non consentiva di affermare la dinamica dello sfacelo. Pochi canali di ingresso e la sensazione dell’inizio del disinteresse nei confronti del circostante che agli inizi del decennio successivo dichiarò lo smarrimento nei confronti dell’impegno. La musica non ne  è stata immune. Ma il gruppo di Borland aveva altre priorità e si distanziò. Emersero qualità pressoché uniche e ben amalgamate con in più le stigmate di un fuoriclasse dalla mente lucida, seppur già sanguinante.

L’anima strappata che si fa urlante e al contempo moderata plana su ogni solco dell’album. Vengono messi a disposizione e in esposizione fiumi di correnti come edera volante nei cuori, dove le unghie trattengono il respiro e il contenuto scosceso di pensieri in stato di assedio. La bellezza è sita anche nell’eruzione complessa di un vulcano che conosce il metodo per presenziare con lentezza e velocità, in una danza avvolgente di fumo e calore.

La grazia della scrittura avvolge la disgrazia dello stato dell’essere umano, qui non negoziabile ma messo in condizione di divenire un peso da bilanciare con dosi necessarie di istinto ed equilibrio.

Jeopardy è una graticola di chiaroscuri girovaghi, in apnea e in fase di slancio, come una metamorfosi continua per abbellire la fatica e la condensa di pensieri che diventano operosi attraverso i canali musicali assestati per tritare il tutto. C’è uno spirito che non si pente, seppur sofferente, e che staziona nelle canzoni come uno specchio obliquo e timoroso, per vascelli di note che aspettano la cortesia di un approccio attento: ogni sequestro ha un luogo blindato e chiuso, ma l’ascolto del lavoro di esordio dei quattro regala la possibilità di comprendere una precisa traiettoria, senza divagazioni. Quello che si trova è una magia grigiastra che istruisce e contempla zone fumogene, come pergamene sonore brillantemente appiccicate alla realtà di questi ragazzi, terremotati nell’affetto e che inducono le nostre curiosità a un abbraccio definitivo. 

Arrovellato sulle rocce apparenti di un Post-Punk sanguigno, il puzzle rivela invece altre maestrali locazioni stilistiche, un solido che riempie i liquidi delle nostre giornate assetate di mistero e della bellezza con l’abito notturno.

L’energia profusa non profuma di freschezza, nulla di davvero adolescenziale viene inciso, in quanto solo agli adulti è concesso di fuggire da se stessi e di perdersi, per sprecare dignitosamente il proprio tempo. Ma i Sound anche qui prendono le distanze: confezionano canzoni come spine con la bava alla bocca, incapaci di seccare perché la cupa poesia esistenziale, una volta che si trasforma in composizione sonora, incontra l’infinito e l’eternità è un amaro destino da consumare.

Drammatico, intenso, nebuloso, denso di incidenti morali (dati da una scrittura acerba ma consapevole, aspetto che sia il Punk che il Post-Punk non sapevano creare), questo esordio stabilisce il punto di inizio della confusione degli addetti ai lavori, del pubblico e dell’industria musicale. Privi di immagini, proprio all’inizio della svolta totale fatta di bassi contenuti culturali a favore del disimpegno e del nascente motore distruttivo del look, i paladini della diversità dimostrano non solo una volontà anacronistica, ma anche quella dose di menefreghismo che li ha resi invisi ai più.  

C’era l’amore da vivere, il mondo da scoprire, il pitturare note come una scossa adrenalinica con un robusto freno a mano e l’incoscienza non ribelle a guidare i ragazzi nell’Olimpo, quello oscuro, perché quello visibile era preso d’assalto da gruppi che mordevano le caviglie pur di stazionare in quel luogo. 

Ma Adrian, Michael, Graham e Bi erano sordi, muti, non inclini a piegare la schiena morale del loro bisogno: cercavano l’altrui sincerità e verità, ricevendo in cambio l’esclusione “dai quartieri alti” di un carrozzone che ha dimostrato come nemmeno nella Musica esista la giustizia. La disperazione, la tensione della responsabilità di un combo non voglioso di definizioni ma di mani libere, condusse a una scrittura altamente acerba, diritta, dove il suono veniva prima dell’idea di una qualsiasi successione di accordi e melodie: bisognava posizionare il senso in un qualcosa di riconoscibile e cosa c’era di meglio se non quello contenuto nel nome stesso della band? 

La frenesia spezzata e spossata da un cambio ritmo, nell’economia di una scaletta che è composta da undici canzoni, fa sì che non sia l’equilibrio a bilanciare il peso specifico del lavoro, bensì una determinante voluta con capriccio e capacità di imposizione. Tutto scorre nello schianto di un sentire unico: a nulla valgono i paragoni e i riferimenti con cui i quattro hanno spesso dovuto convivere. L’unicità è dentro i nostri apparati uditivi, se quelli sensoriali ed emotivi sono stati sgomberati dall’imbecillità del confronto. 

Le tensioni politiche, i luoghi svuotati di pennelli atti a esporre la volontà del vivere, le ambasce di un tempo (quello della capitale inglese) che erano divenute casse di ridondanza ma prive di qualità e contenuto, conferiscono a questo album il ruolo di uno specchio spesso coperto. Ad altri toccava esibire finzioni, ai Sound interessava indagare, far emergere e sottolineare le astruse incapacità umane.

Jeopardy è, così e senza dubbi, un unicum feroce, nel quale lo stordimento rapisce il cuore e lo congeda, per far mancare il fiato pure ai sogni. I testi, ancora legati a soggetti di cui molti volevano parlare, dimostrano ferocia e una grande ironia, uno spirito battagliero ma già contaminato dalla sensazione che valesse poco manifestare idee diverse e opposte. I fighetti, i bambinoni irresponsabili, gli arrivisti, le aquile assetate di potere avevano altre mire. Si salvavano solo  i Joy Division in quell’anno, non il cantante, caduto nella disperazione.

Tutte le altre band (Police, The Cure, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees) avevano altri lidi da raggiungere.

Adrian voleva amore. Darlo.

Punto.

Non sono arrivati in anticipo con questo stratosferico grappolo di canzoni, né in ritardo: semplicemente non esisteva il tempo favorevole per la loro supremazia. Nell’ascolto il cuore e le gambe si piegano in uno sconforto definitivo.

Le undici scintille sono luoghi abitati da una frenesia che non conosce la moviola, tantomeno le persone che camminano e corrono in quegli spazi vorticosi, in quanto tutto il limite del pensiero viene verniciato da composizioni crude, veritiere, insopportabili, anche quando sono trascinanti. Tutto ferisce, la voglia di credere perisce, lasciando a questa quasi ora di musica l’impressione che si potrebbe benissimo confinare in un ascolto ripetuto, senza desiderare altro. È tutto qui. Tutto.

L’estro creativo esplode senza sosta, come se il computer del futuro prevedesse che l’unicità passasse solo nella sconfinata sensibilità di Adrian e compagnia. 

La fantasia supporta una grave difficoltà: non avere a disposizione un budget dignitoso (poche sterline e la fretta urlata in faccia ai quattro), e poi il talento, inarrivabile, che gela e pietrifica un mondo che non si aspettava questo risultato. Il contenuto non è un urlo o una morte che cammina, bensì la classe di una maturità vissuta in modo potente, mai prepotente. Non c’era spazio per questi missili, questi fiori di luce che hanno reso Jeopardy il momento più spiazzante dopo Closer

Ora ci si tuffa nella bellezza reale del turbinio dei quattro Londinesi: dove non è concesso sprecare nemmeno un’oncia della sua strepitosa epicità…




Song by Song 


Side A


1 - I Can’t Escape Myself

“All my problems

Loom larger than life

    I can't swallow

    Another slice”


Il fade-in della chitarra è già una esplosione di stupore, un timido presenziare che espone gli strumenti in gentile coabitazione, dove il synth di Bi necessita di una sola nota per condensare lo scheletro di un brano che non desidera spruzzate adrenaliniche per ottundere, ferire, coinvolgere e sconvolgere. Il basso è ossessivo, la chitarra un bisturi, il drumming un malinconico e cupo estendersi nel percuotere la slavina razionale del protagonista del testo…



2 - Heartland

“A chemistry of commotion and style

You're thrown in

You've got to lose yourself before you find yourself

Back in exile”


Il big bang arriva nel secondo episodio: radiazioni Post-Punk flirtano con una melodia ben più storicizzata. L’armonia sconvolge la prassi del genere musicale e si passa, attraverso la tastiera, a esaltare il basso che pare una fuga posticipata dei Joy Division, ma con maggior impatto seduttivo. La voce di Adrian è una lepre che cerca cibo, trovando nelle sue corde vocali la giusta dose di petrolio. Esiziale, manifesta il potere della chitarra che sa incrociare le malinconie del cielo nel suo assolo potente ma con una venatura romantica impressionante… 



3 - Hour of Need

“I hate the quiet times

I need some company

I miss the noise of life

The silence deafens me”


Una feroce dimostrazione contemplativa assesta il colpo: intima, sfuggente, con cambi ritmo che ne accentuano la possenza, la canzone mantiene lontano ogni tipo di comparazione. Tutto palesa una intensità che sembra chiudere le brevi note della chitarra lasciando spazio al basso e alla batteria, adottando il sistema di due voci a cantare la strofa. Ridondante, cupa, gioca con l’umore e con un testo dove l’odio viene messo sui banchi di scuola di un comportamento da sviluppare col tempo…



4 - Words Fail Me

“My need gnaws at me

My need claws at me

My need lurks inside

It won't be pacified”


Dove i Police avevano fallito, i Sound invece vincono a piene mani: il cantato che ricorda gli Ultravox di John Foxx è il lampione che illumina la corsa veloce di una struttura che si sgancia dal Post-Punk e si affaccia verso un Pop ben strutturato, per conquistare il fragoroso applauso con pochi soffi di sax, ripetuti poi dalla chitarra sanguigna di Adrian…



5 - Missiles 

“Missiles cause damage

And make an eerie sound

Missiles leave carnage

Where there once was a town”


Si può gridare la pace di fronte al potere dell’egoismo, di una classe sociale che sequestra il benessere e l’armonia? Sì, se sei Adrian Borland con il lutto e la rabbia nell’anima e nell’ugola. Missiles è un affronto sincero, che si lancia con un synth dalla bellezza scandalosa (il suono, capito, il suono!), per accodarsi alla paura e allo sconforto: raggiunto il ritornello tutto si fa incendio, un fuoco che piega gli occhi dentro lacrime generose, mentre si balla la danza della concessione alla lotta. La guerra fredda, che viveva in quegli anni il secondo tempo, dimostra come la giovane età di Adrian non significasse disinteresse. Tutto il brano è una enorme sirena che invoca a prendere posizione e ad abbracciare un desiderio sotto forma di domanda.

Irraggiungibile…



Side B


1 - Heyday

“Find yourself all at sea

Never thought they'd let you drown”


Il secondo lato è uno spazio pieno di strazio e appelli, di rifugi illuminati dall’intelligenza di quattro anime battagliere.

Inizia il lotto Heyday, diamante sotto pressione, in cui Adrian riesce a duellare con il basso, e dove la batteria e la tastiera si stringono nella velocità trascinante di una pietra che non rotola, bensì si frantuma e, quando arriva l’assolo, il glam rock strizza l'occhio…



2 - Jeopardy

“We are young

But are we strong?

We've held out

For so long”


Sorniona, come una donna che con furbizia ruba nei negozi colmi di bottiglie di vetro, il brano è un gioiello di semi-luce, che protegge, con il suo incedere nei pressi della paura. Come se l’apnea vivesse dentro un raggio di luce notturno, mette in evidenza una teatralità musicale che non avrà più modo di ripresentarsi, stabilendo la sua unicità…



3 - Night Versus Day

“A switch is snapped, and the borderline

Between night and day is gone”


L’etichetta musicale prese il nome da Arancia Meccanica di Kubrick. Ed ecco che proprio in questi minuti si avvertono gli spigoli di una violenza accennata, misurata, custodita, non ancora bisognosa di schiantarsi nel fragore. Ma se ne avvertono i sintomi, in un delicato scintillio sonoro…




4 - Resistance

“Half-dead, but I hope it's not too late

To take some action and change my fate”


Ecco la rincorsa, il bisogno di difendere attaccando, con versi e note camaleontiche, spigliate: la melodia, vivace e quasi allegra, è invece un pugno nello stomaco sferrato dalla band per sbarazzare la concorrenza con una violenza addolcita ma capace di ferire. I Mancuniani Magazine e gli stessi Joy Division non avrebbero potuto fare di meglio rispetto a questo missile terra-aria…



5 - Unwritten Law

“We could go anywhere

It would still be the same

A change of climate, a change of air

All the pressure would remain”


Il testo è uno squarcio impressionante, una bomba atomica che adotta il poco rumore per meglio ingannare e sorprendere.  Malinconica, audace, struggente, parsimoniosa, la canzone è pure elegante nella sua volontà di rispettare l’ignorante che faticherà a comprendere la genialità di Adrian, qui sullo scettro ma senza potere, perché la sua anima in questa circostanza si fa acida e prudente…




6 - Desire

“Keep in touch, keep in track

Of this thing called desire

There'll be times when we'll do

Anything for desire”


Sia data la luce alla No-Wave, si conceda spazio alla freddezza. No, non siamo dentro il canale Irwell dei Joy Division, bensì dentro il Tamigi, pronto a vedere congelata la vita, a veder repressa ogni fuga dalla crudeltà del vivere. Lugubre e assassina, porta in grembo materiale nucleare da depositare, attraverso liriche amare e stordenti, nel minutaggio di una composizione che pare uscita dal circolo polare artico. Si congedano i quattro con una soluzione inaspettata, per togliere definitivamente ogni dubbio: abbiamo ascoltato un album non degno di essere vissuto senza commozione e riflessione continua.


Si aggiunga al tutto una considerazione doverosa: senza Jeopardy il  mondo avrebbe avuto del tutto via libera per esprimere il vuoto…



Adrian Borland - vocals, guitar, production

Bi Marshall - keyboard, production

Graham Green - bass guitar, production

Michael Dudley - drums, production


Nick Robbins – production


Label - Korova

Year - 1980


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18 Settembre 2023


https://spotify.link/vQc8moNLbDb





My Review: The Sound - Jeopardy



The Sound - Jeopardy



"The impact of a verse is enough to explode the debris that buries the soul."

Nicolas Gomez Davila


Love knows no defeat, even if it lives in a speck of shiny wounds, because its meaning is in any case a victory, often portentous, sometimes less so, but not able to lose.

In 1979 the record company Korova was born, it was in London and the first band to sign was Echo & The Bunnymen from Liverpool. Then one from Wimbledon, which had been active since before The Killing Moon's band, acting out its attempt to enter the music world under a different name.

The Sound.


By the end of the 1970s, the Sound was living a phase unfortunately convinced by a stolid approach, which did not allow for the dynamics of the debacle to be affirmed. Few channels of entry and the feeling of the beginning of disinterest in the surrounding that declared a loss of commitment at the beginning of the next decade. The music was not immune. But Borland's group had other priorities and distanced themselves. Nearly unique and well-blended qualities emerged with the stigmata of a clear-headed, if already bleeding, outlier.

The ripped soul that becomes screaming and at the same time subdued soars over every groove of the album. Streams of currents are made available and on display like flying ivy in hearts, where nails hold breath and the craggy content of thoughts in a state of siege. Beauty is also to be found in the complex eruption of a volcano that knows the method to attend with slowness and speed, in an enveloping dance of smoke and heat.

The grace of the writing envelops the disgracefulness of the state of the human being, here non-negotiable but made to become a weight to be balanced with necessary doses of instinct and balance.

Jeopardy is a graticule of wandering chiaroscuro, apnoea and momentum, like a continuous metamorphosis to embellish the fatigue and condensation of thoughts that become industrious through the musical channels set up to chop it all up. There is a spirit that is unrepentant, albeit suffering, and that dwells in the songs like an oblique and fearful mirror, for vessels of notes that await the courtesy of an attentive approach: every seizure has an armoured and closed place, but listening to the four's debut work gives one the chance to understand a precise trajectory, without digressions. What we find is a greyish magic that instructs and contemplates smoky zones, like sound parchments brilliantly stuck to the reality of these guys, earthquake-struck in affection and inducing our curiosity to a definitive embrace. 

Touched on the apparent rocks of a sanguine Post-Punk, the puzzle instead reveals other majestic stylistic locations, a solid that fills the liquids of our days thirsty for mystery and beauty with the night dress. 

The energy lavished does not smell fresh, nothing truly adolescent is recorded, as only adults are allowed to run away from themselves and lose themselves, to waste their time with dignity. But the Sound also distance themselves here: they pack songs like thorns with frothing at the mouth, unable to dry up because the gloomy existential poetry, once it turns into sound composition, meets infinity and eternity is a bitter fate to be consumed.

Dramatic, intense, hazy, dense with moral incidents (given by an acerbic but self-conscious writing, an aspect that both Punk and Post-Punk were incapable of creating), this debut establishes the starting point for the confusion of insiders, audiences and the music industry. Devoid of images, right at the beginning of the total turnaround of low cultural content in favour of disengagement and the nascent destructive engine of the look, the champions of diversity demonstrate not only an anachronistic will, but also that dose of indifference that made them invisible to most.  

There was love to be experienced, the world to be discovered, the painting of notes like an adrenalin rush with a strong handbrake and unrebellious recklessness to guide them to Olympus, the dark one, because the visible one was stormed by groups that would bite their ankles just to be stationed there. 

But Adrian, Michael, Graham and Bi were deaf, dumb, not inclined to bend the moral back of their need: they sought each other's sincerity and truth, receiving in return the exclusion 'from the upper echelons' of a bandwagon that proved that not even in Music does justice exist. The desperation, the tension of responsibility of a combo not wanting definitions but free hands, led to a highly acerbic, straightforward writing style, where sound came before the idea of any succession of chords and melodies: meaning had to be placed in something recognisable, and what better way than in the very name of the band? 

The frenzy broken and exhausted by a change of rhythm, in the economy of a set list that is made up of eleven songs, means that it is not balance that balances the specific weight of the work, but rather a determinant intentional with whimsy and capacity for imposition. Everything flows in the crash of a unique feeling: the comparisons and references with which the four have often had to live. Uniqueness is within our auditory apparatuses, if our sensory and emotional ones have been cleared of the imbecility of comparison. 

The political tensions, the places emptied of brushes to expose the will to live, the ambassadors of a time (that of the English capital) that had become cases of redundancy but lacking in quality and content, give this album the role of an often covered mirror. Others had to exhibit fictions, the Sound was interested in investigating, bringing out and highlighting abstruse human incapacities. 


Jeopardy is, thus and without a doubt, a fierce unicum, in which the stunner kidnaps the heart and dismisses it, to make even dreams run out of breath. The lyrics, still tied to subjects that many wanted to talk about, show ferocity and a great irony, a fighting spirit but already contaminated by the feeling that it was worth little to manifest different and opposing ideas. The frantic and crazed people, the irresponsible children, the careerists, the power-hungry eagles had other aims. Only Joy Division was saved in that year, not the singer, who had fallen into despair.

All the other bands (The Police, The Cure, Bauhaus, Siouxsie & The Banshees) had other shores to reach.

Adrian wanted love. To give it.

Full stop.

They didn't come early with this stratospheric cluster of songs, nor late: there was simply no favourable time for their supremacy. Listening to it, the heart and legs fold in definitive despondency.

The eleven sparks are places inhabited by a frenzy that knows no moviola, let alone the people who walk and run in those swirling spaces, as the entire limit of thought is painted by raw, truthful, unbearable compositions, even when they are dragging. Everything hurts, the will to believe perishes, leaving this almost hour of music with the impression that one could very well confine it to repeated listening, without wishing for anything else. It is all here. Everything.

Creative flair explodes unabated, as if the computer of the future foresaw that uniqueness would only pass into the boundless sensibilities of Adrian and company. 

Imagination supports a serious difficulty: not having a decent budget available (a few pounds and the hurry shouted in the face of the four), and then the talent, unmatched, that freezes and petrifies a world that did not expect this result. The content is not screaming or walking death, but the class of a maturity lived in a powerful way, never overbearing. There was no room for these missiles, these flowers of light that made Jeopardy the most disorienting moment since Closer. 

Now we are plunged into the real beauty of the four Londoners' whirlwind: where not an ounce of its resounding epicness is allowed to be wasted.



Song by Song 


Side A


1 - I Can't Escape Myself

"All my problems

Loom larger than life

    I can't swallow

    Another slice"


The guitar's fade-in is already an explosion of astonishment, a shy presence that exposes the instruments in gentle cohabitation, where Bi's synth needs only a single note to condense the skeleton of a song that does not want adrenalin sprays to dull, wound, involve and unsettle. The bass is obsessive, the guitar a scalpel, the drumming a melancholic and sombre stretching in beating the rational sledgehammer of the lyrics' protagonist



2 - Heartland

"A chemistry of commotion and style

You're thrown in

You've got to lose yourself before you find yourself

Back in exile'


The big bang comes in the second episode: Post-Punk radiation flirts with a much more historicised melody. The harmony disrupts the practice of the musical genre, and the keyboard enhances the bass that sounds like a postponed Joy Division escape, but with more seductive impact. Adrian's voice is a hare searching for food, finding just the right amount of oil in his vocal chords. It manifests the power of the guitar that can cross the melancholies of the sky in its powerful solo but with an impressive romantic vein 



3 - Hour of Need

"I hate the quiet times

I need some company

I miss the noise of life

The silence deafens me".


A fierce contemplative demonstration deals the blow: intimate, elusive, with rhythm changes that accentuate its power, the song keeps any kind of comparison at bay. Everything reveals an intensity that seems to close the short guitar notes leaving space for the bass and drums, adopting the system of two voices to sing the verse. Redundant, sombre, it plays with mood and with a lyric where hatred is put on the school desk of a behaviour to be developed over time...



4 - Words Fail Me

"My need gnaws at me

My need claws at me

My need lurks inside

It won't be pacified'.


Where the Police had failed, the Sound win hands down: the vocals, reminiscent of John Foxx's Ultravox, are the lamppost that lights up the fast pace of a structure that breaks away from Post-Punk and leans towards well-structured Pop, to win thunderous applause with a few blasts of sax, then repeated by Adrian's sanguine guitar...



5 - Missiles 

"Missiles cause damage

And make an eerie sound

Missiles leave carnage

Where there once was a town"


Can one cry out for peace in the face of the power of selfishness, of a social class that hijacks well-being and harmony? Yes, if you are Adrian Borland with grief and rage in your soul and uvula. Missiles is a heartfelt affront, which launches itself with an outrageously beautiful synth (the sound, you know, the sound!), to join the fear and despondency: when the refrain is reached, everything becomes fire, a fire that bends the eyes into generous tears, while dancing the dance of concession to the struggle. The cold war, which lived in those years the second half, shows how Adrian's young age did not mean disinterest. The whole song is a huge siren call to take a stand and embrace a desire in the form of a question.

Unattainable...



Side B


1 - Heyday

“Find yourself all at sea

Never thought they'd let you drown”


Il secondo lato è uno spazio pieno di strazio e appelli, di rifugi illuminati dall’intelligenza di quattro anime battagliere.

Inizia il lotto Heyday, diamante sotto pressione, in cui Adrian riesce a duellare con il basso, e dove la batteria e la tastiera si stringono nella velocità trascinante di una pietra che non rotola, bensì si frantuma e, quando arriva l’assolo, il glam rock strizza l'occhio…



2 - Jeopardy

"We are young

But are we strong?

We've held out

For so long"


Slyly, like a woman who slyly steals from shops full of glass bottles, the track is a jewel of semi-light, which protects, with its striding in the vicinity of fear. As if apnoea lives within a ray of nocturnal light, it highlights a musical theatricality that will never occur again, establishing its uniqueness



3 - Night Versus Day

"A switch is snapped, and the borderline

Between night and day is gone".


The music label took its name from Kubrick's A Clockwork Orange. And it is precisely in these minutes that one can feel the edges of a violence that is hinted at, measured, guarded, not yet in need of crashing into the din. But you can feel the symptoms, in a delicate sonorous sparkle...



4 - Resistance

"Half-dead, but I hope it's not too late

To take some action and change my fate'


Here is the chase, the need to defend by attacking, with chameleon-like, sprightly verses and notes: the melody, lively and almost cheerful, is instead a punch in the stomach unleashed by the band to get rid of the competition with a softened but capable of wounding violence. Mancunians Magazine and Joy Division themselves could not have done better than this surface-to-air missile...



5 - Unwritten Law

"We could go anywhere

It would still be the same

A change of climate, a change of air

All the pressure would remain'


The lyrics are an impressive gash, an atomic bomb that adopts little noise to better deceive and surprise.  Melancholic, daring, poignant, parsimonious, the song is also elegant in its willingness to respect the ignorant who will struggle to understand the genius of Adrian, here on the sceptre but without power, because his soul in this circumstance becomes sour and cautious




6 - Desire

"Keep in touch, keep in track

Of this thing called desire

There'll be times when we'll do

Anything for desire"


Let there be light to the No-Wave, let there be coldness. No, we are not inside Joy Division's Irwell Canal, but rather inside the Thames, ready to see life frozen, to see every escape from the cruelty of living repressed. Lugubrious and murderous, it carries nuclear material to deposit, through bitter and stunned lyrics, in the minutiae of a composition that seems to have come out of the Arctic Polar Circle. The four take their leave with an unexpected solution, to remove all doubt once and for all: we have listened to an album not worthy of being experienced without emotion and continuous reflection.


Add to this a dutiful consideration: without Jeopardy, the world would have been completely free to express emptiness



Adrian Borland - vocals, guitar, production

Bi Marshall - keyboard, production

Graham Green - bass guitar, production

Michael Dudley - drums, production


Nick Robbins - production


Label - Korova

Year - 1980 


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

18th September 2023


https://spotify.link/H6Te4UQLbDb




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