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domenica 28 maggio 2023

La mia Recensione: The Smiths - The Smiths

 

The Smiths - The Smiths

L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.

(Paul Klee)


C’era una volta un semaforo, nel bel mezzo del cielo grigio di un agglomerato urbano ribelle ma muto, che vedeva scorrere le vite disoneste, spente, piene di allergie, e fermava tutte queste anime con l’apoteosi di musiche che accendevano entusiasmi che appassivano dopo pochi minuti: Manchester degli anni Settanta era uno strano coacervo di passi, sentieri, sbagli e ipotesi, in cerca di una esplosione, che si augurava di determinare molto in fretta. Ci avevano provato tre band, in ordine cronologico: Buzzcocks, Magazine e una che ha fatto molto di più di tutto questo, accelerando la catastrofe della città, perché dopo di loro sarebbe sorta una sterilità che non avrebbe fatto altro che metterla completamente da parte. Oggi non è più la capitale inglese della musica, e va bene così. Ma il vecchio scriba ha potuto capire quale è stato il momento del parto che ha reso quell'agglomerato urbano incapace di generare altri figli. Sono stati quattro cadaveri, quattro spavaldi intolleranti, incattiviti da metodiche che lasciavano al futuro solo sogni, velleità e illusioni. Ma Stephen, Johnny, Andy e Mike avevano le redini, il bavaglio, tele di catene con i brividi appiccicate a canzoni che sapevano divenire la bottega della miseria, nella notte arrossata di un percorso senza finestre.
L’album di esordio è uno straordinario errore, una incapacità folle di essere banali e prevedibili, un osceno affronto alla civiltà britannica ancora devota a conservare l’arroganza di poter conquistare e dominare. In fondo pure loro volevano arrivare al potere e lo hanno ottenuto, passando dalla porta sul retro di una casa senza lustrini (quelli li avevano presi i New York Dolls e il buon Marc Bolan), per rimanere nello scantinato tra giovani e immortali rughe e riff che potevano ferire il cuore di chi (vi ricordate Ian Curtis?) aveva già dichiarato il fallimento di un sistema, per prendere le distanze e crogiolarsi nella bellezza, quella atomica, quella che non lascia respirare nemmeno i sogni.
The Smiths ferisce, molesta, offre chiodi e siringhe, storie sbilenche, raccapriccianti ma vere, quindi credibili e in grado di squarciare il perimetro della città di quel canale del quale il cantante dinoccolato aveva avuto la necessità di mettere a bordo la storia. Musiche astute, perché lontane dal Post-Punk pur avendo l’odore di una ascella malata di stanchezza. Fatte di piume Pop con il timbro di una decade che per davvero aveva illuso tutti, ma avendo lasciato almeno una luce spenta: non ci sarebbe stata più tanta allegria…
Questi ragazzi avevano l’umore di una giornata in miniera pur avendo i polpastrelli lucidi e ben pettinati, ma una volta che toccavano gli strumenti ecco una ribellione improvvisa a rendere penosa ogni reazione. All’arciere Morrissey il delicato ruolo di confezionare frecce, pallottole, bombe e mine anti-stupidità: si doveva cercare il torbido e imbalsamarlo.
Ma del colore delle composizioni di questo anfiteatro inglese ne vogliamo parlare? La storia ci dice che i quattro sono riusciti a spaventare genitori, amici, gli incoscienti, gli inutili, gli spavaldi collezionisti di squallide avventure, nel momento in cui la città non riusciva più a farsi il trucco di giorno, ma solo negli appuntamenti di quella grande puttana che è la notte Mancuniana dei primi anni Ottanta. Il metallo cola dalle chitarre di uno gnomo, un puffo che, come in un bisogno anacronistico, si permette di scavalcare il tempo e di prenderlo in giro con l'atteggiamento di chi piange mentre fa sorridere la musica, nel delirio di una classe incontrollabile, effervescente, che miscela funky, rock, pop, blues, punk e la follia di chi nelle note immette passione e una dose di freddezza ordinata dal dottore dell’imprevisto, un tipo strano ma necessario.
Il basso in questa band, nel presente disco, è una carezza di piombo, lontana dai cliché di chi cercava il dominio, l’arroganza del capobanda in quanto, si sa, è lo strumento più importante di una formazione dedita al rock. Andy Rourke ha avuto il coraggio di sembrare un soldatino obbediente al servizio del Re Marr, per lasciare al suo regno la luce, la scena. Ma che inganno! Sui suoi solidali voli, tutto sembrava ordinato, pieno di polvere e in grado di incollare trame e nuvole che lo gnomo non smetteva di disegnare nella granitica Manchester. Vedremo poi cosa è riuscito a combinare. Mike, l’uomo del caso, diviene qui la vincita milionaria, il metronomo di ogni talento, il vigile e il tappeto su cui tutto poteva scivolare e frenare, collaudando uno stile poi divenuto essenziale negli anni Novanta. Un’anima silenziosa che nel disco sculaccia la prevedibilità e insegna al mondo intero che leggerezza e potenza sono solo coordinate parallele di un volo senza catene: non il genere, non la tecnica, bensì il progetto, per creare una impalcatura senza possibilità di crollare.
L’lp è frutto di una avidità eclatante, una burrascosa predisposizione a rendere la canzone un pulcino in una giornata di pioggia, nuda e disarmata, per portarla nel caldo cuore delle sue dita vellutate. Johnny Marr è il più adorabile sbaglio della città di Manchester: un Re che si lascia crescere i capelli per nascondere il suo talento è destinato a essere detronizzato in fretta, ma sono passati tanti treni, tanti regni senza che nessuno sia stato in grado di ridicolizzarlo.
Ha portato in studio novità clamorose, effetti, amplificatori, stili e la colla magnetica che può possedere solo chi con un riff non si gioca la vita bensì la schiaffeggia con la risata di un regnante senza corona. Il buon Marr ha anticipato usando il passato di chi non voleva più considerare, ha illuminato i polsi di errori chiusi a chiave da tanto tempo. Dalla sua collezione di dischi sono usciti stimoli, impulsi e tanta voglia di mare. Che ha saputo inventare e sul quale il profeta/poeta di Stretford ha fatto nuotare le parole più cupe, più arroganti e strazianti che si potessero immaginare. Ma Morrissey è andato oltre: sapete di cosa parlano i suoi capricci verbali? Quali sono i temporali mentali della sua indole pseudo ignorante? Quali sono le pallottole che ha lucidato per costruire un romanzo senza l’ultima pagina? Quest’uomo ha elevato l’arte, portandola nel Millequattrocento, buttando via la storia successiva e togliendo alla verginità dei sogni la possibilità di un ristoro, fosse pure temporale. I suoi testi rendono buia Salford, Deansgate, Bury, Oldham e le zone limitrofe, per divenire spazzatura da congelare. Sono catastrofi piene di logiche senza senso per i più, estremamente importanti per i meno, che qui, nel nord ovest inglese, sono una muta maggioranza ed è proprio quella parte della città che ha tributato subito considerazione nei confronti del poeta occhialuto, mostrando un ostinato bisogno di nutrirsene. Burrascosa la produzione, tanto da dover registrare daccapo l’album, cambiare il timoniere del suono e fare il tutto velocemente, visto che la Rough Trade non aveva soldi da perdere stupidamente…
Poi: la magia, a rendere cieche le orecchie e muti gli occhi, per incastrare il sole nella sofferente periferia Mancuniana e dare alla violenza suburbana il palco. Così come alle storie piene di sbavature, come una scialorrea inevitabile consequenziale all’approdo enigmatico di identità votate al terremoto morale. Morrissey ha saldato la verità con ironia, rendendo merce prelibata e senza prezzo il pensiero, la scelta di passeggiare con il raziocinio dentro le inquietudini, sia quelle adulte che quelle adolescenziali.
Ed eccoci, tutto è da consegnare alla lente di ingrandimento, all’ispezione anale di una volgare attitudine da parte di un quartetto che ha saputo squarciare il cielo dell’idiozia e inondarlo di gladioli.
Il dovere chiama: sia accesa la luce di uno stratagemma che comprende l’analisi di una verbosa ed esasperante capacità di cambiare per sempre la vita di chi vi scrive…

Song by song 

1 Reel Around the Fountain

Si può prendere la verginità della pelle, di un’anima e gettarla nell’indifferenziata, di una raccolta malata e malandata, e farla divenire una rovente denuncia? Se sei Morrissey sì, amaramente, con le lacrime ossidate, le chitarre arpeggianti nel letto del canale Irwell, il testimone muto di molte porcherie. La canzone è lenta, prevedibile, noiosa, sprezzante, un’atomica che guarda con cattiveria il polso di un adulto strappare il sogno di un fanciullo. Joyce martella con rispetto, e lo fa con la sua grancassa lucida. Andy si siede sulla storia e accarezza le quattro corde quasi con paura. Lo gnomo trova la chitarra chirurgica, poi si chiede l’aiuto di un noto musicista, gli si lascia il piano ed è tutta la magia nera di uno strupo che sale al cielo là dove Morrissey racconta e aspetta….

2 You’ve Got Everything Now

Si cambia decisamente ritmo, generi musicali tenuti incollati in una strofa che pare giungere da una marcia gracchiante di chitarre americane, sino all’organo che nel ritornello fa diventare tutto così selvaggiamente Sixties. Johnny comincia a marcare il territorio, come un felino, piscia la sua magia sulle dita che si contorcono, obbligando Andy a divenire un danzatore di trame funky, del sottobosco di quella parte del Merseyside così poco nota alle anime stolte. Un brano che poi, se lo si ascolta bene, sarà la base di una modalità espressiva ritenuta inspiegabile, in libri affannati di scrittori senza talento: Morrissey qui si rivela il maestro delle certezze, quelle senza luce, senza interruttori, ed è solo la trama musicale a tenere il sorriso dentro l’ipotesi…

3 Miserable Lie

La bugia più grande si nasconde nell’arpeggio intrigante e quasi triste di Johnny, una Reel Around the Fountain che ritorna: non è così, è una falsità che subito lascia sangue sul terreno di un'accelerazione Post-Punk ma con nell’anima tutta la radice del Northern Soul più antico e meno celebrato. Chitarre rockabilly, un solo che concede a Morrissey l’isteria sublime di un falsetto che o uccide o attira, o annoia o diventa il pretesto di un'emozione così intensa da essere una droga pesante. Ma i veri regnanti sono Joyce e Rourke, scheletri sublimi, artefici di ossa che fanno danzare e che consentono a Marr di divagare, divertirsi e farci perdere la bussola…

4 Pretty Girls Make Graves

Il futuro degli Smiths nasce in questi tre minuti e quarantatré secondi: la periferia del talento si dirige velocemente verso Piccadilly Gardens, nel cuore della città, nel ventricolo generoso di una melodia che pare rubata in modo irrispettoso a Sandy, la cantante scalza che poi darà un pugno alla band osando accettare l’invito di Morrissey… Ma torniamo al pezzo in questione: tutto si fa chiaro in quanto le melodie sono fumogeni, il ritmo la semplice e fuorviante messa in scena di uno spettacolo che prevede, come protagonisti, vittime che si illudono di detenere il potere. E via, tutto sembra così lontano dai synth, dai ritornelli banali e inutili, e la band Mancuniana con questa semi-ballad pop dà una frustata al circostante, all’elettrica danza  di gruppi infarciti di bruttezza e cataclismi addominali. Qui il falsetto è una fucilata, la chitarra semiacustica il bisogno di visitare da vicino il Country tanto caro a Marr, e la voce è l’Irwell ripulito e disinfettato da una propensione così vicina al richiamo, sempre sublime, di un annoiato Dean Martin capitato per caso nei paraggi. Dal finale della canzone Johnny prenderà i frutti di semi che si riveleranno ancora prelibati nel successivo Meat is Murder…

5 The Hand That Rocks the Cradle

Manchester esplode, con una ninnananna quasi torbida, un viso piangente dentro una melodia che pare imbalsamata dalla perfezione di un incrocio di chitarre e dal basso di Rourke che proviene dal garage di ogni ascolto adolescenziale. Sembra di essere nella periferia nord-est della storia del pop, là dove tutto iniziò: bastano poche note per inchiodare le lacrime al cielo e Marr lo sa bene. Una ossessione schematica, tutto ridotto, nessuna concessione ai ritornelli, tutto liofilizzato, tutto sufficiente a stringere i bisogni e polverizzarli. Gotica più dei Bauhaus, dei Cure, è una sciarpa invernale che con la sua tendenza terribilmente noiosa riesce a uccidere ogni desiderio di vita: semplicemente perfetta…

6 This Charming Man

Aladino era impegnato, Nerone giocava col fuoco, Giovanna d’Arco sarebbe arrivata poco dopo, ma c’era da riempire il vuoto consequenziale creato da una parata di errori che la storia voleva negare. Ci ha pensato Morrissey, creando l’assurdo movimento di una ipotetica intolleranza alla bellezza, devastando con parole fulminanti, allo stesso modo di Marr che, con quell’introduzione, ha spaccato la musica, gettandola nella mediocrità, perché quei pochi secondi sono lo scettro che brilla nelle lacrime solitarie di un inviperito destino designato dalla poesia scorticante di un leader che con questo brano stravolge il cielo. Un su e giù pelvico, sensoriale, che unisce voce e chitarra per lo stesso destino: dare la voce alla pianura affinché sia capace di arrivare a Dioniso…

7 Still Ill

C’è un ponte che collega la mitologia alla polvere di una piccola famiglia operaia (al tempo) che si chiama Stretford, nel passaggio peccaminoso di desideri incollati all’Inghilterra volgare e provocatrice di atti osceni. Marr impazzisce, trova binari non paralleli, per condurre la sua chitarra tra il paradiso e il purgatorio. Gli altri tre sono già all’inferno, data la cattiva condotta e il malvagio comportamento che ha fatto sì che l’umana esistenza conoscesse la perfezione: non sia mai! I sogni bussano, spingono, ma la sensazione di una mente malata non lascia il corpo di una mente che sublima il tutto pilotando la volgarità verso la saggezza…

8 Hand in Glove

Una grattugia, stimolata da un’armonica a bocca acida, sgretola la pelle della Gran Bretagna, a colpi di pagine di carta, di teorie e trame perverse, di una fantasia che ha il potere di rendere cattivo l’alito e il pulsare del cuore. Tutto si rende capace di divenire un moto carbonaro senza base e infatti Morrissey chiude a chiave l’accesso di ogni comprensione con una scrittura che prende in prestito il talento del mai deceduto Oscar Wilde. Moz scrive la storia per sotterrarla così come fanno le dinamiche del primo Novecento, qui nelle mani dei tre musicisti che agiscono con una terapia d’urto, come un TSO inevitabile. Ed è pura paura, puro scuotimento, febbricitante e furbastro, per dare catrame a ogni vascello e renderlo affondabile. La semplice risposta, ma assai profonda, che il bardo scrive per dare alla sua matita la possibilità di incidere meglio di un bisturi…

9 What Difference Does It Make?

Quante zampe ha una chitarra? Quante corde ha il nervo teso di un basso? Quante bolle vivono sulla pelle di un tamburo? Quanta poesia resiste nelle tenaglie di un dubbio? Le risposte, spavalde, respirano e muoiono in questa valanga, tra rock, psichedelia, rock and roll e follia primitiva dalla barba incolta…
Non un brano ma un altare, pagano, sulle rive del mare in burrasca, di una scoscesa perlustrazione, atta a ripulire la musica, tutta, dall’avanzamento tecnologico. Gli Smiths si rifiutano di pulire il culo alle giovani band emergenti, mettono gli artigli negli anni Sessanta e sconquassano il cielo di Manchester, senza paure…

10 I Don’t Owe You Anything

Qui nacquero gli Herman’s Hermits, la band Mancuniana per eccellenza, quella che portò le persone a conoscenza dell’esistenza di questo grigissimo posto. Fecero di tutto per renderlo allegro. Il penultimo brano di questo album di esordio sembra ricordarci la tempra, l’assoluto coraggio nel cercare una melodia che abbracci il sole. Ma Houston, abbiamo un problema, e pure grande: Morrissey canta come se fosse chiuso nel dondolio di una altalena spinta e dipinta dalla signora con la falce perché il suo è un approccio sbavato di vita, gonfio di un ventaglio gelido in grado però di appassionare, il mare in burrasca che, per contraddizione subliminale, seduce e pare una parodia più che accettabile. Lenta, grassa, spigolosa, incantevole come un giardino piovoso, la canzone è un rotolo di cartapesta che saprà ingravidare le stelle…

11 Suffer Little Children

Si va al Cinema, di mattina presto, tra scorticate idee primordiali, e la paura della gioia. La trama letteraria è da premio Nobel, ma con il sangue che finisce sul papiro, così come il basso di Rourke che sembra morire di stenti, solo la batteria di Mike sembra procedere, con semplicità, dentro una fossa che la chitarra di Johnny ha costruito ascoltando gli amati New York Dolls. Non stupisce che il brano più malinconico sembra un’atomica cinese, il fungo che sale sopra il cielo di Manchester lasciandolo spoglio di ogni alito di vita. Come un pranzo finito male, come una stretta di mano che diventa un pugno, così fa la canzone che stabilisce il punto di contatto celebrato precedentemente dentro la Cappella Sistina: l’umano e il divino si sfiorano per creare, nella immortalità, il pretesto di un sogno…

Un esordio, un inizio, e il libero arbitrio sul palmo delle vostre mani: a voi la scelta se obbedire all’orgasmica tentazione della sirena The Smiths o se rimanere fermi alla ridicola propensione di essere umani…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
28 Maggio 2023

https://open.spotify.com/album/6cI1XoZsOhkyrCwtuI70CN?si=c23HAts-TA6KNzTPnStnSg




venerdì 21 aprile 2023

My Review: Married FM - Married FM

Married FM - Married FM


Music is in need of peace signs, of easing its nerves inside our days, to become a place where notes are a collective well-being again. Beth and Emily, two artists full of goodwill and quality, distributors of soft blankets, do this with their songs that are truly a beacon in the midst of the blackness. They point the way and not the direction: with them we are in the materialisation of dreams and good cheer. Using the characteristics of country wearing folk feathers and light but not silly pop, we find ourselves whistling, dancing with smiles and a zest for life. Because there's a There Ain't Nothing in each of us....


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

 21st April 2023


https://marriedfm.bandcamp.com/album/married-fm






La mia Recensione: Married FM - Married FM

 Married FM - Married FM


La musica abbisogna di segnali di pace, di distendere i suoi nervi dentro le nostre giornate, per tornare a essere un luogo dove le note siano un benessere collettivo. Ci pensano Beth e Emily, due artiste piene di buona volontà e di qualità, distributrici di morbide coperte, con le loro canzoni che sono davvero un faro in mezzo al nero. Indicano il senso e non la direzione: con loro noi siamo nella  materializzazione dei sogni e del buonumore. Adoperando le caratteristiche del country che indossa piume di folk e di un pop leggero ma non stupido, ecco che ci ritroviamo a fischiettare, a ballare con i sorrisi e tanta voglia di vivere. Perché c’è una There Ain’t Nothing in ognuno di noi…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

 21 Aprile 2023


https://marriedfm.bandcamp.com/album/married-fm






giovedì 23 febbraio 2023

My Review: The Slow Readers Club - Knowledge Freedom Power

 

The Slow Readers Club - Knowledge Freedom Power



Where were we?

There are magics that lose altitude, approximations and illusions that steal space, in the ocean of confusion that erases reality and creates in the virtual a free access that not only confuses, diseducates and levels life with a conspicuous downward spiral, but also leads to a frantic race towards appearance.

The distance between people, this old lady, has its hours counted.

Can someone lend her a hand? Can you give her courage, support her?

Perhaps by partly using the same elements of modernity, perhaps just to apparently play the game with the aforementioned marked cards?

Yes, The Slow Readers Club can do it, and very well.

So ahead even of themselves, their latest album is their evolutionary masterpiece, the astonishing journey that spans their career and makes it a distant snapshot, to look at but no longer any relation.

The Manchester band is building a glass palace, a shimmer to show the mechanisms of the ideas and class available to become four chips connected to the future, not as a challenge or out of curiosity, but out of a need to be a solar system within the foggy cage of a present that can crush. No more sadness and lament: enough of propensity to make streams of discomfort accessible and stop with descriptions of what defeats life.

What is needed is the ability to create new paths, new heavens, new inclinations, bringing a design impetus that can create qualifying and different spaces. Hence the improvement/change that comes to music from their human identities. They sweep away the competition with an album that collects a mental sweat, an exercise in alternating sound, environment, and attitudes for a race that becomes radiant: they could have made their music commit suicide with repeated clichés, come up with hits like magnets. Instead, they have become a building site in the sky where the sun's rays kiss the darkness: Knowledge Freedom Power is a traffic light with green and yellow lights that keep the machine of their projects moving, between experimentations and oscillations that bring a polite scream inside us, between amazement and a gasoline to put in the engine of our needs. A new band that emerges already grown-up and oiled, that sprays enthusiasm and energy and overrides all friction. It is not mocking those who have always loved and followed them over the years, because the four Mancunians have always had respect for their loyal supporters, without giving up the possibility of a path that would reveal their artistic needs.

I would like to reassure those who fear that in all this positive identity, the sensibility associated with sadness, a certain decadence and healthy meanness have completely disappeared: it is all intact and perfectly balanced, magically, among the new forms of expression. 

The love of life, the sharing of evil, the perspective to be built, the sun and the dark find a table on which to create hypothesis, dense and precise arguments that allow all components the chance to manifest themselves: an album miraculous in itself for this reason alone. Euphoria is a weapon that the Manchester band uses at various times, leading the listener to smile and dream, to move away from the abyss, but the latter is used so as not to unbalance it towards excess.

This willingness to wander through the songs as if they were leaves composed of the same secret as the snakes is surprising: life is food, and to consume it one must approach it with the right weapons, strategies between the teeth, passing through sound patterns permeated by electronic musical mantles devoted to emphasis and a sweet manifestation of guitars with fog in their eyes but inclined to seek out the sun's rays.

The darkness, however, remains: it is part of a past that does not want to impose itself, let alone surrender, and struggles with its claws, which, as we will see in the song-by-song description, in some episodes shows its ardour, its nervousness, like a belly that has an old, kicking foetus inside it. 

The sounds are the true identity of the whole, a row of grapes ready to be picked for an immediate nectar that intoxicates and conquers, without hesitation. No longer “just” tracks, but beams, shrubs, roots, blades of ice with the right blanket to wrap the listener in an area where even the saddest shines with depth and immediacy. 

Joe Cross has put the quartet in the position of being polite soldiers in a gentle battle, in which the attitude of using synths as the main texture is combined with rock, with a willingness to weave melodies and rhythms that do not make one prefer one over the other, giving perfect joints. In this way the songs, one after the other, become a strong and delicate embrace, in which the rhythm often turns into a dance with eyes open to the future and a glance back, without losing balance.

The voice, throughout the album, is a tear that, having turned out to be solid and cold, warms the heart because in its diverse, more positive language, nothing can erase its skin: Aaron moves like never before, his flicks, his falsettos more melodic and even more powerful than in the past are continuous razor strokes. His quests to find harmonies and rhythms prone to conviction are crazy, as they are structured to stick in the mind, in a perfectly successful minimal metamorphosis, as if a small scalpel had been used to slightly alter the system we knew by heart. Shivers rush in, amazement takes over the stage never to leave it again and, song after song, those vocal chords of his become intoxicating runs, leading us to a boisterous, rebellious, highly successful song.

Their muscular dystopia is not dead, endangered or anything else, but is in the company of something that resembles the opposite to give the music a face full of nuances and unpredictable approaches, where the all known now becomes even more inflated, full of poetic mastery. Their best album awaits you, be sure to approach it with your eyes clear of any disquiet, because you will find it, often disguised, but always present. Slow readers now read faster, as the future can no longer be a matter to be ignored, and they have done this very well…


Song by Song


1.Modernise


Opening this work is a vigorous track, somewhere between old TSRC and Muse, with violent synths and a sumptuous bass, setting the tone for their sixth work. Stylistic variations, instrumental alternations are offered, riding rock and electronica with great passion and skill, with the chorus releasing the madness... 





2.Afterlife


A vibrant pearl conquers the listener, with the instrumental technique revealing more talent and direction, with its power to be grasped and assimilated, generously revealing their muscles inserted among the notes, making everything a hypnotic delirium.

Did you say they had changed? Were you afraid? Don't be silly (although change is legitimate): here you are within the walls of Manchester ready to leap through the streets of the world dancing, your skin sweating with sadness and the will to live in a difficult but possible coexistence. Extraordinary! 




3.Sacred Song


If the future is to be a place full of empathy and respect, Sacred Song is the right track to look at each other without rancour and laugh with awareness and maturity, the place where the senses will be surprised and the chewing of it all will take time if you are demanding and unable to accept the growth of these boys who have become men with time. We are in the presence of sunshine, of light, of energy given in a wild bundle of emotions that will win you over.




4.Lay Your Troubles On Me


You weep, you reflect, you lay your cards on the table, in this vessel in the ancient waters of Salford harbour. The vocals, the melody of the singing, Kurtis' guitar arpeggios, David's perfect drumming and Jim's straightforward bass make this song a peaceful cry, which will explode in your chest towards the end...




5.How Could YouKnow?


Astonishment has no limit, within the art of the Mancunians: here is proof of this in a subliminal phrasing, an elaborate way of planning the enchantment that dresses up to stack the deck. The song is the album's crossroad, the synthesis and development of an alchemy that needs listening, but will delight you once you brush its magical skin. A hymn that has grains of mystery, a liquid matryoshka that will find perfect condensation when it has reached your heart. Another moment when a composition can make sense within the immensity of a stadium for its enveloping chorus.




6.Knowledge Freedom Power


The first track released to announce the new album is a ride that knows little pauses, with the middle part becoming a hymn to awareness. The verse is, as always, a hypothetical refrain for many other bands, to establish once again that with them the musical genre is the least of one's worries, because one is enveloped in rock, electronic music, pop and a lot of joy that kisses the pain...



7.What Might Have Been


The old scribe's favourite song, without a doubt.

Everything goes eighties, majestic, giant, with the feeling that it could be the right track to identify their whole career, including a background that is not oblivious to The Smiths, who somehow seem to be there to applaud a “huge” creation. And Aaron's loving SOS finally conquers.

Power has a thousand forms and modes for these talented Mancunians, and here they reveal it all, showing how they can pull down the sky and fill it with earthly greatness...






8.Seconds Out


Human darkness shows its depths in the splendid eighth date, where one can have the feeling of being suffocated, imprisoned by one's own incapabilities. It all comes back, their DNA is algebra, feathers of pain popping out of the pillow to interrupt our sleep. 

And as if inside an unstoppable natural catastrophe, all the senses seem to be displaced and lost. As if to say: when all you have to do to have a cardiac arrest is listen to a song....




9.Forget About Me


The Starkie brothers find a way to be impetuous with subtlety, in an extraordinary exercise that at one point reveals David's conspicuous improvement with his sunny, energetic drumming.

Not to mention those moon-kissing synths.




10.No You Never


All the band's past comes together in the last track, in terms of style and musical reference, but once again something pulsating, immediate, necessary, sticks its head out to woo what is sure to be the song that will bring everyone together. The apotheosis must always manifest itself at the end....



To conclude: programming and genuineness, talent and strength, fantasy and drama held by the dribble. All this makes it possible to say that the record that can teach you a lot is right in your hands...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 February 2023


https://open.spotify.com/album/5Hjrk5ZrtyQgt0MDzdT6nu?si=NBTijMMKTAmNT7z_SSJEbw










La mia Recensione: The Slow Readers Club - Knowledge Freedom Power

 The Slow Readers Club - Knowledge Freedom Power



Dove eravamo rimasti?

Ci sono magie che perdono quota, approssimazioni e illusioni che rubano spazio, nell’oceano della confusione che cancella la realtà e crea nel virtuale un accesso libero che, oltre a confondere, diseducare e a livellare con un vistoso ribasso la vita, conduce a una frenetica corsa verso l’apparenza.

La distanza tra le persone, questa vecchia signora, ha le ore contate.

Qualcuno può darle una mano? Può farle coraggio, sostenerla?

Magari utilizzando in parte gli stessi elementi della modernità, magari solo per poter giocare apparentemente la partita con le carte truccate di cui si diceva prima?

Sì, i The Slow Readers Club lo sanno fare, e benissimo.

Così avanti anche a loro stessi medesimi, l’ultimo album è il loro capolavoro evolutivo, il sorprendente percorso che abbraccia la loro carriera e la rende una fotografia lontana, da guardare ma senza più nessun grado di parentela.

La band di Manchester sta costruendo un palazzo di vetro, un luccichio per mostrare i meccanismi delle idee e della classe a disposizione per poter diventare quattro chip collegati al futuro, non come sfida o per curiosità, ma per una necessità di essere un sistema solare dentro la gabbia nebbiosa di un presente che può schiacciare. Non più tristezza e lamento: basta con la propensione a rendere accessibili i flussi di disagio e stop alle descrizioni di ciò che sconfigge la vita. Occorre l’abilità di creare nuove strade, nuovi cieli, inclinazioni, portando un impeto progettuale che sappia creare spazi qualificanti e diversi. Da qui il miglioramento/cambiamento che arriva alla musica partendo dalle loro identità umane. Spazzano via la concorrenza con un album che raccoglie un sudore mentale, un esercizio di alternanze sonore, ambientali, e attitudini per una corsa che diventa radiosa: avrebbero potuto far suicidare la loro musica con cliché ripetuti, escogitare hit come calamite. Invece sono diventati un cantiere nel cielo dove i raggi solari baciano il buio: Knowledge Freedom Power è un semaforo con il verde e il  giallo che lasciano sempre in movimento la macchina dei loro progetti, tra sperimentazioni e oscillazioni che recano un urlo educato dentro di noi, tra stupore e una benzina da mettere nel motore dei nostri bisogni. Una nuova band che nasce già adulta e oliata, che spruzza entusiasmo ed energia e che scavalca ogni attrito. Non è beffarda con chi l’ha sempre amata e seguita in questi anni, perché i quattro mancuniani hanno sempre avuto rispetto per i loro fedeli sostenitori, senza per questo rinunciare alla possibilità di un percorso che rivelasse le loro esigenze artistiche.

Vorrei tranquillizzare chi teme che in tutta questa identità positiva siano scomparsi del tutto la sensibilità connessa alla tristezza, a una certa decadenza e sana cattiveria: è tutto integro e perfettamente bilanciato, magicamente, tra le nuove forme espressive. 

L’amore per la vita, la condivisione del male, la prospettiva da costruire, il sole e il buio trovano un tavolo su cui tracciare ipotesi, argomentazioni fitte e precise che lasciano a tutte le componenti la possibilità di manifestarsi: un album di per sé miracoloso già solo per questo motivo. L’euforia è un’arma che la band di Manchester usa in diversi momenti, conducendo l’ascoltatore a sorridere e a sognare, ad allontanarsi dal baratro, ma quest’ultimo viene usato per non sbilanciare il tutto verso gli eccessi. 

Sorprende questa volontà di spaziare nelle canzoni come se fossero foglie composte dello stesso segreto dei serpenti: la vita è cibo, e per consumarlo bisogna approcciarsi con le armi giuste, strategie tra i denti, passando tra schemi sonori permeati dall’elettronica dai manti musicali votati all’enfasi e a una dolce manifestazione di chitarre con la nebbia negli occhi ma inclini a scovare i raggi solari.

L’oscurità però rimane: fa parte di un passato che non vuole imporsi ma tantomeno arrendersi, e lotta con i suoi artigli che, come vedremo nella descrizione canzone per canzone, in alcuni episodi mostra il suo ardore, il suo nervosismo, come una pancia che ha al suo interno un vecchio feto scalciante. 

I suoni sono la vera identità del tutto, un filare di uva pronta a essere raccolta per un nettare immediato che inebria e conquista, senza esitazioni. Non più “solo” brani, ma travi, arbusti, radici, lame di ghiaccio con la giusta coperta per avvolgere l’ascolto in una zona dove anche il più triste brilla per profondità e immediatezza. 

Joe Cross ha messo il quartetto nella condizione di essere dei soldati educati a una battaglia gentile, nella quale l’attitudine a usare i synth come trama principale si accosta al rock, con la volontà di tessere melodie e ritmi in grado di non far preferire uno rispetto all’altro, donando incastri perfetti. In questo modo le canzoni, una dopo l'altra, diventano un abbraccio forte e delicato, in cui il ritmo spesso si trasforma in una danza dagli occhi aperti al futuro e uno sguardo indietro, senza perdere l’equilibrio.

La voce, in tutto l’album, è una lacrima che, rivelatasi solida e fredda, scalda il cuore perché nel suo linguaggio diversificato, più positivo, nulla può cancellare la sua pelle: Aaron commuove come non mai, i suoi guizzi, i suoi falsetti più melodici e ancor più potenti del passato sono rasoiate continue. Le sue ricerche per trovare armonie e ritmi inclini al convincimento sono pazzesche, in quanto strutturate per conficcarsi nella mente, in una metamorfosi minima perfettamente riuscita, come se ci fosse stato un piccolo bisturi a modificare leggermente l’impianto che conoscevamo a memoria. I brividi si affollano, lo stupore prende il palcoscenico per non lasciarlo più e, canzone dopo canzone, quelle sue corde vocali diventano corse inebrianti, conducendoci a un canto sguaiato, ribelle, riuscitissimo.


La loro muscolosa distopia non è morta, in pericolo o quant’altro, ma è in compagnia di qualcosa che somiglia all’opposto per conferire alla musica un volto pieno di sfumature e approcci poco prevedibili, dove il tutto conosciuto ora diventa ancora più gonfio, pieno di poetica maestria. Il loro album migliore vi aspetta, sappiate approcciarvi con gli occhi sgombri da qualsiasi inquietudine, perché questa la troverete, spesso camuffata, ma sempre presente. I lettori lenti ora leggono più velocemente, in quanto il futuro non può più essere una vicenda di cui non occuparsi e loro lo hanno saputo fare benissimo…


Song by Song


1.Modernise


Ad aprire questo lavoro è un brano vigoroso, tra i vecchi TSRC e i Muse, con un violento synth e un basso sontuoso, che determinano la linea del loro sesto lavoro. Vengono offerti varianti stilistiche, alternanze strumentali, cavalcando il rock e l’elettronica attraverso grande passione e capacità, con il ritornello che libera la pazzia… 





2.Afterlife


Una perla vibrante conquista l’ascolto, con la tecnica strumentale che rivela maggiormente il talento e la direzione, con la sua potenza che va colta e assimilata, e che generosamente svela i loro muscoli inseriti tra le note, facendo sì che tutto sia un delirio ipnotico.

Dicevate che erano cambiati? Avevate paura? Non siate sciocchi (anche se cambiare è legittimo): qui siete tra le mura di Manchester pronti a balzare per le strade del mondo ballando, con la pelle sudata di tristezza e la voglia di vivere in una convivenza difficile ma possibile. Straordinaria! 




3.Sacred Song


Se il futuro deve essere un luogo pieno di empatia e rispetto, Sacred Song è la canzone adatta per guardarsi in assenza di astio e ridere con consapevolezza e maturità, il luogo in cui i sensi saranno sorpresi e la masticazione del tutto porterà via del tempo se siete esigenti e incapaci di accettare la crescita di questi ragazzi diventati con il tempo uomini. Siamo in presenza del sole, della luce, di energia regalata in un fascio scatenato di emozioni che vi conquisteranno.




4.Lay Your Troubles On Me


Si piange, si riflette, si scoprono le carte, in questo vascello nelle antiche acque del porto di Salford. La voce, la melodia del cantato, l’arpeggio della chitarra di Kurtis, il drumming perfetto di David e il basso lineare di Jim fanno di questo brano un pianto sereno, che esploderà nel petto verso la fine…




5.How Could YouKnow?


Lo stupore non ha limite, all’interno dell’arte dei Mancuniani: eccone la prova in un fraseggio subliminale, un modo elaborato per pianificare l’incanto che si veste per truccare le carte. La canzone è il crocevia dell’album, sintesi e sviluppo di una alchimia che abbisogna di ascolti, ma saprà deliziarvi una volta sfiorata la sua pelle magica. Un inno che ha granelli di mistero, una matrioska liquida che troverà la condensa perfetta quando avrà raggiunto il vostro cuore. Un altro momento in cui una composizione può avere senso dentro l’immensità di uno stadio per la sua coralità avviluppante.



6.Knowledge Freedom Power


Il primo brano uscito ad annunciare il nuovo album è una corsa che conosce piccole pause, con la parte centrale che diventa un inno alla consapevolezza. La strofa è come sempre un ipotetico ritornello per molte altre band, per stabilire ancora una volta che con loro il genere musicale è l’ultimo dei pensieri, perché si è avvolti da rock, elettronica, pop e tanta gioia che bacia il dolore…



7.What Might Have Been


La canzone preferita del vecchio scriba, senza dubbio.

Tutto si fa anni Ottanta, maestoso, gigante, con la sensazione che potrebbe essere il brano adatto per identificare tutta la loro carriera, comprensiva di un background che non è dimentico degli Smiths, che in qualche modo sembrano presenziare per poter applaudire una creazione “enorme”. E l’SOS amoroso  di Aaron alla fine conquista definitivamente.

La potenza ha mille forme e modalità per questi talentuosi Mancuniani, e qui la rivelano tutta, mostrando come sappiano tirare giù il cielo e riempirlo della grandezza terrestre…






8.Seconds Out


Le tenebre umane mostrano la loro profondità nello splendido ottavo appuntamento, dove si può avere la sensazione di essere soffocati, imprigionati dalle proprie incapacità. Tutto torna, il loro Dna è algebra, piume di dolore che spuntano fuori dal cuscino per interrompere il nostro sonno. 

E come dentro una catastrofe naturale inarrestabile, tutti i sensi sembrano spaiati e persi. Della serie: quando per avere un arresto cardiaco ti basta ascoltare una canzone…




9.Forget About Me


I fratelli Starkie trovano il modo per essere impetuosi con delicatezza, in un esercizio straordinario e che a un certo punto permette di rivelare il miglioramento vistoso di David con il suo drumming solare, pieno di energia.

Per non parlare poi di quei Synth che baciano la luna.




10.No You Never


Tutto il passato della band si dà appuntamento nell’ultimo brano, per stile e riferimento musicale, ma ancora una volta qualcosa di pulsante, immediato, necessario, mette la testa fuori per corteggiare quella che sarà sicuramente la canzone che metterà tutti d’accordo. L’apoteosi deve sempre manifestarsi alla fine…



Per concludere: programmazione e genuinità, talento e forza, fantasia e drammi tenuti per il bavaro. Tutto questo permette di affermare che il disco che può insegnare molto è proprio tra le vostre mani…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

24 Febbraio 2023


https://open.spotify.com/album/5Hjrk5ZrtyQgt0MDzdT6nu?si=NBTijMMKTAmNT7z_SSJEbw





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