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lunedì 24 giugno 2024

La mia Recensione: David Sylvian - Secrets of The Beehive


 

David Sylvian - Secrets Of The Beehive


Sarebbe bello approcciarsi alle arti visive con stratagemmi calcolati da tempo, con riserve, inquietudini e molteplici affanni, per poi portare tutto quanto all’interno della musica, alla sezione, specifica, del sanguinamento lento ma piacevole. Capita di rado che un disco dettagliato, pieno di specificità, manchi all’appuntamento con immagini acquisite da spunti all’insegna di una dinamicità costante.

Nel 1987, Talk Talk e Marianne Faithfull decisero di rendere rarefatte le dimensioni delle loro cifre stilistiche, contrapponendosi al ritmo, ai residui colmi di melodie sbarazzine che stavano prendendo posizione nelle zone alte delle classifiche.

Il più elegante e raffinato artista inglese si ritrovò in grembo, in soli quindici giorni, nove composizioni, scritte alla fine della lunga tournée del suo terzo album. Il quarto non nacque come una precisa volontà, piuttosto come un artefatto spontaneo e indisciplinato. Accolta e conservata la nuvola di stupore, David Sylvian decise chi doveva raccogliere e sviluppare quel feto composto di musiche vergini con angoli da smussare. Si fidò e si affidò al produttore del suo primo impegno da solista e tecnico del suono, in passato, degli XTC, di Bryan Ferry e dei Cure. L’intesa produsse una scintilla educata a mantenere le luci di questo percorso artistico basse, soffuse, articolate in modo che il suono non sfuggisse alla dinamica, in uno stato conservativo e contemplativo, per erudire la ricchezza interiore e affiancarla al suo momento specificatamente dedito al sufismo, al cristianesimo gnostico, per approdare al Buddhismo, la sua nuova scoperta, aperta come una coperta per la sua anima sempre curiosa e balbuziente. Le forze del bene e del male sono terrene, e lui ce lo spiega benissimo nei nove momenti di una lezione breve ma intensa. 

L’enfasi è concentrata sui testi, nati insieme alle musiche, ma che hanno avuto per la prima volta nella sua carriera da scrittore la volontà di pilotare la parte sonora per aprire finestre, connessioni, con l’intento di un matrimonio artistico che partisse dalla spiritualità, dal silenzio, dalle splendide pause, per progredire all’interno di un processo che è andato a mettere in risalto storie, discipline, culture, letture e, non ultimo, il senso di appartenenza a una teoria filosofica in evoluzione. È davvero interessante che le atmosfere, i ritmi, siano veicoli di allarmi educati, di stimoli che certificano consapevolezze nuove all’interno di un procedimento temporale che invece si appresta anche a sondare il terreno di sopravvivenza di un uomo antico e stordito. Ogni volta che si ascolta un album di Sylvian da solista, si ha come l’impressione di una band in naftalina dal punto di vista della visibilità, ma al contempo è evidente una volontà corsara di prendersi spazi evoluti e individuali. Emerge, in questo modo, l’abilità tecnica eccelsa, il fiuto, le discussioni sull’architettura dei brani e soprattutto l’arrangiamento orchestrale, compito che solo il suo prezioso e incredibilmente dotato di un talento unico Ryuichi Sakamoto poteva rendere limpido, solare, ombroso e ai piedi della struggevolezza quando era il caso. La produzione di Nye è di gran lunga la migliore della prima parte della carriera di David; per l’intuito di rendere il tutto un quasi concept album, di sviluppare l’atmosfera dentro raggi lunari e di saper contenere e mantenere eccelso l’ampio raggio di azione dell’umore, vero regnante di questo lavoro. La volontà di variare il percorso dei generi musicali senza ritrovarsi davanti a una inevitabile situazione stridula rende questo lavoro prezioso e unico.  Chiara è la matrice, la prima formula che da scintilla rischiara il tutto: quel jazz così tanto amato sin da bambino trova ora modo di presentare le sue gambe, di indossare la responsabilità di condurre nei suoi percorsi gentili l’ambient, il folk e atomi di new age a rendere il tutto un amalgama sensuale e mai noioso. Impegnativo, liturgico, sidereo, voluminoso, aspro ma senza mai alzare la voce: l’insieme dei fasci creativi decide di divenire l’ambientazione di una strada momentaneamente arredata per dare all’asfalto una rifrazione diversa. Le storie raccontate sembrano una vetrina di poesie affittate da improvvisate esternazioni, poi educate, infine inserite, con garbo, per divenire materia nell’ugola del cantante, così affine sempre a un canto che assomiglia a una dolce preghiera, atea.

Steve Jansen e Danny Grierson (quest’ultimo nella magnifica The Boy with…) siedono su uno sgabello per dare al ritmo un senso di protezione, con la fantasia che vola sul deserto per allietare e far riflettere…

Le chitarre, acustiche ed elettriche, sono performate dallo stesso David, da David Torn e da Phil Palmer, in una traversata melodica che accarezza le onde…

Danny Thompson ha tra le dita un talento unico, strabordante: il modo con il quale suona il basso è da premio Oscar, in quanto ogni volta le sue note diventano immagini in bianco e nero…

A Nigel Grierson non si può che offrire il migliore degli abbracci: l’immagine della copertina è la prima poesia, il primo frame, il primo fremito, la prima emozione che incontriamo quando afferriamo il vinile ed è quasi oltraggioso abbandonare quell’immagine per buttarsi nell’esperienza sonora del disco…


Nove inclinazioni, nove croci incrociate con il destino, nove riflessioni con la voce baritonale, in un minimalismo continuo e coerente, per poter far stagionare l’emozione e indurla al peccato più grave: creare un’associazione, benevola, con la seduzione ritmica e armonica, in un pomeriggio dai raggi brevi. Sembra assurdo pensare che questo lavoro abbia una carta d’identità, per via di una freschezza che si rinnova ascolto dopo ascolto, creando l’ipotesi di un patto con il diavolo che diverse volte mostra la sua ombra tra le tracce. 

Una lezione accademica, una sfilata di classe, un invito ad assaggiare l’assenzio in solitudine, senza bramare l’amore, se non quello di una tazza di tè.

L’utilizzo di brani come piccole vibrazioni concede all’ascoltatore il lusso di un trasporto lento, mai occasionale, sempre mirato a riprendere lo stesso movimento di quando si era cullati da bambini. Ecco, forse, perché questo album gioca con le tappe dell’evoluzione, sino a sfiancare, dolcemente, ogni paura.

Ci si può smarrire davanti all’ultimo passo creativo in cui David ha lasciato alla forma canzone il compito di guidare le evoluzioni, di mantenere un piccolo contatto con la semplicità, di non impegnare troppo la vicinanza a tutto ciò che si trova: occorre approfittarne, in quanto da questo lavoro, per una ventina di anni, nulla sarà approcciabile nello stesso modo. 

Tutte le culle si affacciano a un presa con poche necessità di modifiche: nella immediatezza trovano posto piccole e minuziose suite, quasi impercettibili, nella felice decadenza di un percorso che prima strega e poi affossa…


Non si dimentichi mai la copertina Secrets Of The Beehive, con le sue impronte, quella piuma, che sembra anticipare il tutto congelando gli occhi in uno sguardo quasi preoccupato.

Infatti.

Infatti non è semplice acquisire le lezioni, le bacchettate, minuscole ma presenti, che queste canzoni ci donano, in un polveroso primo giorno di scuola. La disciplina di Sakamoto consente ancora una volta la miscelanza tra l’oriente e l’occidente, non senza qualche attrito, sublime e doveroso. Ryuichi ha capito subito da dove David voleva presenziare al suo parto: in una sala seminascosta ma illuminata dall’estasi dello stupore. L’insieme di quest’opera non fallisce, attrae, avvolge, coinvolge, senza la necessità di travolgere: nel gioco moderno della musica, dove tutto scivola, Sylvian decide di creare l’avamposto di un attrito rarefatto, celato ma rapace, scorgendo nella produzione l’arma per ferire dolcemente…


Adesso è ora di attraversare la paura e di entrare nei nove momenti dell’album, tenendo l’apnea ben in vista di modo che il respiro sarà più cosciente di quello che incontrerà e non incontrerà…



 Song by Song


1 - September

Un piano, la voce, un umore con le bave portate via dal vento silenzioso, il mistero di tasti che sembrano tutti di color grigio aprono questo lavoro, con un synth che si affaccia, nel crepuscolo, il bisogno di localizzare il sentiero di una stagione appena iniziata con il mese più importante e via, in lentezza, in adiacenza, con una coccola vocale che nasconde sin da subito gli artigli in un testo che sbuffa con grande capacità… 



2 - The Boy With The Gun

La chitarra semiacustica, il basso, il synth e la conferma che è nella metrica del cantato di David che si possa trovare pace anche in mezzo a parole piene di piombo, sotto la pelle del sole testimone dell’ennesimo scontro umano. Echi dell'album di esordio si presentano, ma l’arrangiamento di Sakamoto porta tutto più lontano, con egregia lentezza, con immagini che escono dalle distorsioni educate di una chitarra maestosa. Ed è world music piena di coperte, camuffata, in attesa di uno spazio che arriverà a breve…

Il gioco degli archi sintetici inganna il tempo e la percezione, per donare alla poesia della melodia una fisicità instancabile…



3 - Maria

L’ambient di Sylvian ha una dimensione vicina al progressive americano dei primi anni Settanta (nei primi secondi del brano), per poi materializzare il tutto in un volo sopra l’occidente ed è qui che Sakamoto mette la sua filosofia governando l’insieme del processo sonoro, come un dispetto da fare al rumore, per una inclinazione religiosa che si discosta però dalla musica sacra. 



4 - Orpheus

Il Vecchio Scriba adora il flicorno, uno strumento dalla gittata fenomenale che in questa canzone oscilla tra la visibilità e il sogno nel momento di questo lavoro che ha voluto condurre verso la necessità di un singolo, quasi come premonizione, allerta, avvisaglia della grandezza di questo quarto episodio di Sylvian. Rimpalli, onde sonore conosciute dai delfini, venti morbidi del Sahara, una poesia emotiva che sfiora il muro del pianto per divenire una sirena senza sosta, per incantare l’apparato uditivo. Orpheus è un guitto del primo Novecento, che affitta le pareti in un garage americano e scende a Londra a cercare un abbraccio, tra malinconia e incanti a presa rapida. Il testo è una sberla che unisce la storia dell’uomo al suo destino, dove nulla cambia e in cui le promesse muoiono, una dopo l’altra…



5 - The Devil’s Own

Il momento più cupo, quasi drammatico dell’intero lavoro, è un filo di piombo in cerca di tenebra: i rintocchi dei tasti bianchi del piano sono un carillon dello stupore, adatto solo agli adulti. Ed ecco apparire, con timidezza prima e arroganza poi, la paura dell’eco di voci disinibite. Il pezzo sale di intensità grazie a un'orchestrazione che posiziona il tutto nei pressi della musica classica ma con meno veemenza e in cui le voci piene di riverbero alla fine paiono finestre dell'anima in fase di chiusura. David, ancora una volta, gioca con le pause per creare maggior pathos e lasciare la nostra sensibilità nei pressi del timore che qualcosa possa accadere ai protagonisti del testo. E infatti accadrà…



6 - When Poet Dreamed Of Angels

C’era una volta un pittore che anticipava i giochi di luce dei colori. Vini, sì, il poeta dei Durutti Column, intento a pilotare la chitarra flamencata verso Manchester, per poi lasciare navigare l’artista londinese verso altre strisce di asfalto. Strutturato in modo diverso rispetto alle altre composizioni, WPDOA è una feritoia sonora, fatta di stratagemmi, di evoluzioni, di contorsionismi, con la luce di strade che sembrano partire da da Siviglia, attraversare le Alpi e arrivare a New Orleans. Senza teunmpo, con una stagionatura continua, presenta l’unico assolo di tutto l’album, ma mai centrale, in quanto bisognoso di essere circondato dalla genuina spontaneità che non blocca la struttura melodica.



7 - Mother And Child

Prendi i Japan, in una sera piena di ozio e noia, e invitali alla meditazione: troverai di sicuro questo gioiello applaudire, quasi con tremenda devozione, a tutto ciò che non è stato possibile creare. Il contrabbasso è un pugno morbido, il piano con la scia jazz un treno che non ha fretta, il charleston della batteria è una scossa che esce dai vicoli di Washington e la voce di David un attentato di sensualità mentre la storia, drammatica, pare essere instradata verso un luogo dove l’onirico possa sospendere il tutto.



8 - Let The Happiness In

Arrivano i Dead Can Dance, lenti, cupi, magnetici, nei primi secondi della canzone poi la voce ci sposta, la traiettoria musicale diventa meno tetra e sale in cattedra la tromba di Mark Isham, che soffia via la melodia per contrapporsi a un organo tetro, quasi minaccioso. Poi si incontra un tambureggiare delicato e sensuale, mentre le note farebbero credere di essere intente a prendere luce, oltre che ritmo, e si capisce come questo momento sia pieno di brividi, di sospesi che bilanciano un desiderio di serenità che sembra impedito. 



9 - Waterfront

Come si congeda la bellezza, la ricchezza di una esperienza simile? La risposta è nelle note, nei giochi di parole, nella non discreta volontà di condurre la struggevolezza dentro il ritmo che non ha bisogno del basso e/o della batteria: è tutto coscientemente pilotato dagli archi, e da un piano che abbisogna di pochissime note per creare uno iato, un urlo silente, confezionato per dare al racconto quella credibilità che il testo reclama. Questo momento sublime termina con la voce che ha stigmate di luce, sorseggiando un bisogno, educato, di lasciare il tutto così com’è… 


Ultimo pensiero: è cosa buona e giusta cedere alla bellezza di questo impianto artistico, ma non siate dimentichi di dare luce ai testi.

Tra i suoi primi dischi non vi è dubbio alcuno che questo sia quello più vicino a essere considerato un miracolo che ci meritavamo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
24 Giugno 2024

My Review: David Sylvian - Secrets of The Beehive

 


David Sylvian - Secrets Of The Beehive


It would be nice to approach the visual arts with long-calculated stratagems, with reservations, restlessness and multiple anxieties, and then bring it all into the music, to the section, specifically, of slow but pleasant bleeding. It seldom happens that a detailed record, full of specificity, misses its appointment with images acquired from cues of constant dynamism.

In 1987, Talk Talk and Marianne Faithfull decided to make the dimensions of their stylistic figures rarefied, contrasting the rhythmic, jaunty residues of melodies that were taking their place in the upper reaches of the charts.


The most elegant and refined English artist found himself with nine compositions in his lap in just a fortnight, written at the end of the long tour of his third album. The fourth was not born as a precise will, but rather as a spontaneous and undisciplined artefact. Embracing and preserving the cloud of astonishment, David Sylvian decided who should collect and develop that fetus composed of virgin music with corners to be smoothed. He trusted and relied on the producer of his first solo effort and former sound engineer of XTC, Bryan Ferry and the Cure. The understanding produced a spark educated to keep the lights of this artistic journey low, suffused, articulated so that the sound did not escape the dynamics, in a conservative and contemplative state, to erudite inner richness and to place it alongside his moment specifically devoted to Sufism, to Gnostic Christianity, to Buddhism, his new discovery, open like a blanket for his ever-curious and stuttering soul. The forces of good and evil are earthly, and he explains this very well in the nine moments of a short but intense lecture. 


The emphasis is on the lyrics, which originated together with the music, but which for the first time in his career as a writer had the will to drive the sound part to open windows, connections, with the intention of an artistic marriage that started from spirituality, from silence, from splendid pauses, to progress within a process that went on to highlight stories, disciplines, cultures, readings and, not least, the sense of belonging to an evolving philosophical theory. It is indeed interesting that the atmospheres, the rhythms, are vehicles of educated alarms, of stimuli that certify new consciousnesses within a temporal process that also probes the survival ground of an ancient and stunned man. Every time one listens to a Sylvian solo album, one gets the impression of a band in mothballs from the point of view of visibility, but at the same time there is an evident desire to take evolved and individual space.  What emerges is the sublime technical skill, the flair, the discussions on the architecture of the songs and above all the orchestral arrangement, a task that only his precious and incredibly talented Ryuichi Sakamoto could make limpid, sunny, shadowy and at the foot of poignancy when it was appropriate. Nye's production is by far the best of the first part of David's career; for the insight to make the whole thing an almost concept album, to develop the atmosphere within moonbeams and to be able to contain and keep the wide range of mood, the true ruler of this work, excellent. The willingness to vary the path of musical genres without ending up in an inevitable shrill situation makes this work precious and unique.  Clear is the matrix, the first formula that sparks everything: that jazz so beloved since childhood now finds a way to present its legs, to wear the responsibility of leading ambient, folk and atoms of new age in its gentle paths to make the whole a sensual and never boring amalgam. Challenging, liturgical, sidereal, voluminous, harsh but never raising its voice: the creative bundles decide to become the setting of a street momentarily furnished to give the asphalt a different refraction.   The stories told seem like a showcase of poems rented from improvised externals, then polite, finally inserted, gracefully, to become matter in the singer's uvula, so akin always to a song that resembles a sweet, atheistic prayer.

Steve Jansen and Danny Grierson (the latter in the magnificent The Boy with...) sit on a stool to give the rhythm a sense of protection, with imagination flying over the desert to cheer and make one reflect...

The guitars, acoustic and electric, are performed by David himself, David Torn and Phil Palmer, in a melodic traversal that caresses the waves...

Danny Thompson has a unique, overflowing talent between his fingers: the way he plays the bass is Oscar-winning, as each time his notes become black and white images...

Nigel Grierson can only be offered the best of hugs: the image on the cover is the first poem, the first frame, the first thrill, the first emotion we encounter when we grab the vinyl and it is almost outrageous to abandon that image to jump into the sonic experience of the record...  Nine inclinations, nine crosses crossed with destiny, nine reflections with the baritone voice, in a continuous and coherent minimalism, in order to season the emotion and induce it to the gravest sin: to create an association, benevolent, with rhythmic and harmonic seduction, in an afternoon of short rays. It seems absurd to think that this work has an identity card, because of a freshness that renews itself listening after listening, creating the hypothesis of a pact with the devil that several times shows its shadow between the tracks. 

An academic lesson, a class parade, an invitation to taste absinthe in solitude, without yearning for love, except for that of a cup of tea.

The use of tracks as small vibrations grants the listener the luxury of slow transport, never occasional, always aiming to recapture the same movement as when one was rocked as a child. That is, perhaps, why this album plays with the stages of evolution, to the point of gently exhausting all fears.  One can get lost in front of the last creative step in which David has left to the song form the task of guiding the evolutions, of maintaining a small contact with simplicity, of not committing too much proximity to everything that one finds: one must take advantage of this, because from this work, for some twenty years, nothing will be approached in the same way. 

All the cradles face a grip with little need for modification: in the immediacy there are small and minute suites, almost imperceptible, in the happy decadence of a path that first bewitches and then drowns…


Never forget the Secrets Of The Beehive cover, with its footprints, that feather, which seems to anticipate everything by freezing the eyes in an almost worried look.

Indeed.

Indeed, it's not easy to acquire the lessons, the minuscule but present wands that these songs give us, on a dusty first day of school.  Sakamoto's discipline once again allows the blending of East and West, not without some friction, sublime and dutiful. Ryuichi immediately understood from where David wanted to attend his delivery: in a semi-hidden room but lit by the ecstasy of astonishment. The ensemble of this work does not fail, it attracts, envelops, involves, without the need to overwhelm: in the modern game of music, where everything slips, Sylvian decides to create the outpost of a rarefied friction, concealed but rapacious, seeing in the production the weapon to gently wound...


Now it's time to step through the fear and into the album's nine moments, keeping the apnea in view so that the breath will be more aware of what it will and will not encounter...


Song by Song


1 - September

A piano, a voice, a mood with burrs carried away by the silent wind, the mystery of keys that all seem to be grey open this work, with a synth that appears, in the twilight, the need to locate the path of a season that has just begun with the most important month and away, slowly, in adjacency, with a vocal cuddle that hides its claws from the outset in a lyric that puffs with great capacity 



2 - The Boy With The Gun

Semi-acoustic guitar, bass, synth and the confirmation that it is in the metrics of David's singing that peace can be found even in the midst of lead-filled lyrics, under the skin of the sun witnessing yet another human clash. Echoes of the debut album present themselves, but Sakamoto's arrangement takes everything further, with egregious slowness, with images emerging from the polite distortions of a majestic guitar. And it is world music full of blankets, camouflaged, waiting for a space that will arrive soon...

The play of synthetic strings deceives time and perception, to give the poetry of melody a tireless physicality...


3 - Maria

Sylvian's ambient has a dimension close to early 1970s American progressive (in the first few seconds of the track), only to materialise in a flight over the West, and it is here that Sakamoto puts his philosophy governing the whole sound process, like a spite to noise, for a religious inclination that deviates from sacred music. 



4 - Orpheus

The Old Scribe adores the flugelhorn, an instrument with a phenomenal range that in this song oscillates between visibility and dream in the moment of this work that he wanted to lead towards the necessity of a single, almost as a premonition, an alert, a warning of the greatness of this fourth Sylvian episode. Rebounds, sound waves known to dolphins, soft winds of the Sahara, an emotional poetry that grazes the wall of tears to become a siren without ceasing, to enchant the auditory apparatus. Orpheus is an early twentieth-century poor unfortunate soul, who rents walls in an American garage and descends to London in search of an embrace, amid melancholy and quick-witted enchantment. The text is a slap in the face that links the history of man to his destiny, where nothing changes and where promises die, one after the other...


5 - The Devil's Own

The darkest, almost dramatic moment of the entire work is a leaden thread in search of darkness: the chimes of the white piano keys are a carillon of amazement, fit only for adults. And here appears, first timidly and then arrogantly, the fearful echo of uninhibited voices. The piece rises in intensity thanks to an orchestration that places it in the vicinity of classical music but with less vehemence and in which the reverberating voices at the end seem like windows to the soul in the process of closing. David, once again, plays with pauses to create more pathos and leave our sensitivity close to the fear that something will happen to the protagonists of the text. And indeed it will...



6 - When Poet Dreamed Of Angels

Once upon a time there was a painter who anticipated the play of light in colours. Wines, yes, the poet of Durutti Column, intent on piloting his flamenco guitar towards Manchester, only to let the London artist navigate towards other strips of asphalt. Structured differently from the other compositions, WPDOA is a sonic slit, made of stratagems, evolutions, contortions, with the light of roads that seem to start in Seville, cross the Alps and arrive in New Orleans. Timeless, with a continuous seasoning, it presents the only solo on the entire album, but never central, as it needs to be surrounded by the genuine spontaneity that does not block the melodic structure.


7 - Mother And Child

Take Japan, on an evening filled with idleness and boredom, and invite them to meditation: you're sure to find this gem applauding, almost with tremendous devotion, everything that could not be created. The double bass is a soft punch, the piano with its jazziness wake a train that is in no hurry, the charleston of the drums is a jolt coming out of the alleys of Washington and David's voice an attack of sensuality while the dramatic story seems to be routed towards a place where the oneiric can suspend everything.



8 - Let The Happiness In

Here comes the Dead Can Dance, slow, dark, magnetic, in the first seconds of the song then the voice shifts us, the musical trajectory becomes less gloomy and Mark Isham's trumpet takes the lead, blowing away the melody to contrast with a gloomy, almost menacing organ. Then one encounters a delicate, sensual drumming, while the notes make one believe they are intent on taking on light, as well as rhythm, and one realises how this moment is full of shivers, of suspense that balances a desire for serenity that seems impeded.


9 - Waterfront

How does one take leave of the beauty, the richness of such an experience? The answer is in the notes, in the wordplay, in the unobtrusive desire to lead the poignancy within the rhythm that does not need bass and/or drums: it is all consciously driven by the strings, and by a piano that needs very few notes to create a hiatus, a silent scream, packaged to give the story the credibility that the text demands. This sublime moment ends with the voice bearing the stigmata of light, sipping a polite need to leave everything as it is... 


Last thought: it is good and right to give in to the beauty of this artistic facility, but do not forget to give light to the lyrics.

Among his early records there is no doubt that this is the one closest to being considered a miracle we deserved...


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
24 Giugno 2024

La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

  Midas Fall - Cold Waves Divide Us La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che app...