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domenica 12 maggio 2024

La mia Recensione: Chants Of Maldoror - Ritual Death


 

Chants of Maldoror - Ritual Death


Un nido d’api abita nel cratere del cielo, a bordo di un veicolo che lo trasporta tra le diverse forme di ingresso in studi e perlustrazioni, e nel quale quattro insetti ci mettono a conoscenza di ciò che accade. Il tempo, gli spettri, gli andamenti tellurici, i sospetti, i drammi, il dibattito religioso, il rispetto della morte, gli assassinii, genuflessioni umane sapienti, i tranelli dell’esistenza: è solo l’inizio di questa esposizione di materia in ebollizione, dove il contenuto risulta essere un fascio sonoro che scartavetra gli spiriti e li rende liberi, mediante contaminazioni e fluidi apparentemente indigesti, con un nero che diventa la luce per vedere l’intensità di un processo che conosce l’evoluzione e il suo opposto.

Le quattro api di Frosinone e dintorni mettono su una cassetta il magnetico processo di miscelazione e processione di un incanto piangente, un attraversamento delle condizioni note e quelle meno note del dolore, della fascinazione simbolica cara a queste menti gravide di interessi, dando all’occulto, al sondaggio dei segni, alla bellicosa bolla di scoperte il compito di rendere il tutto una questione solo apparentemente legata alla musica. L’ascolto comporta il sacrificio del trambusto personale, una detumescenza inaspettata, un rito di guarigione inatteso, violento, mai approssimativo, all’interno di una manipolazione funerea che vede due generi musicali non essere il senso ma il mezzo attraverso il quale si mostrano le cose più che sentirle, dando così modo allo stupore di essere materia in esposizione, una nuova scusa per le porte delle percezioni per esibire un lungo vestito pieno di merletti di anime davvero capaci di non avere paura.

Sette candelabri dalla pelle ruvida vagano nelle corsie dello spazio facendoci sentire il loro respiro, in un groviglio di tensioni e dolori lancinanti che non cercano alcuna consolazione: si è talmente inebetiti davanti a cotanta intensità, introspezione, che pare, alla fine dell’ascolto, di aver vissuto una serie di miraggi in cui la volta celeste ha voluto consegnarci segreti pesanti ma necessari per la consapevolezza di una conoscenza divenuta, brano dopo brano, più che necessaria.

Benvenuti, allora, ai nipoti del Conte di Lautréamont, che depongono la loro ghirlanda sonica sulle assi di un teatro tetro, lancinante, pieno di schegge e artigli, nel quale il ritmo, la forma, la densità delle canzoni riempiono il tutto di orgoglio e devastazione. In Italia una simile qualità percettiva non aveva mai trovato modo di essere vissuta. Non è necessario catalogare, gettare queste sapienti creature nel calderone di stupide definizioni, bensì dovremmo tutti ritrovarci nella commozione di un viaggio psichedelico e alchemico attraverso un tempio scoperto, come un incanto che si fa toccare.

È inutile andare a fossilizzare la curiosità all’interno di cosa ci può far ricordare quello che ascoltiamo qui: mi pare piuttosto più corretto diventare anime studiose che vogliono catturare ogni atomo di questa chicca assoluta colma di unicità da riscontrare, tra sacrifici e spine sul capo del nostro cuore, mai affranto ma pulsante di stelle contenenti segreti in fase di emersione.

Adolphe, David, Echo e Loren sono gli emissari, i corvi di grotte in costanti eruzioni, gli artefici di questo vagabondaggio che rende le nostre orecchie tumulti continui, febbricitanti e timorose. Le loro mani, le ugole, le propensioni sono un ardire, una sfida, un concetto, una trama bellica che ci conduce alla verità che nella sua scomodità ci abbellisce con patemi abili nell’ungerci la pelle e il pensiero. 

Viaggiatori del tempo e di incognite, i Chants Of Maldoror sembrano spiriti millenari con una vitalità ineccepibile e straordinaria: malgrado la quantità di meteore esplose nelle loro mani, la scrittura è ordinata, concentrata, capace di un sorriso macabro ma stupefacente, un miracolo nel baricentro delle loro grazie, processate, messe in ordine ed esposte come esplosioni nel nucleo di metamorfosi continue.

Partiti come emissari del Medioevo, intenti a conoscere i rituali che fanno inorridire la maggior parte delle persone, questi ragazzi già adulti spostano le intenzioni e si tuffano in una volontà artistica che solo apparentemente appare più “comoda”: in realtà divengono ancora più devastanti, tremendi cavalieri di battaglie e scontri con i moti dell’anima, studiosi ribelli, indifferenti al circostante, splendidi concentrati di capricci e ostinazioni a cui noi risulta semplice essere ubbidienti, per trasferire la conoscenza nel processo dell’esperienza.

Una decadenza che si trasforma in un luogo dove la rassegnazione, limpida, conosce impeti, e la frustrazione riesce a trasformarsi in una meravigliosa gioia più che mai atipica. 

Lo spettacolo conosce regole, circospezioni, tumulti soffocanti, stati di perdizione, all’interno di una trama mai confusa ma che diventa insostenibile solo per gli ignoranti e per le menti volutamente superficiali. Pallottole, rovi, preghiere senza Dei da raggiungere, inchini e devozioni dai linguaggi complessi: questo è il regalo offerto dai quattro senza richiedere sacrifici ma facendoci notare, in ogni composizione, che l’ascolto può generare promiscuità e abbandono delle volontà, in un rapimento che non lascia sconfitti.

Il suono, lama di metallo dalla pelle resa acida dai dolori impenitenti, è il Re del tutto, il principale maestro, l’anticipo di ogni pendio che si vivrà attraverso sequenze di accordi e ritmi che creano un boato e una discesa continua, per ossigenare il centro della terra. Il crooning, il recitativo della voce, le tonalità che sono grovigli di sangue con i libri in mano, sono appannaggio di Adolphe, sacerdote del buio, studioso incontenibile, attore e regista di un teatro interiore che fa tremare. La sua qualità più evidente è fare della voce la perlustrazione di anime in viaggio, un alunno intuitivo scevro però di legami con chi lo ha preceduto, per potersi sistemare, indomito, sul trono della bellezza.

Loren è un alchemico della melodia, uno sperimentatore, un discepolo della bellezza nera, indomito, con un impeto pieno di sale e miscele, come un druido che studia gli elementi della natura e li trasferisce sulla sua sei corde.

Echo è una bolla sonora che si stende sui tasti bianchi e neri di un synth e di un piano, per regolare la temperatura del dolore e creare piani emotivi dove tutto è adiacenza, un patto di strutture che si sposano con le altre forme musicali, per conferire al tutto sacralità.

David è il governatore degli istinti, il portiere che apre il rumore della terra e lo porta dentro i meccanismi malefici di Loren ed Echo, un trapezista del suo strumento, che definire basso è totalmente riduttivo. A lui il compito di manovrare gli umori, di pilotare i fasci emotivi dentro il ventre, di stabilizzare le onde magnetiche di una band che sembra essere una orchestra del Settecento, priva di inibizioni.

Quello che stupisce maggiormente nella musica dei COM è che ci si ritrova davanti a pennellate di suoni sulla tela della vita, per un’arte che sembra diversa da quella musicale, come un fraintendimento che però unisce entità diverse. Un processo creativo che parcellizza le conoscenze nei confronti di stili ormai irrigiditi dall’adorazione, in cui manca il processo critico. I quattro, invece, non fanno Death Rock o Gothic Rock, bensì inumidiscono la conoscenza con dipinti che disintegrano ogni convinzione, ribelli armati di intelligenza per essere fragori non voluti dal Ministero di quei due generi musicali…

Disobbedienti e anarchici, i ragazzi entrano nel labirinto di ogni tensione per destabilizzare anni e anni di convenzioni che sanno rendere inutili. C’è una piacevole arroganza da parte loro: non essere sudditi, ma regnanti inconsapevoli…

Meraviglia, e non poco, che non si possa sprecare tempo nel cercare riferimenti stilistici e culturali con questo gruppo, in quanto ciò che si evidenzia è una tortura personale innanzi al noto, sfuggendo continuamente per poter elevare la conoscenza in un campo dove le novità possono essere raggiunte.

Preferisco immaginare questo combo all’interno di uno spazio culturale che parta dall’origine degli spiriti, di impulsi che elevano il genere umano, passando dal Medioevo, per trasferirsi nel cielo, in un tripudio di sensi che espandono una necessità simile a una malattia che vivono con positività, degni del bacio della morte che li osserva compiaciuta. Creano un tappeto di putride incombenze, appuntamenti con catene e artrosi mentali, nell’idillio di un ghigno che da malefico diviene digeribile.

Attraversando gli abissi, fissano i pensieri dentro un crocefisso mentale in cui tutto è inchino e stupore, per liberare ipnosi e magnitudini in modo costante.

Aduniamoci, sospettosi e tremanti, attorno a questi sette candelabri, per  mettere per iscritto, prima di adorarli, le nostre paure…


Song by Song


1 - Reunion and Death

“I sink the knife in the mother’s heart

and the capes grow scarlet from violet”

Cavità metallizzate, vapori e fuochi fatui entrano nella coda di un funerale emotivo con il recitativo di Adolphe che regna sulle scintille sonore gravide di allucinazioni provenienti dalla baia di San Francisco.

Molto più di un teatro del dolore: qui, sin da subito, ci si ritrova catapultati nel fragore di un abbandono dove lo smarrimento è dato da chitarre acide, con impeti nucleari.



2 - Feast In Black (Mortualia)

“My soul is in shards, in and out of the way spot of my skull”

La lotta degli abitanti dell’inferno diventa un sacrificio inevitabile, e la voce, che pare lontana per non farsi raggiungere, declama versi inospitali, la morte nel suo manifesto trionfo del momento del funerale consente alla musica di essere eterea ma ribelle, con il synth di Echo che dà l’idea di dipinti tetri e malinconici e il basso a scandire ogni paura…



3 - Post Mortem

“Restless shapes are dancing on the blade of my knife”

Immagina, in una notte piena di fulmini, i Virgin Prunes a cena con i Bauhaus, tra litigi e risate impertinenti, in oscillanti adorazioni di gesti violenti comandati dai COM con grande intelligenza. Cupa, greve, lancinante esibizione di scomodità uditive nel fruscio delle api che lavorano per detergere l’ignoto all’interno della paura. Lancinante parata di suoni che incollano al vetro viscido di coscienze in tumefazione… 



4 - Resurrection

“Resurrection is real death!”

Si va a Francoforte, a bussare alla porta della casa di Varney Cantodea, per vederla danzare felice, per questa composizione che arriva dal Settecento, mentre, dopo un bagno di modernità, si sacrifica in un movimento breve ma efficace. Si contesta, si riduce la religione a una miseria evitabile, si fa spazio alla verità millenaria perennemente negata e l’ovvio trova la luce manifesta della volta celeste. Ridondante senza distorsioni, la canzone è il miracolo della seduzione gotica al suo massimo livello…



5 - Baptism Until The Angel

“Doesn’t appear the lost image of the end”

Scosse nevrotiche, lame sul manico di Loren, gramigna nella voce di Adolphe, qui mago nero della morte, messaggero con le borchie nel cuore, mentre si lancia nei solchi del basso e della drum machine, con la chitarra che indaga e crea pertugi…



6 - Red Communion

“With Angels crucified on red roses in bloom”

Lo scenario cambia, ci si ritrova in una chiesa ipnotizzata da Echo, maestra e pittrice in avanscoperta: dopo pochi secondi il brano diventa una allucinazione sensoriale al cospetto della paranoia, per catturare il sonno umano e catapultarlo nel baratro del tempo. Marziale, oscura, impenitente e malvagia, la composizione  riduce al minimo la melodia e l’armonia per essere caos e genuflessione paralizzante…  


7 - Requiem Aeternum

Sull’eterno riposo la band scioglie una nuvola sonora che appanna l’udito e ci fa precipitare nello sconforto, in una ritmica che inchioda mentre la voce fa accapponare la pelle e la mente vaga persa nel limbo dell’ignoto. Suoni come cadaveri freddi, dove solo il basso alla fine sembra ricordarci che stiamo ascoltando qualcosa di “umano”.

Un congedo sorprendente che fissa il valore della band laddove nessuno se lo aspetterà, perché chi precede vive il lutto della incomprensione…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
12 Maggio 2024



sabato 4 maggio 2024

La mia Recensione: Piero Ciampi - Piero Ciampi


 

Piero Ciampi - Piero Ciampi


Ma che bella responsabilità assistere al talento, al lavoro, alle qualità di un altro e non fare nulla, se non scendere dentro la polvere aspettando la sua essiccazione. Che cosa strana è l’ascoltatore medio, afflitto dal desiderio di essere felice all’interno della massa per trovare forza, solidarietà, senso e posizione. Tutto ciò gonfia il petto e sgonfia l’apprendimento, atrofizza la genuflessione che non è segno di paura ma di devozione, di uno slancio che sublima il tutto.

Quando nella mente arriva la possibilità di potersi trovare all'appuntamento con la bellezza che sporca le vene, si vive un ascesso del cuore e tutto bolle, ribolle, si amplifica, dilata, spaventa, deterge e assorbe l’incomprensibile e l’inimmaginabile. Questo accade nel momento in cui nelle orecchie della percezione arrivano le corse lente di un maestro senza la laurea, non  attribuitagli da un corpo docente sempre più spavaldamente ignorante. Insegnanti del niente che vivono in modo corsaro nelle case di un’Italia sempre più analfabeta, almeno per quanto concerne l’arte di sicuro.

Piero Ciampi è una croce mobile, un tatuaggio dell’altrui sbaglio, un abbaglio da cui fuggire in quanto non esiste la possibilità di un confronto con chi non ha caveau, sogni segreti, racconti segregati nei bauli delle cantine. Lui no, scava, porta e riporta ancora ogni resa che abbia un dettaglio, minimo, che possa respirare nell’inconsapevolezza che fa arrendere il suo talento senza limiti, proprio lui che con essi ha giocato una sfida enorme, vincendola, senza nessuna medaglia sul petto. Canzoni? Per nulla! Siamo davanti a delle pepite, a dei graffi ingestibili, a degli accorati accorgimenti, fallaci in modo stupendo, con una dignità perfettamente legata solamente alla sua identità, e di nessun altro, in un girone unico dove approcciarsi significa immergersi in un buio che riporta in voga il periodo in cui l’uomo scappava solo dentro le corsie del cielo. In questo secondo album l’artista, a cui dare una residenza significa sconfiggerlo definitivamente, compie una serie di imprese capaci di mettere fuorigioco l’ascoltatore, il passante, l’essere perennemente rinchiuso in una stanza, l’intellettuale con la verità in tasca, tritola il sognatore romantico, prende a pugni il metodico, chi è maniacale, chi cerca negli altri domande e risposte. Quattordici anestesie, amnesie, lampi, poesie, afflizioni, contrizioni, fughe sghembe, speranze mute e sorde,   esagerazioni per nulla fuorvianti, fantasie come stelle mai come le immaginereste, tavoli e baldorie ipnotiche, sconvolgimenti, assoluzioni, benedizioni, invettive sottili in bianco e nero, favole robuste come carta assorbente. Magneti coi poli ubriachi a confondere la rotta, onde che ascoltano i battiti ribaltandoli nelle illusioni più sconsiderate, amori balbuzienti e sconfitti in anticipo, figli assenti, dolori sempre presenti come gittate ineluttabili, amici da curare come un’anima imprigionata da una ricerca che crea danni a prescindere e tanto altro, in un calvario che spossa e droga chi le ascolta.

Piero trita le convenzioni e, con il lavoro sapiente, elegante, commovente di Gianni Marchetti, le canzoni diventano approcci visivi, metafore e incudini, dove il jazz, il progressive più contenuto e moderato, i respiri leggiadri di un approccio a quella musica classica ancora bacino di ispirazioni, il folk che salta nei luoghi e nel tempo, consentono una variegata parata stilistica, nella quale le combinazioni diventano scintille lente, capaci di essere viste per l’eternità, in cui non è il crescendo che galvanizza ma il dover ascoltare con estrema attenzione. Non è solo nella velocità che si possono sentire fuggire le cose…

Le chitarre acustiche, gli archi, la batteria, il basso sono la base per le scorribande delicate di un pianoforte ribelle, educato alla bellezza senza bavagli, anzi, un foulard rosso che vola sulle note per annettersi alla volta celeste celebrando una natura che, in modo spavaldo, indietreggia e avanza nella storia di impianti musicali non solo italiani, per un delirio che tocca le pareti del cuore.

Una collaborazione tra due geni che fanno dei propri campi espressivi un baluardo, un raggio di azione, un limite, una esasperata e deliziosa libertà di non avere impicci dentro queste flessioni di incanti senza catene. Non c’è nessun compromesso bensì due corpi solidi che, quando vengono uniti, rendono l’ascolto un fiume che bacia il mare senza cambiare il colore della propria pelle. Si piange, ci si sente sgomenti, si ride amaramente, ci si ritrova all’interno di correnti che non ascoltano le altre e si entra nelle diagonali delle stagioni della vita, avvertendo gli enormi grappoli vitali di testi che baciano le fascine musicali per trovare una perfetta definizione della solitudine che vive di transiti, approcci e malinconie che quando escono dalla sua ugola paiono moltitudini senza il fiatone, perennemente in viaggio.

La sincerità è l’impronta digitale di un’anima che non soltanto sonda, scava, ma soprattutto porta alla luce il calore dell’inferno, le sue diramazioni, con l’arguzia di momentanee anestesie, per dare al dolore qualche piccola possibilità di riposo. Piero è un operaio della verità, e, da poeta prestato alla canzone, pone le domande che scomodano l’intellighenzia, le classi sociali meno strutturate alla felicità, e intere categorie di anime intente a essere leggere e che, dopo averlo ascoltato, precipitano nell’onda plumbea del disagio. Pone quesiti dentro storie nelle quali si danza a fianco del peccato, scompone le sicurezze e manda a quel paese il cattivo gusto nel tempo in cui l’Italia vede addormentare la ragione che conduce al vero benessere. Lui spoglia tutto, come gesto di stizza, come atto necessario, inequivocabile, con parole che sono diserbanti naturali, attrezzando paragoni con la vita animale, tra purosangue che avanzano buffamente, conoscendo la metamorfosi e l’inquietudine del cambiamento. 

Aleggia nei suoi versi una timidezza fotonica, per riuscire a rendere il pensiero un oggetto, gretto, pesante, adiacente all’impossibile,  libero di ingannare ogni tentativo di caccia: solo ai veri poeti è consentito fare questo, spiazzando, come conseguenza, chi si pone di fronte con l’intenzione di capire. È proprio con la poesia che gli studiosi si garantiscono l’ignoranza e il fallimento. Piero Ciampi rifiuta le gabbie e nelle sue parole ci sono i princìpi di Michael Bakunin, la follia di Edgar Allan Poe che cattura l’ignoto, la suadenza di una pellicola muta francese degli anni Venti e le campagne piene di fattorie cadute in miseria. Non le vedi ma le percepisci queste situazioni, in un marasma di ipotesi che lui controlla per renderle inattaccabili. Quando ci si commuove si conosce sempre la perdita e, se esiste un guadagno, è quello di fare della sua esperienza un monito per la nostra.

Crea distanze, sobborghi dove far stagnare le colpe, dando alla inutilità un raggio di azione in cui ci immerge, con la sua risata invecchiata a congelare ogni pseudo entusiasmo. 

Un disco purtroppo troppo vero, immenso e immerso in un vapore che solo la stupidità ama veder dissolvere e invece dovremmo farlo divenire una enciclopedia comportamentale e attitudinale che renda gli sbagli scevri della volontà di posizionarsi…

La mancata presenza di una forma canzone insistente fa intendere come costruzione e improvvisazione siano due cardini entrati in contatto per non dare fieno da mangiare alla stupidità crescente che ha inghiottito questa forma artistica popolare. I due insabbiano i trucchi, danno alla magia la bacchetta per essere custode dei segreti e si beffano delle definizioni, compiendo passi da giganti, portando avanti nel tempo quello che ancora oggi non si riesce a intendere. Coniugando il sapere e dando spazio ai guitti, questi artisti hanno trovato il modo di essere spavaldi e irruenti, con uno stile unico, raschiando pellicole di vita in luoghi sospetti, dando dignità a strutture che spesso non venivano considerate, con una sintesi quasi cabarettistica per passare ancora di più come una eruzione folle senza possibilità di essere creduta. Eccoci, quindi, al cospetto di raggi dentro i miraggi di appunti come spartiti nel vento: non lo si cattura e non si cattura questo insieme di canti e note in continuo stato di spostamento, cancellando baricentri e scomponendo le forze per conoscere il colore dell’urto. Sono lividi queste composizioni, sono rantoli, sono il canto di un perdente mentre fa calare la tristezza dentro il pozzo dove i desideri non possono sistemarsi. Piero e Gianni diventano il valzer dell’addio, il jazz che ossida, il blues che è attento a non paventare la sua presenza, per rovistare nelle carni di un pentagramma che sembra spesso uscire dai balli a palchetto degli anni Cinquanta per garantire la memoria e il rispetto. La drammaticità vive, come una forma rinascimentale gravida di allucinazioni: non creano dipendenza se non a chi sta nei loro paraggi per quattordici appuntamenti con l’ampiezza, le offerte, in una scrittura che è pura forma giornalistica, quella che entra nella ricerca di ciò che è vero e reale, per descrivere anche ciò che può voler stare lontano da tutto questo, in un carrozzone mai confusionario bensì preciso, come un intervento che serve a estirpare il cancro più grave di tutti che è l’illusione.

Quando ascolti questo album i libri e la vita si aprono, con riferimenti non sempre ovvi, con stupori, con rimembranze, con citazioni nascoste per legittimare genialità che stuzzicano e invitano gli spari a far fuggire i mediocri, mentre la famiglia, il lavoro, i piaceri vengono condotti nella stanza della resa, per essere meno spavaldi e boriosi. Non alza mai la voce Piero, casomai, raramente, il registro del cantato, sempre come se fosse un atto gentile. È tutto facilmente riassumibile in pochi versi: “Quando t’ho vista seduta accanto a me, le labbra aperte ai suoni del mattino, volevo tacere, porre fine al ricominciare”. Una fucilata poetica disarmante, inequivocabile, che rende le parti unite e disunite, nel gioco perverso di una distanza che vorrebbe essere diversa. Perché nulla della bellezza serve se non viene inseguita con un disagio paralizzante, nutrendo il linguaggio e le immagini di una catarsi che dopo aver spossato il pensiero lo getti nel fango. 

Canzoni che rimorchiano, graffiano la vita nell’estate immaginaria di un viaggio dove gli affetti sono abiti che conoscono spesso il ricambio, per sincronizzare i desideri nuovi con quelli privi di luce. La solitudine rende povera solo la parte della pelle che si vede e che Piero ci consente di odorare, tra portate piene di zuccheri e abbracci richiesti.

I sapori sono l’ebbrezza che attraversa lo champagne e il vino rosso, in un tripudio che odora di imbarazzo e necessità che avanzano, in un palco pieno di giornali, goffi movimenti e i dolori a un fianco messi sotto l’occhio di bue per conferire una circonferenza logica al tutto. L’amore nell’album è un arredo che non consola gli occhi, non profuma di pace, attraversa invece lo sconforto, l'inadeguatezza, avvilisce e fa smarrire i sogni, sparge veleni senza rifiutare l'ipotesi di un benessere minimo. Le creature musicali diventano appunti da leggere dopo cena, in modo distratto, durante una passeggiata tra vicoli acclamanti la luce mentre nell’anima il buio si assesta e rovista, per trovare quello smarrimento che spossa e ingigantisce la pigrizia e il pentimento. 

Le sue composizioni le viviamo come l’autore nato a Livorno quando per vederci un minimo beve “un litro molto amaro”: uno sconvolgimento necessario per uscire dalla finzione di anime posate, mai in affanno. Ecco che l’eccesso rivela la vera natura della nostra incoscienza.

Una detonazione continua che solamente la poesia del suo vagabondare permette di accettare, perché la pelle ricoperta da quella polvere è la sua: lui riesce a farci provare l’incanto di questa visione lasciando alla nostra coscienza la facoltà di decidere se sia una colpa o meno.

Quando ci troviamo nei sogni di una donna con la follia esibita nei suoi versi, il brano riesce a regnare, a diffondere le note di un piano di New Orleans e a farci ritrovare fuori zona, fuori luogo e fuori dal tempo, come la magia sa fare senza balbuzie.

Conosce, questo sipario mobile, la modalità che rifiuta di divenire un’attrazione, dando ai versi il potere di spostare i bisogni, senza la possibilità di riconoscersi, per rendere la sua e la nostra solitudine incompatibili. 

Gli archi sembrano prendere questo potere per esaltarlo, in voli e danze che sfiorano l’epicentro di un terremoto nel cuore dell’universo, lontano anni luce dal nostro comprendere. 

La vera genialità non comprende condivisione, rendendo ancora più cruda la distanza delle differenze: l’album più intenso, perverso, incandescente, libertario, raccapricciante nell’accezione positiva, più seducente e pesante di tutti gli anni Settanta e, probabilmente, non solo.

L’unico augurio che possa fare il Vecchio Scriba è di fare una grande indigestione di questo raro capolavoro globale e di soffrire di spasmi che conducano alla grande verità: “è successo un fatto strano” e siamo ancora qui a non capire quale sia, dentro una meravigliosa merda…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
4 Maggio 2024

https://open.spotify.com/intl-it/album/02kbC96fGDCaGS1a7tynHC?si=xvtA_mo4Q-6empSdnRxm2Q

sabato 20 aprile 2024

La mia Recensione: Healthy God - Poison, healing, poison poison

 


Healthy God - Poison, healing, poison poison


Che meraviglia assoluta è sorprendersi ancora, dopo una vita di ascolti musicali, e provare una gioia così precisa, limpida e fluorescente?

Il tutto è organizzato da un’anima sola, un autore italiano, di Milano, che ha vissuto una trasferta a Londra per tornare a risiedere in Italia, nella calda e accogliente Sicilia.

Quello che ci apprestiamo a sperimentare è un’esperienza che avvolge i sensi e li sparpaglia nel tempo (conoscenza musicale e memoria in questo ascolto sono estremamente importanti), nei luoghi che hanno reso la musica un tempio indiscutibile dove regna la qualità, il valore, il senso di un operare con precisione una mappatura di capacità che tornano sempre utili.

Daniele rincorre gli abiti luccicanti del piacere, perlustra i movimenti del dolore mettendo sopra loro una mano, per proteggerlo, si getta nei corridoi lacerati dei rimpianti e dei rimorsi, stabilisce un contatto sonoro con l’elettronica cristallina e seducente dei Suicide, innesta pillole di post-punk senza esagerare, scrive un trattato di misteriosa psichedelia con maschere di cerone, non tralascia di certo di imbastire un manichino di Alternative per donare attimi di leggerezza nei quali la classe evidente fa schiudere un sorriso, mentre nei dintorni l’urlo delle difficoltà spinge per prevalere. Queste sette composizioni, però, dimostrano un equilibrio strategico, per fare della sua musica un menù completo, digeribile, dai sapori multipli e con la sorpresa finale di riuscire a sentire un profumo intenso dalle note appoggiate su un pentagramma che pare essere stato scritto tra case abbandonate, acciaierie e scorribande psicotrope.

Tutto sembra un’analisi che, partendo dall’essere esplorativa, è in grado di suggerire un’apertura nella quale il conscio e l’inconscio discutono per determinare una realtà che, oltre a essere limpida e precisa, sappia spingere l’attenzione verso una partecipazione diretta da parte degli ascoltatori.

Brani come segnali intermittenti, SOS multipli, corse affannate, villaggi pitturati da una mente consapevole che il paesaggio, per poter essere comprensibile, vada vissuto. Ed ecco che l’artista si butta, con un paracadute che arriva di sicuro dai primi anni Settanta, nelle articolate strutture elettroniche, capace di convogliare beats strepitosi, un drumming fantasioso e potente, chitarre acide che lavorano per sfibrare i nervi della storia inglese, per stabilire il recinto della sua mente fervida e fertile. Si ha la sensazione che siano venti e non sette le canzoni che possiamo ascoltare: un dato che già rivela la potenza di un disco che è un trattore intento ad arare gli ascolti sino a trasformarli in obbedienti granelli di terra.

La voce, il cantato, i testi: da quanto tempo il Vecchio Scriba non sentiva un compattamento del genere, con la capacità di commuovere, preoccupare e far interrogare? Colpisce come la drammaticità si coniughi a una stramba dolcezza, un veleno che pare mutare verso il liquido che può ricordare la fragranza di profumi che sanno stordire.

Il registro è spesso alto, la metodica è quella di paroli brevi, secche, ben pronunciate in inglese, e la sapiente e davvero profonda capacità di divenire un corpo unico con le musiche. Esiste una sacralità in questo disco, un utilizzo davvero effervescente di cambiamenti strutturali che allargano il campo di azione delle possibilità: è come abbracciare un fucile e trovare nella canna proiettili di tipo diverso e, quando il dito preme il grillento, l’esplosione è un arcobaleno in bianco e nero che sfida quello colorato.

Senza esitazioni andiamo a metterci nei pressi di queste fragorose e ben pettinate composizioni, per poterci cibare di un lavoro che mi auguro riesca a incuriosirvi e a dare materia ai vostri impulsi, con l’intento di essere alla fine dell’ascolto maggiormente disciplinati nell’accogliere un album così potente…


Song by Song


1 - Eternal Internal Fight 

Un synthpop iniziale in odore di Human League scuote subito la pelle, che con il passare dei secondi si ritrova addosso lacrime di un electropop in fase perlustrativa. È come se ascoltassimo il silenzio sacro di una processione di intenti fuori da un capanno abbandonato.


2 - Can’t Go On Can’t Let Go

La rincorsa del post-punk più sottile, il suo latrato che inquina il sole, ci presenta un brano nel quale la chitarra esibisce con grande intensità la storia del suo sviluppo, con un cantato che, modulato, potente e a tratti sguaiato, impressiona. E quell’arpeggio che si presenta prima del ritornello odora di immenso, come gocce che dalla storia americana dei Television arrivano ai giorni nostri…


3 - White Walls

Si parte dal 1971, l’anno in cui nacquero i Suicide, e si raccolgono per strada chitarre acide, un loop che ossida e corrompe. Poi la chitarra allarga la sofferenza e fa cadere tutti i mattoni di queste pareti bianche pronte a tingersi di grigio…


4 - The Dance

Torna il duo di New York (Suicide) il tempo necessario per mostrare l’inizio di un ululato che pare avere tentacoli di generi musicali compressi, intenti a tener segreta l’origine, in un trambusto che rimane convincente per tutti i centocinquantadue secondi…


5 - Catholic Guilt

Ecco la canzone più intensa e seducente, una estensione di elementi concentrici che abilmente fanno uscire bolle di ossigeno: tutto è qui in attesa di graffi e indagini sonore che smantellano molte convinzioni. Appaiono gli Ultravox, si sente l’operato dei Cabaret Voltaire nel cercare un concetto e definirlo, per poi entrare con il cantato quasi comatoso nella poesia dell’indagine. Il ritmo è una scorribanda, tra altalene e tuffi nel vuoto…


6 - This Is Not A Game

Gocce di noise provenienti dalle balbuzienti labbra dei Liars sono solo il pretesto per scrivere un brano drammatico, dal ritmo sincopato, dai beats minimalisti ma alquanto efficaci, per dare poi alle chitarre la possibilità di generare uno splendido caos stellare…



7 - All These Sufferings Must Lead Somewhere

Trecentouno secondi di pura ipnosi, con svariate modalità, all’insegna di un ritmo lento ma astutamente prodigo nel convogliare l’attenzione verso un gioco analitico dove solo la voce sembra voler spaziare tra la dolcezza e la malinconia. La chitarra, uscita da Seventeen Seconds dei Cure, fa da collante a questa strategica dispersione di semi, in un vortice dal climax intenso, travolgente e mistico. Si piangono lacrime di metallo, si vive la frustrazione di dolori che si acquattano come iene in attesa che la nostra debolezza li convinca ad attaccarci…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

20 Aprile 2024


https://open.spotify.com/album/3H2W22PIH9hkzHatz8UlDv?si=clRCrtCtSwWt-Z0fjjGvdQ

lunedì 8 aprile 2024

La mia Recensione: Estetica Noir - Amor Fati


 

Estetica Noir - Amor Fati


La gioia e la dannazione della vita è tutta nelle mani grasse e velenose del tempo, colui che rimane giovane, immortale e ha il dono di far nascere esistenze e di condurle alla morte. 

Su questo egocentrico ed egoista essere, maligno e generoso, si è concentrato nei millenni uno studio profondo, specifico, che non ha saputo cambiare le cose. Non si è nemmeno imparato ad accettarlo, tutte le fatiche sono scivolate nella disperazione, anche nella rassegnazione, e ognuno di noi olia i meccanismi dei propri sogni per trovare forza e consolazione.

Che è quello che ha fatto la band torinese Estetica Noir, nel suo nuovo lavoro che altro non è che un concept album che affronta parte delle tematiche citate, per divenire, attraverso queste nove composizioni, un punto di riferimento, di partenza, un semaforo celeste al fine di ripartire verso una coscienza che rischiari le tenebre e le faccia arrendere un po’.

Amor Fati rivela attitudini completamente diverse rispetto al passato, una costante pressione nei confronti della forma e del contenuto con l’abilità di attraversare il tempo anche musicalmente parlando, con appigli nobilissimi e riferimenti che sanno come far apparire l’insieme come un quadro raffigurante il passato già immerso nel far breccia verso il futuro. Meno cupo, meno legato a cliché di impronta gotica, questo disco osserva, descrive, amplifica l’obiettivo di non provare vergogna nel visitare prospettive diverse, finendo per scaldare i muscoli del cuore e aprire i corridoi della mente. 

Il percorso rivela maturità, ingegno, elasticità sensoriale, incursioni in territori poco praticati dal gruppo in passato, una semina di nuove esperienze che edulcora il linguaggio artistico e lo rende forte, preciso, dinamico e coinvolgente. I generi musicali di cui è composta questa perla sono un abbraccio climatico, umorale, con l’abilità di cucire questi notevoli fluidi con una produzione eccellente per mano di Riccardo Sabetti, un mago al servizio della bellezza e del valore del materiale scritto da questi quattro psicologi sonori.

Ci si commuove con l’elettronica, i beats, i flussi siderei di una nuova faccia liquida della synthwave, qui capace di rivelare nuove dinamicità. Il tempo, dicevamo. Ecco: la setacciatura compiuta mostra anche nei confronti della musica l’abilità di renderla sognante, fisica, veemente, criptica, animalesca con garbo, in una furia che sembra un dizionario di semiotica, un amplesso sanguigno che non risparmia energie per rendere il tutto comprensibile.

Canzoni rabdomanti in cerca di luce, di una illuminata dimensione che strutturi il tutto verso la dilatazione, con la sapiente manovra di rendere anche le gambe, in costante movimento, capaci di danzare per rendere lieto il più possibile l’incastro di argomenti impegnativi.

Si noti come le chitarre siano compagne di viaggio, complici di un ensemble che è strutturato per far vincere le composizioni: anche sotto questo aspetto la maturazione è evidente, porta, oltre a una novità, la volontà precisa di curare gli argomenti con una divisione dei compiti che non cede a nessun ricatto. E la voce è un ciliegio in fiore in grado di interpretare molto bene la fiumana di parole vitali e profonde, interessanti, ben scritte e ottimamente espresse in una modalità che mostra una stratosferica densità.

Il godimento dell’ascolto passa attraverso le varianti, le corse e le passeggiate nelle atmosfere molteplici, in un flusso ventoso che porta a bordo temperature e oscillazioni emotive aperte verso l’aggancio con strutture che, anche se ricordano cose che abbiamo già sentito, la band sa esprimere meglio, per un risultato che inclina la soddisfazione nella commozione: ci sono brividi ricorrenti e stordimenti che baciano stupori, con la certezza che sia, tutto questo, solo l’inizio di un cielo nuovo che loro hanno saputo inventare…

Il Vecchio Scriba è certo del valore di questo album, lo è molto meno della capacità della massa di attribuirgli il plauso che merita e l’usufrutto, in quanto, per davvero, queste canzoni sono docenti universitari, informazioni indispensabili per maturare una crescita che indirizzi l’esistenza nell’associazione della realtà e del sogno in un nuovo Eden…


Song by Song


1 - Burnout

Why did the screen become your god? Why do you show guns instead of love?”

Ed è subito tempesta, spettri ebm e synthwave acida adunati in un assolo corale di urla che girovagano nella notte per donare frutti consapevoli da innaffiare. Giochi di synth come raggi di temporali e la voce che, raddoppiata, si insinua nella testa mentre si danza già sconvolti… 


2 - Pain

A lot of lies ruined my reputation. Art brightened my empty days.

I couldn't be all I wished. Fragile dreams.”

Lo stupore diventa consapevolezza, l’odio, la vita, la solitudine, l’illusione, il tutto viene confiscato da questa corsa melodica che, tra coldwave col trucco serale e un gioco elettrico che giunge dalle sponde germaniche degli anni Ottanta, rivela un’estasi nevrotica che rende stremati ma di fronte alla verità relazionale.





3 - Summer Shine

You were the danger I loved, the dreg, the alien god, 

you were the pleasure of someone who dares.”

La canzone che più mostra l’impatto con l’italo disco degli anni Ottanta per poi planare verso i confini che i Depeche Mode non hanno mai saputo perfezionare, è un vapore pieno di artigli che ha scelto di essere più lento rispetto ai due brani precedenti, riuscendo a seminare tensione e interesse, anche attraverso un cantato che mostra notevoli differenze rispetto a tutta la carriera vocale di Silvio Oreste.


4 - Faded

I'm afraid of dying when this time will end. I want to play again.
Can you hear me? I'm fading away.”

Ecco il dialogo con Dio, un faccia a faccia velenoso, dove la volontà umana si precisa con il suo ardire, con la provocazione, con lamentele sapienti. Si danza con un format che sprigiona gioielli synth e un basso struggente e malinconico, creando una culla tra i precipizi di un testo meraviglioso.



5 - The End of Moraliadays

Whenever you'll cry and whenever you'll smile, you know that I will be proud of you.”

Cambio di atmosfera, il coraggio di una disponibilità alla comprensione umana che addolcisce e ci rende teneri cuccioli contenti e sicuri dell’amore. Una coperta mantrica si prende il nostro stomaco, scintille di synth di provenienza Orchestral Manoeuvres in The Dark miscelate poi a un sottile lavoro di diminuzione degli strumenti per poi riprendere e condurci verso la fine del giorno rendono la canzone una chicca magnetica.



6 - Iter Vitae

Marco Caliandro è l’autore dell’unico brano strumentale, un crocevia di seduzione che parte dal bacio dei Kraftwerk per congiungersi con esplorazioni ebm flessuose, per fare l’amore con i sogni, in un disegno dove la pellicola di un film muto si prende spazio dentro questa magia surreale…



7 - Strange Hologram

Once upon a time, when the sky was bright, people talked and smiled.”

La Regina dell’album, la Dea della consapevolezza che distribuisce decisioni e impronte notturne, porta se stessa nel giorno. E lo fa con diramazioni elettroniche quasi sospese, mentre le parole sono tempeste senza resa…



8 - Stockholm’s Azure

Where do we go, now? Life is too short to give up, we must stand.”

La permanenza, la lotta, il senso del tutto trovano modo di suggerire un’orgiastica scia sonora, impulsi atavici perlustrano i passi della vita attraverso questo delirio, un up and down che evidenzia un cantato vitaminico e il sollievo di un pentagramma che contiene ricche fasce di luce e tenebra a braccetto.


9 - The Cell

“Do you think to have a choice? Walls of lies surround you.”

Questo gravido tempio di brillanti si conclude con una pioggia lenta e invernale, verso sera, nel momento in cui è concesso in quanto la verità non si può mettere a tacere. La band sfodera un fascio sonoro brillante lancinante, umido, lento, una stella cometa che oscilla come i migliori Placebo della svolta elettronica seppero fare. Ed è un armonico abbraccio tra lacrime e poesia piena di gramigna…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
9 Aprile 2024

La mia Recensione: Chants Of Maldoror - Ritual Death

  Chants of Maldoror - Ritual Death Un nido d’api abita nel cratere del cielo, a bordo di un veicolo che lo trasporta tra le diverse forme d...