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domenica 5 gennaio 2025

La mia Recensione: Lamante - IN MEMORIA DI


 

Lamante - IN MEMORIA DI


Che bello aspettare un disco invecchiare, percorrere la strada della pazienza, dello studio, dargli il tempo di circumnavigare i pensieri, governare gli istinti.

Otto mesi dopo la sua uscita ecco un’analisi fitta, dritta, coraggiosa ma in grado di cogliere un esordio deflagrante, per dare alla musica italiana ponti e riflessi, in un mare agitato da una giovane donna che ha avuto il coraggio di aprire le proprie contaminazioni libere nel circuito della memoria. Non fotografie e nemmeno “solo” ricordi: direi, piuttosto, un allacciamento temporale all’interno di istinti e grumi di sangue, per tracciare teoremi, scarti, immaginando la creazione delle note come un’arte che si presta a scuotere la vita. Non esistono classificazioni in questo graffito, che affitta il talento per condurlo in solchi pieni di scorie, maledizioni, ingiurie, macabre pulsioni sessuali che diventano con la sua scrittura il respiro angelico dei peccati. Giorgia Pietribiasi investe la storia recente di operatori messi a disagio  dal buon gusto e li schiavizza, con torture sonore e vocali, con la parte testuale che, ingegnosa e voluttuosa, permea il tutto come un delirio educato che prende in prestito la modalità dell’hardcore italiano molto più del punk, in quanto le liriche sono centrate sul pronome personale io e tendono a includere ed escludere gli altri solamente nella parte terminale delle sue considerazioni. E poi la musica: un fitto cammino nella foresta fresca di incursioni che fanno del suono il presupposto di una sciabolata, per far rabbrividire le definizioni. Lei è scomoda già con se stessa, incespica e rutta versi come un olio che cerca vitamine essenziali. Un aprire le mani per chiudere gli occhi, con fraseggi gentili solo per concedere al fiato di cercare un imbuto per cadere e dare all’equilibrio modo di illudersi. Sono undici rosari, circolari e spinosi, gravidi di pulsioni, garze che dalla sua Schio si affacciano sul mare italiano sempre più sporco e nei pressi dello sfarzo inutile. Giorgia no: parte dai suoi paletti, propositi che, quando si avvicinano all’aspetto artistico, fanno scattare in piedi i muscoli, per sottolineare non c’è alcun punto di contatto con le ultime due decadi sonore di questo stivale sempre più storto. In Memoria Di accusa, difende la dignità, balbetta felicemente nel corollario dei suoi tentativi di immaginare la musica come un deserto che rivela fiori inconsueti.

Immergere le contaminazioni elettroniche per farle combaciare con una attitudine Industrial è davvero ragguardevole, portando l’incanto a stabilire il contatto con una poetica suburbana, invasiva e piacevolmente scomposta. Si alternano fluidi e pugni, nella scelta di operare un marcamento stretto che abbisogna dei fiati per portare le note del pentagramma nella ragnatela della seduzione.

La sua voce, poi, un groviglio nevrotico che accende l’orgoglio di paragoni che stavolta diventano un merito e non una punizione. Si va quindi all’estero, a bussare sulla spalla di Sinead O’Connor, per tornare in Italia con Cristina Donà, e poi fuggire via nel suo petto, perché per davvero il suo canto nasce dal suo cuore, proprio in questo organo che lei spreme, per metterlo poi nel cervello sempre pronto a scaricare watt e deliri.

Nelle sue urla ci sono lacrime che ossigenano le riflessioni, nei suoi ritornelli (che presto potrebbero anche sparire, vista la sua affermazione che la forma canzone le sta stretta) gli arcobaleni entrano nei disagi quotidiani facendola vibrare. 

Taketo Gohara è un produttore capace di dare ai mirtilli il suono delle rose selvatiche ed è stato proprio lui a riempire questo lavoro di venti che rendono solido il volo magmatico di queste composizioni. Una farcitura, una guarnizione, una mano abile per consegnare a Giorgia un trono da cui non scenderà facilmente. La grinta non passa solo dai rumori e/o dalle lacerazioni, bensì dal governare la cosa giusta facendola sposare con l’errore. Ecco quindi canzoni come bambine monelle che prendono in giro le verità seminando dubbi ed esternazioni come pallottole che invece di colpire circondano, finendo per snervare ancora di più.

Un album che odora di pellicola antica, di un sax scassato e mai riparato, per conservare l’odore di cammini continui. Venticinque anni che nelle composizioni paiono essere più del doppio, per seminare confusioni e imbarazzi. I termini scelti per sviluppare un percorso mentale si affacciano agli anni Settanta: un continuo saltare avanti e indietro con il gioco del banale che oscura la bruttezza, ingravidandola con scorie che attraversano il setaccio di una morbidezza sopraffina e incontenibile. Un luna park a intermittenza che passa dagli oggetti alla natura, al tempo, ai rapporti rotti che paiono perfetti, e un’indole propensa a separare se stessa dal suo stesso mondo.

I temi trattati oscillano tra il prato dell’esistenza che scorre nelle sue giovani vene e il dramma di un tempo da far filtrare da qualche parte. Scendono i suoi versi nei meandri di paure che si vorrebbero lontane. Una fila di tracce che lei inchioda, cancella, semina nel suo vocabolario solo apparentemente semplice: i suoi puzzle provocano un’orticaria mentale che non si può che adorare e adoperare per sentirsi sganciati dal senso e cercare un luogo nuovo dentro noi stessi.

Si fa in fretta a immaginare che questo album non sia in grado di fuggire dall’attrazione da parte di chi, stanco e amareggiato da una scena italiana che cerca il successo, voglia uno specchio frantumato da guardare senza pretese, ferendosi nel raccogliere i pezzi, disinfettando le ferite con la tossina infinitamente generosa del suo talento senza museruola, anarchica al di là della sua stessa dichiarazione. Basta vedere come nessun testo parta e arrivi senza conoscere la tentazione di nascondere il cielo…

L’abilità principale si precisa nel pop che si trova sbilanciato, raggirato ma utilizzato all’interno di un circuito che fugge dai generi musicali. Lei va oltre quella presa sicura, scavalca la scuola della sicurezza e, invece di far riposare le canzoni nei canali di boriose definizioni, sprinta e parte per la tangente, sfigurando il volto di chi passa il tempo a voler classificare. Urla, molto, questo è vero, ma lo fa come lo faceva James Brown nei primi anni Settanta: quando l’isteria trova un pretesto, un aggancio, allora smette di essere governata. Questo continua in ogni brano, in un esercizio delizioso per correggere la sua luna interiore.

La bontà e la cattiveria non si sfidano a duello: si ignorano e ci invitano a cedere davanti alla ragione che vacilla e cade.

Si può solo imparare a vedere i nervi distesi dentro un romanzo e qui Tolstoj non c’entra nulla, malgrado il titolo della sua più clamorosa opera: un disco come discarica tra pagine ingiallite, in cui la foto di copertina si ritrova a essere il bastone di un passato che è miracolosamente sopravvissuto.

Si rimane basiti, non confusi e tantomeno felici: dentro una gioia scomposta le lacrime di questo miracolo ci rendono la pelle dell’anima una cometa che non muore nemmeno volendolo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
5 Gennaio 2025


La mia Recensione: Lamante - IN MEMORIA DI

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