giovedì 29 agosto 2024

La mia Recensione: Nick Cave & The Bad Seeds - Wild God


 

Nick Cave & The Bad Seeds - Wild God


“ Alla luce, anche l’albero desidera il sole.”

(Proverbio italiano)


Ci sono girasoli che volteggiano nel cuore di intenzioni assopite, come stravaganti dannazioni in cui il terminale viene mostrato appena si accende la luce.

Nick Cave lascia il cratere e sale tra le vette di un sentimento non utilizzato da anni: concentrare il lascito del dolore per immergerlo nel volteggio di un sorriso costruito come barriera corallina.

Un terremoto al contrario: dalla cima della conversione piccoli frammenti di lava salgono nel cielo di una determinazione per ossidare quel nero che l’ha sempre definito, che non ha mai nascosto e che ha attraversato il battito di ogni titubanza.

Wild God è una installazione artistica che non cerca consensi, viaggia per confini che non possono essere afferrati: esiste una contaminazione, durante l’ascolto di questi dieci crateri, che inchioda lo stupore, per farci inchinare di fronte a questi cambiamenti stilistici che sono quasi invisibili ma efficaci. Molti aggiornamenti nella scrittura, l’adozione, definitiva, di un’assenza che sembrava causa di disperazione per i suoi fedeli fans: l’uso della chitarra è quasi totalmente sparito, con l’orchestrazione massiccia, ostinata, necessaria, al fine di poter confluire in un abbraccio con gli stilemi della musica classica.

Ed è trionfo di armonia, la melodia si appiccica alla luce della vita, che in queste tracce si scontra con chi vorrebbe l’opposto. 

La morte, la dannazione, l’ansia, la difficoltà, gli spettri, il rumore del precipizio non mancano di certo: sono incolonnati molto abilmente in un respiro accogliente, che concede loro spazi e possibilità di manovra, ma con l’accortezza di non essere preponderanti sul tutto.

Nick visita il territorio perfetto per i Bad Seeds e l’innesto di un membro dei Radiohead indirizza la curiosità verso un sentiero diverso. Erano almeno dieci anni che la band non aveva spazio, che non gettava il cuore nella scrittura. Si dia solo un dato: tantissimi musicisti sono passati dentro il mondo di Cave ma lo stile è sempre rimasto lo stesso, e cioè quello di apostoli disciplinati e liberi.

I testi sono un albero ispirato dalla vita per girare le gambe e cominciare a sondare nuove possibilità: ecco emergere la sua fede nel dono, il bisogno di imparare dai lutti, dagli scontri, di far precipitare l’oblio nell’assenza e catturare un vento spirituale che blocchi ogni negatività. Scende, avanza nella natura, si scosta da se stesso senza perdere il suo stile, e affonda in un attacco mai verboso, con parole cariche di una semplicità mai noiosa, sapendo ancora toccare il vento di ogni battito. Una serie di frasi che stordiscono, mai precipitose, sempre bilanciate e messe in naftalina, come metodo per provarne la resistenza. 

Nove musicisti, dieci canzoni, un faro, una voce, cori femminili, la matita che diventa una macchia azzurra e che va a baciare la morte. Toccante la dedica ai figli finiti a camminare tra le nuvole, come il suo grazie all’antica musa Anita Lane, insegnando ancora una volta il rispetto nei confronti della memoria e il voler imparare dall’esperienza. Visita la saggezza, la misura, le dà la possibilità di non separarsi dalla sua antica indole furibonda, ma camuffa i toni con composizioni in cui nella lentezza i fulmini appaiono come sempre famelici…

L’ironia che lo ha reso accostabile a Morrissey, almeno per il Vecchio Scriba, si presenta ancora in un paio di versi che paiono essere stati scritti dal bardo di Stretford: ecco, Cave ha costantemente posseduto un vocabolario interiore, ma non ha mai rinunciato ad avere gli occhi degli indiani capaci di scrutare profondamente, per nutrire la sua anima ulteriormente. I cori, l’assenza di assoli, la coesione della band, la volontà della produzione di far apparire il disco come un dettato di filosofia seduce e riesce nell’intento, in quanto la dinamicità del tutto sembra essere attraversata da un’euforia educata e gentile.

Magnetica l’intenzione, complessa la modalità, tuttavia alla fine l’artista australiano mette il bavaglio a ciò che pareva spegnere la sua attività, per sospendere l’approccio oliato ma forse un po’ logoro. Questo album è una nascita, una conversione gioiosa verso la sperimentazione che non è quella degli ultimi suoi tre lavori, grandiosi (mai pensato il contrario) ma che soffrivano di una forma limitata di espansione sensoriale e visiva. Qui, invece, siamo sul podio di un tremore che è violento, se lo si lega a questo cantante, perché potrebbe negare al suo passato l’accesso alla disperazione, a una frustrazione che forse lo aveva limitato. 

Ci sono guitti, ci sono carezze, c’è il caos del blues, esistono momenti nei quali il silenzio costituisce la sua nota nativa, la chiave di violino del suo nuovo sistema operativo per lacrime che nascono e si nutrono di una sensibilità fuori dal comune.

La sua voce viene passata al setaccio: liquida, densa, piena di bagliori notturni che si spostano per ossigenare la sua mente, una lunga attesa, un equinozio, un brindisi in un bicchiere che non può macchiare la sua essenza. Canta come un angelo che ha appena terminato una sessione di analisi: graffiante ma pacifico, in attesa di una concessione divina che giunge attraverso queste musiche che sembrano dipinti scavati nella roccia e in cui il suo canto si immerge.

Come gli capita raramente, scrive senza fretta, e concede spazio a cori e controcanti come mai prima: qualcosa del passato pare essere finito tra questi solchi, come se le Murder Ballads fossero andate a rinfrescarsi nell’acqua di Lourdes: nessuna canzone presente nell’album è immune da un confronto, si percepisce che qualcosa di antico compare sempre, ma è la direzione a essere cambiata, e questo basta per farci ascoltare questo terremoto al contrario e uscirne purificati, preoccupati quasi, perché non siamo abituati al fatto che l’uomo con la ruga nell’anima apra una corsia dove la luce vince, stravince e ci mette al tappeto.

Senza dubbi forse un artista non è credibile, lui più di altri, ma questa è la scommessa di chi ascolterà questa cascata: approfittarne e rinsavire, abbandonarsi a un gioco nuovo e perdersi in queste colonne di coriandoli improvvisi sebbene non improvvisati.

Lo shock più evidente è il senso di riconoscenza che lui attribuisce a tutto ciò che toglie il respiro: non si adegua a un eventuale pessimismo e costruisce un’arca che approda in queste lente processioni, dove al posto dell’incenso lui spande sorrisi e abbracci.

Musicalmente assistiamo a un limpido affresco in cui soprattutto il basso e la batteria riprendono il colore che avevano negli anni Ottanta: tolto il rumore rimane la sensazione che i due strumenti e i due musicisti siano in grado di stregare pure Dio, giocando a ribaltare l’ecosistema di Cave, per incantare, mentre il pianoforte è uno gnomo che salta sui tasti, senza affanno, con la gravità che quasi in modo rotondo circonda le note.

Il gospel, il blues, quella malinconica psichedelia nascosta stipulano un patto e tutto scorre, per tornare in un ascolto sempre vergine…


Spiazzante, pericolosa come la gioia che mai consideriamo afferrabile, questa fascina di sorprese faticherà a convincere chi avrà gioco facile nell’opposizione, ma il Vecchio Scriba ne è certo: Nick Cave riderà di gusto, perché la scrittura di questa opera rimarrà nelle rughe del suo leggendario sorriso… 


Song by Song


1 - Song Of The Lake


Il cielo si apre per finire sulla pelle di un lago: ed è l’antico spoken word che torna, ma affacciandosi su una superficie che fa rimbalzare la luce in un tintinnio delicato, e ciò che era grave ora è un “Never Mind” che stordisce. Lenta, angelica, solare, avanza secondo dopo secondo sino a far vibrare le lacrime di un celestiale nuovo cibo. L’influenza della canzone è molto sottile, ma siamo sulle sponde americane di vecchi spiritual in attesa di essere coccolati…


2 Wild God


Tutto torna alla base: il Nick Cave che ha perlustrato negli anni Novanta la secchezza della forma canzone si ripresenta, in una modalità minimalista che abbisogna solamente di questa voce salata, mentre torna nella sua Jubilee Street e afferra il passato per cercare in una smorfia di Dio la sua benedizione. L’insieme si fa angelico e convincente. Lo story telling è inusuale, ma sembra una storia già sentita per via dello stile che qui riceve una piccola scossa grazie ad assonanze preferite alle rime.

Nel finale l’anima scura scuote e un certo affanno, nel cantato, rende il brano uno dei più maestosi dell’intero album.


3 Frogs


Può un delirio surreale essere l’avamposto di un cambiamento? Certo che sì: Frogs è un generatore di novità, un ponte tra Cohen (l’adorato Leonard) nel suo abito grigio e la visionaria creatività di un infarto sonoro, perché qui tutto si ingrossa nel petto, nell’architettura che stordisce. La produzione rivela l’abilità di mantenere alta la tensione, quasi come se un suicidio annunciato stesse per arrivare, ma in realtà è la lungimiranza nella vita da parte di Cave a farci sprofondare in una storia che potrebbe essere stata scritta dai messageri del cielo.

Intanto Leonard dal cielo applaude, felice…




4 Joy


Si trema perché si è impreparati ad accogliere i miracoli al risveglio e Nick scava nell’atrio del suo lutto, un sogno che gli fa sentire una presenza che passeggia lontano nel cielo ma non nel suo cuore. Un padre che scrive una canzone del genere è un fazzoletto su cui le nostre anime vacillano. Incisivo, con la voce che è una pietra che si scioglie, il tutto diventa una nuvola tra timpani, tromboni, corni e la sensazione che quando arriva il fascio di voci tutto sia una sentenza: Cave ha scelto di vivere dentro l’arcobaleno, l’unico luogo dove la gioia non muore…



5 Final Rescue Attempt 


Nuove spine, nuove melodie che sembrano uscite da un album che i suoi fans non hanno mai particolarmente amato, riescono a far sentire un carosello, un carillon di una sospensione che gravita in accenni mai paludosi ma fragorosi: si dia spazio alla sottile lamina di una tastiera che regge questo ingresso nel dolore senza dargli la possibilità di vincere. Ed è ipnosi che passa al pianoforte e lubrifica l’intera struttura, con note dal registro basso e tuttavia solari…



6 Conversion


L’aquila non dorme se il cielo è nuvoloso: le sue vittime possono nascondersi. E allora Nick se ne inventa uno: cambia la direzione del suo percorso per intrufolarsi in ritmi pieni di battiti lenti, con la tastiera di Warren che aspetta l’ululato del fedele amico, mentre il drumming si affaccia e il corno piega la melodia per questa composizione che anticipa una nuova tempesta…



7 Cinnamon Horses


Sacra, austera, turbolenta nel suo principiare, e poi muta, come una boccata di aria fresca che è stata benedetta dalla contemplazione. Devastante, conduce l’immaginazione alla resa. Il modo in cui Cave gioca in anticipo rimane una sorpresa: se si osserva la struttura del brano tutto sfugge alla ripetizione, ma si rimane incollati a quei tocchi delicati nel contesto di un’orchestrazione che davvero si presenta come una triste benedizione angelica. La voce quasi trema ma le parole no: avanzano sicure mentre tutto si dilata…



8 Long Dark Night


Il brano più vicino a un passato glorioso assembla il conosciuto a un vortice di nuovi ingressi. Primo fra tutti l’utilizzo di un fare pop nel ritornello che può essere utilizzato come un crocevia: a ognuno la scelta tra perdersi o trovare la mano di una lunga notte scura, ma solo in apparenza…

Saper visitare il dubbio innanzi a una grande gioia appartiene al potere della notte. Le parole, cadenzate e ben scandite, sembrano proprio quell’atrio personale in cui ognuno di noi può sentire una gustosa sensazione di perdita…



9 O Wow O Wow (How Wonderful She Is)


La devozione della band a rendere luminosi i suoni in progressione è arcinota. Forse questa modalità un po’ meno ed è impressionante come si stia in attesa di un miracolo tecnologico: la voce di Anita, registrata durante una conversazione telefonica, arriva a fare del nostro cuore un sepolcro in tumulto, dopo che il testo di Cave ha preparato il colpo di scena in modo impressionante. E come un novello Jean-Michel Jarre, ecco che l’australiano si invaghisce di suoni quasi freddi per scaldarli con la sua generosità.

Quando l’amore entra in questo brano ci si sente fortunati: niente muore se esiste la memoria e infatti Anita si affida proprio a questo con Cave. E si piange nella prigione della risata di questa fantastica musa… 




10 As the Waters Cover the Sea


Il lato B della canzone che ha aperto l’album.

Ecco la dolce e tenera modalità con la quale Nick e la band si congedano, per costruire la coperta adatta a farci dormire, con un’armonia che sale nel tetto, al fine di proteggere questo lavoro di ottima e sensazionale fattura: il fatto che sia una forma corale a concluderlo non è un caso…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30 Agosto 2024

My Review: Nick Cave & The Bad Seeds - Wild God


 Nick Cave & The Bad Seeds - Wild God


‘In the light, even the tree longs for the sun.’

(Italian proverb)


There are sunflowers swirling in the heart of slumbering intentions, like extravagant damnations in which the terminal is shown as soon as the light is turned on.

Nick Cave leaves the crater and ascends to the peaks of a sentiment that has not been used for years: concentrating the legacy of pain to immerse it in the vaulting of a smile built like a coral reef.

An earthquake in reverse: from the top of the conversion small fragments of lava rise into the sky of a determination to oxidise that blackness that has always defined him, that he has never concealed and that has crossed the pulse of every hesitation.


Wild God is an artistic installation that does not seek consensus, it travels by boundaries that cannot be grasped: there is a contamination, while listening to these ten craters, that nails amazement, to make us bow before these stylistic changes that are almost invisible but effective. Many updates in the writing, the adoption, definitive, of an absence that seemed a cause of despair for his loyal fans: the use of the guitar has almost totally disappeared, with the massive, stubborn orchestration necessary, in order to be able to flow into an embrace with the stylistic features of classical music.

And it is a triumph of harmony, the melody clings to the light of life, which in these tracks clashes with those who would like the opposite. 


There is no shortage of death, damnation, anxiety, difficulty, spectres, the sound of the precipice: they are very skilfully strung together in a cosy breathing space, which allows them room to manoeuvre, but with the foresight not to be preponderant over the whole.

Nick visits perfect Bad Seeds territory, and the grafting of a Radiohead member directs curiosity down a different path. It had been at least ten years since the band had had any space, that they had not thrown their hearts into their writing. Let us give just one fact: so many musicians have passed through Cave's world but the style has always remained the same, that of disciplined and free apostles.

The lyrics are a tree inspired by life to turn its legs and start probing for new possibilities: here emerges his faith in the gift, the need to learn from bereavement, from clashes, to plunge oblivion into absence and catch a spiritual wind that blocks all negativity. He descends, he advances into nature, he moves away from himself without losing his style, and sinks into an attack that is never verbose, with words charged with a simplicity that is never boring, still knowing how to touch the wind of every beat. 


A series of phrases that stun, never rushed, always balanced and mothballed, as a way of testing endurance. 

Nine musicians, ten songs, a lighthouse, a voice, female choirs, the pencil that becomes a blue stain and goes to kiss death. Touching is the dedication to his children who ended up walking in the clouds, like his thanks to his old muse Anita Lane, teaching once again respect for memory and the desire to learn from experience. He visits wisdom, measure, gives her the chance not to separate herself from her old furious nature, but camouflages the tones with compositions in which in the slowness the lightning strikes appear as ravenous as ever

The irony that made him comparable to Morrissey, at least for the Old Scribe, still shows up in a couple of verses that seem to have been written by the bard of Stretford: here, Cave has constantly possessed an inner vocabulary, but he has never renounced having the eyes of the Indians capable of scrutinising deeply, to nourish his soul further. The choruses, the absence of solos, the cohesion of the band, the production's desire to make the record sound like a dictation of philosophy seduces and succeeds in its intent, as the dynamism of the whole seems to be shot through with a polite and gentle euphoria.  Magnetic the intention, complex the modality, yet in the end the Australian artist puts the gag on what seemed to extinguish his activity, to suspend the oiled but perhaps somewhat threadbare approach. This album is a birth, a joyous conversion towards experimentation that is not that of his last three works, which were great (never thought otherwise) but suffered from a limited form of sensory and visual expansion. Here, on the other hand, we are on the podium of a tremor that is violent, if one attaches it to this singer, because it could deny his past access to despair, to a frustration that had perhaps limited him. 

There are guitars, there are caresses, there is the chaos of the blues, there are moments in which silence constitutes his native note, the treble clef of his new operating system for tears that are born and nourished by an uncommon sensitivity.    His voice is sifted: liquid, dense, full of nocturnal flashes that shift to oxygenate his mind, a long wait, an equinox, a toast in a glass that cannot stain its essence. He sings like an angel who has just finished an analysis session: scratchy but peaceful, waiting for a divine concession that comes through this music that sounds like paintings carved out of rock and into which his singing soaks.

As rarely happens to him, he writes unhurriedly, and allows space for choruses and countermelodies as never before: something from the past seems to have ended up between these grooves, as if the Murder Ballads had gone to cool off in the water of Lourdes: no song on the album is immune to comparison, you can sense that something old always appears, but it is the direction that has changed, and this is enough to make us listen to this earthquake in reverse and come out purified, worried almost, because we are not used to the fact that the man with the wrinkle in his soul opens up a lane where light wins, overcomes and knocks us down. No doubt perhaps one artist is not credible, him more than others, but this is the wager of those who will listen to this cascade: to take advantage of it and come to their senses, to abandon themselves to a new game and lose themselves in these columns of improvised though not improvised confetti.

The most obvious shock is the sense of gratitude he attaches to everything that takes one's breath away: he does not adapt to any pessimism and builds an ark that lands in these slow processions, where instead of incense he spreads smiles and hugs.

Musically, we witness a limpid fresco in which above all the bass and drums regain the colour they had in the eighties: once the noise is removed, the feeling remains that the two instruments and the two musicians are capable of bewitching even God, playing to overturn Cave's ecosystem, to enchant, while the piano is a gnome jumping on the keys, without breathlessness, with gravity almost rounding the notes.

The gospel, the blues, that hidden melancholic psychedelia make a pact and everything flows, to return to ever virgin listening...  Unsettling, as dangerous as the joy we never consider graspable, this bundle of surprises will struggle to convince those who will have an easy time opposing it, but the Old Scribe is certain: Nick Cave will laugh in delight, because the writing of this work will remain in the wrinkles of his legendary smile...


Song by Song


1 - Song Of The Lake


The sky opens up to end up on the skin of a lake: and it is the ancient spoken word that returns, but appearing on a surface that bounces the light in a delicate tinkle, and what was serious is now a ‘Never Mind’ that stuns. Slow, angelic, sunny, it progresses second by second to the point of vibrating tears of heavenly new food. The song's influence is very subtle, but we are on the American shores of old spirituals waiting to be cuddled...


2 Wild God


It all comes back to basics: the Nick Cave who scoured the dryness of the song form in the nineties reappears, in a minimalist mode that needs only this salty voice, as he returns to his Jubilee Street and grasps the past to seek in a grimace of God his blessing. The whole becomes angelic and convincing. The storytelling is unusual, but it feels like a story we've heard before because of the style, which here receives a little jolt thanks to assonances preferred to rhymes.

In the finale, the dark soul shakes and a certain breathlessness in the singing makes the track one of the most majestic on the entire album.


3 Frogs


Can a surreal delirium be the outpost of change? Of course it can: Frogs is a generator of novelty, a bridge between Cohen (the beloved Leonard) in his grey suit and the visionary creativity of a sonic infarction, because here everything swells in the chest, in the architecture that stuns. The production reveals an ability to keep the tension high, almost as if a suicide foretold was about to come, but in reality it is Cave's foresight in life that plunges us into a story that could have been written by heaven's messengers.

Meanwhile Leonard from heaven applauds, happy...




4 Joy


One trembles because one is unprepared for waking miracles, and Nick digs into the lobby of his grief, a dream that makes him feel a presence strolling far in the sky but not in his heart. A father writing such a song is a handkerchief upon which our souls waver. Incisive, with a voice that is a melting stone, the whole becomes a cloud between timpani, trombones, horns and the feeling that when the bundle of voices arrives everything is a sentence: Cave has chosen to live inside the rainbow, the only place where joy does not die...



5 Final Rescue Attempt 


New thorns, new melodies that seem to have come out of an album that his fans have never particularly loved, manage to make one hear a carousel, a carillon of a suspension that gravitates in hints that are never swampy but thunderous: give space to the thin foil of a keyboard that holds this entry into pain without giving it a chance to win. And it is hypnosis that passes to the piano and lubricates the entire structure, with notes from the low register and yet sunny



6 Conversion


The eagle does not sleep if the sky is cloudy: its victims can hide. And so Nick invents one: he changes the direction of his path to sneak in rhythms full of slow beats, with Warren's keyboard waiting for the howl of his faithful friend, while the drumming comes in and the horn bends the melody for this composition that anticipates a new storm...



7 Cinnamon Horses


Sacred, austere, turbulent in its beginning, and then muted, like a breath of fresh air that has been blessed by contemplation. Devastating, it leads the imagination to surrender. The way Cave plays in anticipation remains a surprise: if you look at the structure of the piece, everything escapes repetition, but you remain glued to those delicate touches in the context of an orchestration that really does come across as a sad angelic blessing. The voice almost trembles but the words do not: they advance confidently as everything expands...



8 Long Dark Night


The closest track to a glorious past assembles the known to a swirl of new entries. First of all, the use of pop in the refrain that can be used as a crossroads: it is up to each one to choose between getting lost or finding the hand of a long dark night, but only in appearance...

Knowing how to visit doubt in the face of great joy belongs to the power of the night. The words, cadenced and well paced, sound like that personal atrium in which each of us can feel a tasty sensation of loss...



9 O Wow (How Wonderful She Is)


The band's devotion to making progression sounds bright is well known. Perhaps this mode a little less so, and it is impressive how we are waiting for a technological miracle: Anita's voice, recorded during a phone conversation, arrives to make our hearts a tomb in turmoil, after Cave's lyrics have impressively prepared the plot twist. And like a novice Jean-Michel Jarre, here the Australian takes almost cold sounds and warms them up with his generosity.

When love enters this track, one feels lucky: nothing dies if memory exists, and indeed Anita relies on this with Cave. And one weeps in the prison of this fantastic muse's laughter.... 



10 As the Waters Cover the Sea


The B-side of the song that opened the album.

Here is the sweet and tender way in which Nick and the band say goodbye, to build the blanket for us to sleep on, with a harmony that rises through the roof to protect this beautifully and sensationally crafted work: the fact that it is a choral form that concludes it is no coincidence…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30 August 2024


mercoledì 21 agosto 2024

La mia Recensione: Jennà Romano e Porfirio Rubirosa - Non mi rompete


 

Jennà Romano e Porfirio Rubirosa - Non Mi Rompete


Una valigia nel viale della fantasia ci porta tra il Lazio, la Campania e il Veneto, in una passeggiata volatile attraverso il meraviglioso incanto onirico di un brano scritto nel 1973 per il terzo album del Banco del Mutuo Soccorso, per quel Io sono nato libero che rivelò una freschezza lirico/musicale di notevole fattura.

Jennà Romano, legato a dei ricordi a cui, da uomo intelligente, ha dato importanza, ha preso questo patrimonio storico e l'ha reso vitaminico e capace di una sonorizzazione pregna di attualità, senza disconoscere il senso del tempo in cui fu scritto. Nel suo esercizio di ringraziamento, l’autore napoletano ha abbracciato il Capo dei Dadaisti per nutrire, in questo combo strambo ma affascinante, la poetica di un episodio che ancora una volta dimostra come la band romana sia stata in grado di far sposare poesia, impegno sociale, confezionando gioielli a misura di sguardo, tra il regime della fantasia dalle scarpe leggere e il soffocamento di un comportamento che non rispetta quella parte dell’esistenza così simile a un rifugio doveroso: senza sonno, senza sogni, la vita si fa debole…

Non un riprendere la canzone, bensì un portarla ai tempi nostri, rinunciando alla maestosa costruzione musicale, preferendo un linguaggio sonoro sottile, ma tenendo le dinamiche presenti a un livello cosciente e capace davvero notevole.

Inizia la sei corde, con Fast Car di Tracy Chapman che sembra sorvolare il tutto per poi consentire alla voce di Romano (un fiume pieno di volontà di buttarsi nella campagna di una giornata umida) e di Rubirosa (un guitto bambinesco che avvolge con tenerezza l’ascoltatore) di rendere sospeso il respiro, come se le parole di Francesco Di Giacomo fossero in grado di rimanere robuste e tenere al contempo nei confronti dell’impianto dei due musicisti, che includono anche una sorprendente armonica a bocca, che pare uscita dal De Gregori degli stessi anni Settanta. Ma poi due splendidi assoli di chitarra ci fanno intendere come un Grazie vero e sincero possa liberare la fantasia, il rispetto e l’intenzione di apporre una firma diversa, con l’autorevolezza che l’artista vero deve sempre avere.

Tutto è avvolto nella lentezza, nell'assaporare la contemplazione e lo sviluppo di idee che attendono fiori e fasci di luce in armoniosa convivenza. Quando poi la velocità muta, rispetto alla versione originale, e anche nel finale, ci si rende conto di come il duo abbia elaborato l’idea di una canzone che come un abito matrimoniale venga indossato una sola volta, ma con tutta la perfezione che merita.

Ecco, dunque, affacciarsi l’alternanza nel canto che conferisce a due registri vocali diversi di vivere lo spazio della magia, di quel “senza tempo” che sospende solo in parte la percezione del mondo contemporaneo. Ma, visto il taglio del testo originale, ci rendiamo conto di come nulla sia capace di mutare quando la favola di una richiesta vibra di paura davanti a un inevitabile rifiuto. L’accoglienza, nello specifico, diventa il momento essenziale anche della elaborazione musicale che, nel caso di Jennà e Porfirio, si configura in un silenzio sussurrato, con l’esplorazione di movimenti che, dal prog accennato in profumo di spazi medievali e barocchi, trova nel finale un senso pop melodico davvero moderno, tributando a questa coppia un posto essenziale: quello dell’applauso riconoscente.

In un ipotetico luogo della nostra mente, l’ascolto vede questa stella cometa virare decisamente verso la magrezza, nel senso che nulla di pomposo, nessun affanno di imitazione ha preso la mano, conferendo, piuttosto, un senso di leggerezza e di rispetto che veicolano commozione pura.

Un atto d’amore che abbraccia la quasi oscenità di un brano che, oltre a essere senza tempo, è anche una spada di Damocle sulla nostra incompiutezza e sul nostro egoismo. Una dimostrazione di forza usando i polpastrelli come china scrivente nel cuore, per legare il passato e il presente in un abbraccio emblematico, possibilitato di una fragranza che scioglie. Nella vicenda che il Vecchio Scriba osa raccontare, vivono anni e anni di studio, una corsa lenta di due bradipi, curatori dello spirito prima ancora del suono, che spesso è solamente una piacevole coda di un tutto non sempre comprensibile.

La canzone è ingannevole, sin dal titolo: sembra il piano sonoro di un urlo, di un atto sgarbato, una invettiva, uno strascico di sofferenza che chiede clemenza.

Invece…

Invece no: è una favola che esce dalla barba di un sogno, di un quasi risveglio, partorito nel terzo anno di una decade rumorosa e sfavillante, generosa nel fare dell’arte l’inizio culturale di sviluppi multipli. Esattamente come il brano, un mappamondo che tasta il polso della verità, con il garbo che si insinua tra le gambe di strumenti progettati per far evolvere la storia, trasportandola nel confine degli incastri solenni, dove la trasformazione di un momento diventa una breve suite in attesa.

Jennà butta via la stupida mentalità della cover e scrive sulla pelle del pezzo del Banco con la sua penna una risposta che pare un sorriso, una stretta di mano, in un tacito accordo tra il reale e il surreale, per seminare una follia radiosa e stellare. Ci si china all’ascolto perché l’arrangiamento dell'artista di Napoli favorisce la coltivazione delle sfumature originali costruendo un muro di note delicate, che paiono respirare per conto loro. 

Porfirio è il mago bambino, la voce e l'armonica a bocca che alita sul tutto con la sua schizofrenia ed energia, senza che sia volenteroso di prendere la scena tutta per sé. Qui nasce la sorpresa, il senso civile di una collaborazione nata da una telefonata di Romano che ha avuto il consenso immediato dell’artista veneto.

Cosa succede all’ascolto? Quali luoghi nuovi ci capita di visitare? Cosa rimane?

Il dolore e la speranza si buttano sulla strada di una musica che regala possibilità di intima riflessione, ci si ritrova sui letti umidi di nuovi mattini con la gioia di un non capire che ci permette di rimanere studiosi attenti.

La natura intima di Jennà e l’effervescenza di Porfirio restano presenti, ma questo episodio rende possibile l’aggregazione di stili diversi, come nelle metodiche così come negli approcci e a vincere è il brano dei Banco del Mutuo Soccorso che ha trovato un ottimo nuovo amico a coccolarlo…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
21 Agosto

Il brano uscirà sulle piattaforme musicali, come il video, Giovedì 22 agosto, nell'anniversario del compleanno di Francesco Di Giacomo.

La mia Recensione: The Cure - Songs Of A Lost World

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