giovedì 29 agosto 2024

La mia Recensione: Nick Cave & The Bad Seeds - Wild God


 

Nick Cave & The Bad Seeds - Wild God


“ Alla luce, anche l’albero desidera il sole.”

(Proverbio italiano)


Ci sono girasoli che volteggiano nel cuore di intenzioni assopite, come stravaganti dannazioni in cui il terminale viene mostrato appena si accende la luce.

Nick Cave lascia il cratere e sale tra le vette di un sentimento non utilizzato da anni: concentrare il lascito del dolore per immergerlo nel volteggio di un sorriso costruito come barriera corallina.

Un terremoto al contrario: dalla cima della conversione piccoli frammenti di lava salgono nel cielo di una determinazione per ossidare quel nero che l’ha sempre definito, che non ha mai nascosto e che ha attraversato il battito di ogni titubanza.

Wild God è una installazione artistica che non cerca consensi, viaggia per confini che non possono essere afferrati: esiste una contaminazione, durante l’ascolto di questi dieci crateri, che inchioda lo stupore, per farci inchinare di fronte a questi cambiamenti stilistici che sono quasi invisibili ma efficaci. Molti aggiornamenti nella scrittura, l’adozione, definitiva, di un’assenza che sembrava causa di disperazione per i suoi fedeli fans: l’uso della chitarra è quasi totalmente sparito, con l’orchestrazione massiccia, ostinata, necessaria, al fine di poter confluire in un abbraccio con gli stilemi della musica classica.

Ed è trionfo di armonia, la melodia si appiccica alla luce della vita, che in queste tracce si scontra con chi vorrebbe l’opposto. 

La morte, la dannazione, l’ansia, la difficoltà, gli spettri, il rumore del precipizio non mancano di certo: sono incolonnati molto abilmente in un respiro accogliente, che concede loro spazi e possibilità di manovra, ma con l’accortezza di non essere preponderanti sul tutto.

Nick visita il territorio perfetto per i Bad Seeds e l’innesto di un membro dei Radiohead indirizza la curiosità verso un sentiero diverso. Erano almeno dieci anni che la band non aveva spazio, che non gettava il cuore nella scrittura. Si dia solo un dato: tantissimi musicisti sono passati dentro il mondo di Cave ma lo stile è sempre rimasto lo stesso, e cioè quello di apostoli disciplinati e liberi.

I testi sono un albero ispirato dalla vita per girare le gambe e cominciare a sondare nuove possibilità: ecco emergere la sua fede nel dono, il bisogno di imparare dai lutti, dagli scontri, di far precipitare l’oblio nell’assenza e catturare un vento spirituale che blocchi ogni negatività. Scende, avanza nella natura, si scosta da se stesso senza perdere il suo stile, e affonda in un attacco mai verboso, con parole cariche di una semplicità mai noiosa, sapendo ancora toccare il vento di ogni battito. Una serie di frasi che stordiscono, mai precipitose, sempre bilanciate e messe in naftalina, come metodo per provarne la resistenza. 

Nove musicisti, dieci canzoni, un faro, una voce, cori femminili, la matita che diventa una macchia azzurra e che va a baciare la morte. Toccante la dedica ai figli finiti a camminare tra le nuvole, come il suo grazie all’antica musa Anita Lane, insegnando ancora una volta il rispetto nei confronti della memoria e il voler imparare dall’esperienza. Visita la saggezza, la misura, le dà la possibilità di non separarsi dalla sua antica indole furibonda, ma camuffa i toni con composizioni in cui nella lentezza i fulmini appaiono come sempre famelici…

L’ironia che lo ha reso accostabile a Morrissey, almeno per il Vecchio Scriba, si presenta ancora in un paio di versi che paiono essere stati scritti dal bardo di Stretford: ecco, Cave ha costantemente posseduto un vocabolario interiore, ma non ha mai rinunciato ad avere gli occhi degli indiani capaci di scrutare profondamente, per nutrire la sua anima ulteriormente. I cori, l’assenza di assoli, la coesione della band, la volontà della produzione di far apparire il disco come un dettato di filosofia seduce e riesce nell’intento, in quanto la dinamicità del tutto sembra essere attraversata da un’euforia educata e gentile.

Magnetica l’intenzione, complessa la modalità, tuttavia alla fine l’artista australiano mette il bavaglio a ciò che pareva spegnere la sua attività, per sospendere l’approccio oliato ma forse un po’ logoro. Questo album è una nascita, una conversione gioiosa verso la sperimentazione che non è quella degli ultimi suoi tre lavori, grandiosi (mai pensato il contrario) ma che soffrivano di una forma limitata di espansione sensoriale e visiva. Qui, invece, siamo sul podio di un tremore che è violento, se lo si lega a questo cantante, perché potrebbe negare al suo passato l’accesso alla disperazione, a una frustrazione che forse lo aveva limitato. 

Ci sono guitti, ci sono carezze, c’è il caos del blues, esistono momenti nei quali il silenzio costituisce la sua nota nativa, la chiave di violino del suo nuovo sistema operativo per lacrime che nascono e si nutrono di una sensibilità fuori dal comune.

La sua voce viene passata al setaccio: liquida, densa, piena di bagliori notturni che si spostano per ossigenare la sua mente, una lunga attesa, un equinozio, un brindisi in un bicchiere che non può macchiare la sua essenza. Canta come un angelo che ha appena terminato una sessione di analisi: graffiante ma pacifico, in attesa di una concessione divina che giunge attraverso queste musiche che sembrano dipinti scavati nella roccia e in cui il suo canto si immerge.

Come gli capita raramente, scrive senza fretta, e concede spazio a cori e controcanti come mai prima: qualcosa del passato pare essere finito tra questi solchi, come se le Murder Ballads fossero andate a rinfrescarsi nell’acqua di Lourdes: nessuna canzone presente nell’album è immune da un confronto, si percepisce che qualcosa di antico compare sempre, ma è la direzione a essere cambiata, e questo basta per farci ascoltare questo terremoto al contrario e uscirne purificati, preoccupati quasi, perché non siamo abituati al fatto che l’uomo con la ruga nell’anima apra una corsia dove la luce vince, stravince e ci mette al tappeto.

Senza dubbi forse un artista non è credibile, lui più di altri, ma questa è la scommessa di chi ascolterà questa cascata: approfittarne e rinsavire, abbandonarsi a un gioco nuovo e perdersi in queste colonne di coriandoli improvvisi sebbene non improvvisati.

Lo shock più evidente è il senso di riconoscenza che lui attribuisce a tutto ciò che toglie il respiro: non si adegua a un eventuale pessimismo e costruisce un’arca che approda in queste lente processioni, dove al posto dell’incenso lui spande sorrisi e abbracci.

Musicalmente assistiamo a un limpido affresco in cui soprattutto il basso e la batteria riprendono il colore che avevano negli anni Ottanta: tolto il rumore rimane la sensazione che i due strumenti e i due musicisti siano in grado di stregare pure Dio, giocando a ribaltare l’ecosistema di Cave, per incantare, mentre il pianoforte è uno gnomo che salta sui tasti, senza affanno, con la gravità che quasi in modo rotondo circonda le note.

Il gospel, il blues, quella malinconica psichedelia nascosta stipulano un patto e tutto scorre, per tornare in un ascolto sempre vergine…


Spiazzante, pericolosa come la gioia che mai consideriamo afferrabile, questa fascina di sorprese faticherà a convincere chi avrà gioco facile nell’opposizione, ma il Vecchio Scriba ne è certo: Nick Cave riderà di gusto, perché la scrittura di questa opera rimarrà nelle rughe del suo leggendario sorriso… 


Song by Song


1 - Song Of The Lake


Il cielo si apre per finire sulla pelle di un lago: ed è l’antico spoken word che torna, ma affacciandosi su una superficie che fa rimbalzare la luce in un tintinnio delicato, e ciò che era grave ora è un “Never Mind” che stordisce. Lenta, angelica, solare, avanza secondo dopo secondo sino a far vibrare le lacrime di un celestiale nuovo cibo. L’influenza della canzone è molto sottile, ma siamo sulle sponde americane di vecchi spiritual in attesa di essere coccolati…


2 Wild God


Tutto torna alla base: il Nick Cave che ha perlustrato negli anni Novanta la secchezza della forma canzone si ripresenta, in una modalità minimalista che abbisogna solamente di questa voce salata, mentre torna nella sua Jubilee Street e afferra il passato per cercare in una smorfia di Dio la sua benedizione. L’insieme si fa angelico e convincente. Lo story telling è inusuale, ma sembra una storia già sentita per via dello stile che qui riceve una piccola scossa grazie ad assonanze preferite alle rime.

Nel finale l’anima scura scuote e un certo affanno, nel cantato, rende il brano uno dei più maestosi dell’intero album.


3 Frogs


Può un delirio surreale essere l’avamposto di un cambiamento? Certo che sì: Frogs è un generatore di novità, un ponte tra Cohen (l’adorato Leonard) nel suo abito grigio e la visionaria creatività di un infarto sonoro, perché qui tutto si ingrossa nel petto, nell’architettura che stordisce. La produzione rivela l’abilità di mantenere alta la tensione, quasi come se un suicidio annunciato stesse per arrivare, ma in realtà è la lungimiranza nella vita da parte di Cave a farci sprofondare in una storia che potrebbe essere stata scritta dai messageri del cielo.

Intanto Leonard dal cielo applaude, felice…




4 Joy


Si trema perché si è impreparati ad accogliere i miracoli al risveglio e Nick scava nell’atrio del suo lutto, un sogno che gli fa sentire una presenza che passeggia lontano nel cielo ma non nel suo cuore. Un padre che scrive una canzone del genere è un fazzoletto su cui le nostre anime vacillano. Incisivo, con la voce che è una pietra che si scioglie, il tutto diventa una nuvola tra timpani, tromboni, corni e la sensazione che quando arriva il fascio di voci tutto sia una sentenza: Cave ha scelto di vivere dentro l’arcobaleno, l’unico luogo dove la gioia non muore…



5 Final Rescue Attempt 


Nuove spine, nuove melodie che sembrano uscite da un album che i suoi fans non hanno mai particolarmente amato, riescono a far sentire un carosello, un carillon di una sospensione che gravita in accenni mai paludosi ma fragorosi: si dia spazio alla sottile lamina di una tastiera che regge questo ingresso nel dolore senza dargli la possibilità di vincere. Ed è ipnosi che passa al pianoforte e lubrifica l’intera struttura, con note dal registro basso e tuttavia solari…



6 Conversion


L’aquila non dorme se il cielo è nuvoloso: le sue vittime possono nascondersi. E allora Nick se ne inventa uno: cambia la direzione del suo percorso per intrufolarsi in ritmi pieni di battiti lenti, con la tastiera di Warren che aspetta l’ululato del fedele amico, mentre il drumming si affaccia e il corno piega la melodia per questa composizione che anticipa una nuova tempesta…



7 Cinnamon Horses


Sacra, austera, turbolenta nel suo principiare, e poi muta, come una boccata di aria fresca che è stata benedetta dalla contemplazione. Devastante, conduce l’immaginazione alla resa. Il modo in cui Cave gioca in anticipo rimane una sorpresa: se si osserva la struttura del brano tutto sfugge alla ripetizione, ma si rimane incollati a quei tocchi delicati nel contesto di un’orchestrazione che davvero si presenta come una triste benedizione angelica. La voce quasi trema ma le parole no: avanzano sicure mentre tutto si dilata…



8 Long Dark Night


Il brano più vicino a un passato glorioso assembla il conosciuto a un vortice di nuovi ingressi. Primo fra tutti l’utilizzo di un fare pop nel ritornello che può essere utilizzato come un crocevia: a ognuno la scelta tra perdersi o trovare la mano di una lunga notte scura, ma solo in apparenza…

Saper visitare il dubbio innanzi a una grande gioia appartiene al potere della notte. Le parole, cadenzate e ben scandite, sembrano proprio quell’atrio personale in cui ognuno di noi può sentire una gustosa sensazione di perdita…



9 O Wow O Wow (How Wonderful She Is)


La devozione della band a rendere luminosi i suoni in progressione è arcinota. Forse questa modalità un po’ meno ed è impressionante come si stia in attesa di un miracolo tecnologico: la voce di Anita, registrata durante una conversazione telefonica, arriva a fare del nostro cuore un sepolcro in tumulto, dopo che il testo di Cave ha preparato il colpo di scena in modo impressionante. E come un novello Jean-Michel Jarre, ecco che l’australiano si invaghisce di suoni quasi freddi per scaldarli con la sua generosità.

Quando l’amore entra in questo brano ci si sente fortunati: niente muore se esiste la memoria e infatti Anita si affida proprio a questo con Cave. E si piange nella prigione della risata di questa fantastica musa… 




10 As the Waters Cover the Sea


Il lato B della canzone che ha aperto l’album.

Ecco la dolce e tenera modalità con la quale Nick e la band si congedano, per costruire la coperta adatta a farci dormire, con un’armonia che sale nel tetto, al fine di proteggere questo lavoro di ottima e sensazionale fattura: il fatto che sia una forma corale a concluderlo non è un caso…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
30 Agosto 2024

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