Clone - CL.1
Ecco Brooklyn, viva e vegeta, ancora pulsante, vogliosa di cambiare il mondo, di esprimere le proprie necessità artistiche e culturali: è sempre benvoluta.
Assistiamo all’album di debutto della formazione denominata Clone e l’abbracciamo, vista la qualità che emerge da queste dieci composizioni, così vibranti, ferrigne, muscolari, con una poderosa determinazione a unire il rock al post-punk, senza far mancare la riflessione che i testi sanno porgere, come un dolce pugno nello stomaco. Il quartetto prevede due tastiere, due chitarre, un basso e la batteria.
Il cantante, LG Galleon, suona la chitarra e la tastiera, come Dominic Turi, per un lavoro che nella sua globalità vive di grandi vicinanze con la carriera dei Sonic Youth degli anni Novanta, e l’intenzione di elaborare brani che sappiano mantenere alta la concentrazione e l’attenzione. Chitarre potenti, il cantato ribelle, un batterista che conosce la modalità per trasportarci in danze scomposte, oblique, dove il basso esprime la magia della precisione e di connessioni con generi meno “visibili”, ma che caratterizzano la poliedricità dell’intero ensemble americano.
La vita degli individui qui viene messa sotto pressione, analizzata e criticata, con una spinta continua volta a individuare risposte e offrire energie sufficienti per un cambiamento, sempre in un emisfero urbano in cui è più semplice individuare le negatività. Un amalgama perfetto, irritante nell’accezione positiva, in quanto la band sa come stimolare reazioni, offrendo un servizio enorme.
La ricerca melodica, presente, affianca la ritmicità e il dato rilevante è costituito dall’assenza di una canzone che sovrasti le altre: un’incredibile continuità che lo fa apparire quasi come un concept album.
Un fascio evidente di spontaneità compare unendosi a una progettualità altrettanto palese: l’impressione è quella di lunghe ore nella sala prove a scaldare il cuore di ogni istinto e imparare a governarlo dandogli un compito, per un'assimilazione finale che sconcerta piacevolmente. Sembra di vedere scomparire la modernità e di tornare ai sogni, alla rabbia, all’istinto rapace di una gioventù non intenzionata a oziare, bensì a scaldare i propri motori e a instillare una benzina anfetaminica negli strumenti.
Insides è l’esempio lampante, la miccia che prende fuoco e che lascia la pelle come incatramata, in una corsa interiore più che fisica, come un richiamo tribale che entra nelle strade di New York, per irritare e spaventare.
Dividing Line è un clamoroso esempio di atleticità mentale, una meteora che ossida i nervi attraverso la sua struttura psichedelica all’insegna di un ritmo che galvanizza con inserti di chitarra potenti.
Dazzle è la gemma nevrotica che espande le proprie tossine in un sodalizio immaginario con i Sonic Youth ancora dotati della volontà di graffiare il mondo.
Con il brano finale Resurrection si assiste a un congedo che dimostra tutto il lavoro di elaborazione degli impeti, orchestrati per generare un caos inevitabile, in cui il cantato diventa un martello pneumatico con il suo “come back”, accerchiato da chitarre assetate di tristezza.
Ma, se potete e volete, soffermatevi sulla stella alpina di Redeemer, l’episodio in cui tutto sembra camuffare gli episodi precedenti per poi invece rappresentarli al meglio quando la batteria inizia a picchiare e il cantato sembra essere un urlo educato con il compito di rappresentare la sofferenza, non mancando tuttavia di visitare il sogno. Un momento strepitoso che sicuramente porterà alla vostra memoria l’epopea alternative rock americana degli interi anni Novanta.
Un album micidiale, essenziale e coinvolgente che sarebbe bene sollecitasse le menti spente e arrese…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
20 Giugno 2024