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lunedì 24 aprile 2023

La mia Recensione: Art Decade - Urban Line

 Art Decade - Urban Line


Francia, 1991: per una volta possiamo celebrare una ristampa che può permettere a molti di mostrare l’incanto della formazione di Lione. Il trio aveva stabilito la possibilità di sorvolare il conosciuto, di portarci nella zona immensa di novità affamate e di non escludere a priori ciò che si conosceva già. Una valanga di giochi dalla meccanica precisa per allargare il proprio genio verso nuove formazioni che avevano intuito, a quel tempo, quanta ricchezza fosse depositata in questo fulmine dal colore mutante. Toni cupi, elastici di seta dentro chitarre che molto debbono ai Cure, ma nell’insieme sono altre le suggestioni possibili. Gravitano, nelle canzoni, esigenze di esplorazioni che si rendono bene evidenti: si fluttua, non esistono divagazioni, ma solo immense qualità che offrono il loro volto. Dal Post-Punk, al Progressive più misterioso e quasi nascosto, dalla Darkwave evidentemente bisognosa di contaminazione e non di purezza, tutto si dà appuntamento in questo miscelatore perennemente acceso, per consentire a questi marchingegni strepitosamente folli di emergere per generare il nostro delirio soddisfatto: si è amati da questo album, chiudete a chiave la giornata e abbandonatevi al suo circolo venereo…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

24 Aprile 2023


https://artdecade69.bandcamp.com/album/urban-line




MY review: Art Decade - Urban Line

 Art Decade - Urban Line


France, 1991: for once we can celebrate a reissue that may allow many to see the enchantment of the Lyon line-up. The trio had established the possibility of flying over the known, of taking us into the immense zone of hungry novelties and not excluding a priori what we already knew. An avalanche of games with precise mechanics to broaden their genius towards new formations that had guessed, at that time, how much wealth was deposited in this lightning bolt of mutant colour. Dark, silky tones inside guitars that owe much to the Cure, but on the whole other suggestions are possible. There is a need for exploration in the songs, which is clearly evident: they fluctuate, there are no digressions, only immense qualities offering their face. From Post-Punk, to the most mysterious and almost hidden Progressive, from Darkwave evidently in need of contamination and not purity, everything comes together in this perennially switched-on mixer, to allow these amazingly insane contraptions to emerge to generate our satisfied delirium: you are loved by this album, lock up your day and abandon yourself to its venereal circle...


Alex Dematteis

Musicshockworld

Supino

24th April 2023


https://artdecade69.bandcamp.com/album/urban-line




venerdì 13 maggio 2022

La mia Recensione: Area - International POPular Group / Crac!

 La mia Recensione:

Area - Crac!


I veri monumenti dovrebbero avere pianta stabile nella nostra mente, quotidianamente, come presenza tangibile di un’importanza riconosciuta.

Da dove partiamo?

Direi da Gianni Sassi, un monte, un’anima densa di impegni e qualità che ha continuato a smuovere le coscienze impegnandosi a tutto tondo, comprendendo anche la creazione della rivista d’arte ED912 e la casa discografica CRAMPS, insieme a Sergio Albergoni e Franco Mamone. 

Dopo aver ideato fantastiche copertine per album divenuti importanti e rilevanti, Gianni con la sua etichetta ha dato modo a diverse band di portare avanti un discorso di qualità a 360 gradi.

Gli Area ne sono l’esempio più fulgido.

La loro è stata una militanza politica che ha difeso pensieri, attitudini, ha modificato il significato di libertà in modo nobilissimo e attraverso la musica ha fatto del rock un insieme di luoghi, immagini e sostanza che ha stimolato un collettivo di notevole spessore. 

Sono qui per parlarvi del loro terzo album, Crac!, un Levitico moderno, potente e velenoso per chi fa del disimpegno un’attitudine di vita.

Ascoltare questo disco è sconsigliato per questo tipo di persone: davanti a pagine di storia che rappresentano la coscienza, per loro credo sia conveniente starne lontano.

L’abilità tecnica, ineccepibile, è funzionale a visitare l’ignoto con progressioni, stacchi, rallentamenti e accelerazioni sempre con la necessità di messaggi da approfondire. 

Il Jazz qui è un pulsare continuo che sa attendere il suo momento in quanto l’avanguardia e il progressive sono tuoni che vogliono illuminare il cielo. Le progressioni strumentali sono le voci di anime a testa bassa che vogliono alzarla, in un percorso evolutivo perfettamente raggiunto: non più generi mischiati, bensì l’evoluzione ascensionale di coinvolgimenti che sono stati educati.

 Il motivo?

Vi era la necessità che tutto fosse evidente, specificato, perché non diventasse solo catarsi, ma soprattutto indagine sonora e lirica per un tutto che non manifestasse solamente un puzzle concluso, quanto piuttosto un unico insieme di bellezza e coscienza dalla lampadina accesa.

Crudo, impegnativo, necessario, rappresentativo, questo insieme di suoni rarefatti e potenti va ascoltato avendo presente cosa accadeva in quei tempi, la progressione di eventi che determinavano posizioni. Non è musica: è vita che cerca la manifestazione di una legittima volontà, avendo al suo interno il desiderio di toccare i diritti di farlo e non sentirsi in colpa. Si muove molto bene questo insieme di brani, rapidamente, con tonnellate di piombo per via dei testi di Gianni Sassi: Demetrio Stratos ha compiuto una impresa colossale, unica, devastante, con un cantato assolutamente inimitabile. 

Fatto di estremi, come una perversità che non prevede cambiamenti di rotta, questo fascio artistico è un atto unico che va oltre la bellezza: vi saranno sempre individui che diranno che non è il loro capolavoro, che è meno suggestivo eccetera, ma sono chiacchiere da Bar, non in grado sicuramente di coglierne la magnificenza. Innovativo, consequenziale al loro percorso ma con la qualità di aver appreso anche da altre culture e album, Crac! è in grado di ipnotizzare e condurre l’ascoltatore ad assentarsi davanti al gusto e a scelte determinate negli anni.

Qui esiste la rivoluzione della rivoluzione, voluta e programmata, dove il consenso diviene un elemento sterile.

Ciò che è espresso desidera uno studio e non una valutazione: è il principio di nuove identità nascenti. Non esiste un caos che produca crescita se prima non è assistito dalla curiosità e in questo manicomio di bellezza ne troviamo quintali. La follia sta nell’intento, nella programmazione e nella sua esecuzione, che insieme devastano e certificano una elevatissima distinzione tra la bravura e il compimento di qualcosa di inafferrabile e sconvolgente. Si può ancora godere di qualcosa che appartiene (per stupidità, che conviene sempre esibire…) al tempo passato, ad una decade ormai lontana dalla nostra osservazione? Se fossimo abituati alla ragionevolezza non ci porremo questa domanda. Crac! è una bilancia che soppesa l’utile fastidioso con l’inutile che tiene l’impegno in una cassaforte blindata.

Sentirsi inadeguati all’ascolto di questo album è chiaramente come essere una rosa pronta a schiudersi: è solo una questione di tempo perché poi l’incanto diverrà sequestro, puro e sublime. Chi passava ore a sentire questo disco in quel periodo sapeva che farlo facilmente era l’ultima delle preoccupazioni: vi era un grembo mentale pronto ad essere fecondato, senza paura.

L’attualità di quel tempo era crudele e andava esaminata: per i testi ci ha pensato Sassi con gli scandali disgustosi della Democrazia Cristiana, il franare del buon senso, la tensione che l’aria voleva polverizzare, il terrorismo che divideva l’ideologia con azioni determinate e cruente, in una Via Crucis dalle tappe infinite.

Per quanto concerne la musica: libera di essere vincolata da temi così densi, ha spiccato il volo verso l’abbondanza, nutrendosi di una capacità innegabile di fare il giro del mondo tra generi e intuizioni massicce, come il muschio che si affianca ad una spugna senza confini. 

Pregno di genialità, colpi di fulmine, propensioni senza catena, tutto diventa non digeribile se lo stomaco è abituato all’acqua, che non appesantisce troppo. Sono canzoni come pranzi lunghi e impegnativi, senza dieta, ma con tutti quegli ingredienti che sembrano eccessi, smisurati ma essenziali.

L’analisi del tempo, distinta e messa a fuoco, non può mai essere sinonimo di disimpegno e leggerezza: le orecchie della nostra coscienza in quei momenti si ingrossano, studiano, conoscendo anche la stanchezza facendo ciò. 

Erano tempi duri per alcuni Paesi (Portogallo su tutti) e il ritiro delle truppe Americane nel Vietnam dava al Comunismo mondiale una forza diversa, attesa e voluta. C’era anche bisogno del giusto linguaggio artistico per continuare un discorso che fosse mondiale e l’ascolto di questo gioiello ne dà una misura precisa. Testi diretti e metaforici si univano alla musica che sapeva fare altrettanto. Si doveva guardare avanti nel tremolio di pensieri ancora balbettanti che cercavano posizione e stabilità. Un disco che contesta, motiva, eccelle per un minor tono buio rispetto ai primi due, ma con in dote una maggior consapevolezza ed una metodica diretta, che frantuma e offre nuovi elementi per un confronto/scontro più che mai necessario. Si avverte la propensione al dialogo, che nasce da un’improvvisazione capace di stimolare il litigio sonoro che non si conforma ma induce a un allargamento verso lo scintillio magnetico di talenti. Essi esercitano continuamente la loro influenza: tutto ciò non aveva mai raggiunto questi livelli, perché nei due album che precedettero questo vi erano chiaramente altre necessità. Come corsari senza benda sugli occhi, gli Area ci tolgono il gusto di essere anime apatiche con esercizi culturali da capogiro, insostenibili ora più di allora, vista la nostra totale propensione alla comodità. Note, progressioni, diversificazioni, deliri di ogni tipo si danno appuntamento tra questi solchi che, come estasi crescente, ci restituiscono un piano intellettivo ragionevole e che arriva in zona Cesarini con le menti in stato soporifero. La crescita verticale ottenuta e dimostrata con queste sette composizioni stupisce per precisione e ampiezza, mettendo a dura prova la capacità di accoglienza: in tempi in cui il nomadismo era tenuto lontano dal fare politico chiuso e ottuso, ascoltare Crac! significa, perlomeno, sentirsi profughi e sconnessi. 

Ora il fiato e i battiti si mettono di fronte. Le pistole della verità stanno per sparare sette proiettili e, se siete pronti, andiamo a guardarli da vicino, per morire in pace…



Canzone per Canzone 


L’album della militanza più evidente che mai incomincia con la corsa di un ragazzo che viene invitato a guardare avanti. Vertigini ritmiche, richiami sonori alle zone dove Demetrio Stratos è nato (Egitto) per poi andare oltre fanno de L’ELEFANTE BIANCO un esempio di connubi multipli. in modo da poter poter esercitare il potere dell’idea che trova radice solo se avanza. I musici sono Benedetti dallo stato di Grazia con un mantra che genera ampi respiri sulla strada del ritmo. E la voce stabilisce la certezza che il migliore cantante italiano di sempre sappia cantare le parole scritte da Gianni Sassi provocando ulteriori brividi.

La puntina avanza e ci fa sobbalzare: la natura di LA MELA DI ODESSA, resa strepitosa dal contrabbasso di Ares Tavolazzi, vive di momenti, tutti estasianti, sin dalla sua introduzione. Si avverte la sensazione di un viaggio alla ricerca di contaminazioni continue. Con ritmiche lontane dai 4/4 della batteria, Giulio Capiozzo dimostra di essere fantasioso e tecnicamente eccelso, trascinando Patrizio Fariselli in scorribande con la sua tastiera verso paradisi collinari per sconfiggere “il mondo che era ancora piatto”.

Non hai nemmeno il tempo di assimilare che i ragazzi sfoderano l’asso nella manica che riesce a mostrare il lato psichedelico californiano e un progressive alieno, per fattura tecnica e sperimentale: giunge MEGALOPOLI a complicare le cose e quindi a renderle perfette. Demetrio gioca con le ottave, la chitarra di Paolo Tofani duella tra la sabbia con Fariselli: sono rimandi, echi, riflessi eleganti per coinvolgere Tavolazzi a fare del Jazz il tifoso del rock con idee fresche e rigeneranti. Suite che incanta, determina cosa significhi essere dei fuoriclasse in un’Italia pigra nel conferire loro la patente della Bellezza.

Stiamo attenti ora, per il prossimo capitolo: gli Area prendono i Doors, li semplificano e poi dimostrano loro come connettere il pianoforte e il sintetizzatore per esplorare mantra ed evoluzioni anti-cliché, allontanandoli poi del tutto.

Questa è NERVI SCOPERTI, la giostra elettrica che sconvolge per la latitudine della sua radice, sirena che allinea i talenti in assoli e giochi sottili a migliorare le intenzioni di colleghi illustri, semplicemente devastante.

Il collettivo, la propensione e la volontà di connettere il testo alla musica genera un’apoteosi plurigemellare per un incantevole esercizio di contrazione pelvica: GIOIA E RIVOLUZIONE fa tanto male alla testa, spiazza ma rinvigorisce, una spinta ideologica che trova il modo di trasferirsi in una musica quasi giocosa. Tutte le dita combattono, c’è qualcosa da capire e da far capire e tutti si dannano. Sentiamo una coralità sonora che comprende pure una chitarra ritmica semiacustica per dare alla canzone la sensazione che bisogna coinvolgere tutti, in modi diversi, la band desidera sparare, nella strada dove l’amore attende. Stupefacente, quasi goliardica, tribale ma sorridente, lancia semi pop in modo da poter essere compresa meglio data l’urgenza del tema di cui è composto il testo.

Il genio di Tofani crea con il suo sintetizzatore una grandiosa introduzione per la successiva IMPLOSION, viaggio robotico, lunare, con oscillazioni del suono degne dell’avanguardia tedesca. Il delirio si fa concreto, come un pugno lisergico che accarezza gli Stati Uniti ma poi li lascia, come dispetto necessario. Il basso di Ares è uno stregone occidentale, bianco, dalle dita mosse da un impeto incontenibile e che consente al brano di essere l’esempio di una improvvisazione senza briglie e dove il drumming di Capiozzo è uno sciopero poderoso contro la tecnica maldestra di molti addetti alle pelli e ai piatti: lui dimostra cosa sia l’applicazione e il talento. Demetrio sciopera a sua volta con la voce, ma le sue dita sull’organo sembrano la continuazione delle sue corde vocali. Una sola parola per definire tutto ciò che accade in questa composizione: capolavoro!

Il vinile trema: sa già che ora ci spaventeremo, saremo inondati da una nuova scossa.

AREA 5 è la corsa di gatti e topi, di nemici che improvvisano strategie e tra la scorribanda di dita sul pianoforte e il magnetico lavoro di Demetrio alla voce, tutto diviene schizoide e inquieto, come un horror che tenta di essere portatore di allegria. Tutto proviene da Juan Hidalgo e Walter Marchetti (studiate e meditate gente, parafrasando Renzo Arbore e la sua birra) e la sensazione che rimane sulla pelle è quella di una paura incompresa, perché queste note in ogni caso seducono e trasportano dentro i labirinti di un gioco che sembra provenire da una captazione. Modo divino per concludere l’esperienza di un match culturale stravinto dalla band: e c’è ancora molto da imparare…


Musicisti intriganti, impazziti, generatori di corrente, cavalieri del suono, pittori dalle tele enormi, con un cantante che sa usare la voce con le sue diplofonie, trifonie e quadrifonie, e altro ancora, nel gioco infinito di tentacoli spiazzanti per forza e precisione. Gli strumenti usati come armi, con la faccia da fioretto, spesso sorridente, ma poi nel loro arsenale si trova una notevole serie di macchine da guerra. Non si sta sereni un attimo e tutto questo coinvolge così tanto che, parafrasando Franco Battiato, possiamo affermare “ed è bellissimo perdersi dentro questo incantesimo”. 

Mi fermo con la consapevolezza che è stato contemplato un solo granello di sabbia del loro Sahara, e nemmeno tanto bene, però posso avere la certezza che sia finita la lezione. Domani, ne sono certo, i Maestri Area torneranno dietro la cattedra e io sarò un pò più felice, perché maggiormente vicino a questo album che non ha una sola ruga che sia una…


Alex Dematteis 

Musicshockworld 

Salford 

13 Maggio 2022


Area - International POPular Group / Crac!

15 giugno 1975



  • Electric Bass, Acoustic Bass, Trombone – Ares Tavolazzi
  • Electric Guitar, Synthesizer [E.M.S.], Flute – Giampaolo Tofani
  • Electric Piano, Piano, Bass Clarinet, Percussion, Synthesizer [A.R.P.] – Patrizio Fariselli
  • Percussion, Drums [Slingerland] – Giulio Capiozzo
  • Voice, Organ, Harpsichord, Steel Drums, Percussion – Demetrio Stratos






domenica 8 maggio 2022

La mia Recensione: Banco del Mutuo Soccorso - Banco del Mutuo Soccorso

 La mia Recensione 


Banco del Mutuo Soccorso


Roma l’Antica, la Madre, La Culla, la Sapiente, la Spavalda, la Strega, l’Egocentrica Dominatrice.

Visse e conquistò, conobbe la tristezza nella sua favola sanguigna per poi, inevitabilmente, scomparire un poco dal centro del mondo. Ma continuò a vivere.

Fu il fermento di anni fulgidi, di lividi, di cavalli che tornavano a correre tra le sue strade, di anime con fame e sete di coscienza in fase di aggiornamento a far sì che tornò soprattutto ad essere la madre risorta in quella Cultura che sembrava sfinita, in punto di morte.

Erano gli anni 60, la brina e la brillantina di giovani anime che incominciavano a creare un precedente: compattarsi, discutere, confrontarsi e scontrarsi, ma decisi a non lasciare agli adulti il tutto. Era stata determinata una serie di prese di posizioni.

E nel cuore della Divina Lupa nacque il Banco del Mutuo Soccorso, la band corsara, con il polso fermo, occhi dilatati a creare cerchi e a fare dei dubbi un generoso punto di partenza.

Arrivarono e sconquassarono la noia, le incapacità, la mediocre modestia qualitativa di anime dormienti e dettero impulsi nuovi, dirompenti, efficaci.

Usarono la forza dell’inventiva, della creatività, del trasporto emozionale e del pensiero per dare un calcio ai limiti. Non erano soli: nel mondo e in Italia questo fermento vibrante stava contagiando, senza far correre il rischio della morte bensì il suo esatto contrario, perché c’era un numero crescente di anime desiderose di veder esplorare e di esplorare anch’esse territori diversi.

La Musica come sommatoria di Arti e di studi, di fluidi in cerca di canali mentali con approcci diversi.

Il Banco fu un clamore così capace di stupire che fece crescere la convinzione che non fossero i miracoli, le belle canzoni, i begli album a dare un po’ di sollievo, ma piuttosto un impegno che si specificava nella sonda, nell’antenna, nella libertà di unire il tempo e la coscienza in un fluire di intuizioni, esercitazioni, di luoghi mentali e fisici da scoprire e da mostrare al mondo. La band Romana ha reso la musica una lente di ingrandimento, un manuale che esplicitava, espandeva e non un Bignami, una veloce e inutile sintesi: era giunto il tempo di ampliare i mezzi coscienti, per farli abbracciare con progetti dalla architettura complessa.

L’Italia dei primi anni 70 era bellissima, con i suoi giovani dai mille entusiasmi, le loro lotte, i loro campi da seminare e coltivare dentro delle menti lucide e capaci di accoglienza. La band aveva ottenuto l’interesse, il supporto di persone che studiavano i movimenti barocchi di musiche che cercavano quella nuova forma creativa di provenienza Inglese: il Progressive.

Un matrimonio di saggezze varie più che un incrocio di stili musicali. La forma canzone, la prevedibilità, la fatica di quel ripetere un cliché ormai privo di grandi tensioni venne evitato per creare una proposta di classe, di gran classe, estremizzando ma senza per questo diventare futile. Anzi.

La ricchezza di quei voli entrò nella modalità di brani e di album dalla faccia tonda, ricca, gonfia di tesori pieni di senso, che arricchivano l’ascolto.

Venne il tempo di esordire, di lasciare all’eternità l’uso della propria creatività e il giudizio. Furono sei damigelle dagli abiti pieni di fiori, fango, con le loro storie trasversali, con le lenti pulite di un cannocchiale nuovo di zecca, a consegnare ufficialmente all’Italia una risorsa senza briglie.

Ancora oggi non esiste modo di sintetizzare l’abbondanza, di ridurre i ragionamenti, di poter fermare i sogni davanti a questo primo album che sempre insegna, getta sconforto e al contempo regala sorrisi rassicuranti.

Sei uomini per sei damigelle: universi e contorni a trovare contatto, suites a scoprire l’intensità e la validità di movimenti che si allontanavano dall’inizio del brano per consegnarci il cielo.

Un esempio di come la complessità abbisogna di un approccio lento, di un ascolto con gli occhi sopra la storia del mondo, di immagini che sembrano annebbiate ma che invece mostrano che la vera confusione era l’essere divenuti dei bambocci davanti alla banalità, che è il lato scomodo e fuorviante della semplicità.

Cavalcate e galoppate con sulla schiena personaggi affannati ma liberi, note e suoni a frantumare una fragile solidità che si era fatta pesante e priva di senso. I sei creano storie, linguaggi, messaggi da dover assorbire con respiri diversi in un caleidoscopio non del tutto prevedibile. Sono fiamme, scosse elettriche, tasti, rulli di tuoni, voci che tutte insieme offrono al sangue una linfa nuova, sconvolgente.

Il Progressive non andrebbe definito, il suo stile estetico non vuole parole che devino dalla sua essenza. Si allarga e fugge dai perimetri, dalle forme geometriche, dalle sentenze. Mostra il fianco alla critica ma avanza, contro tutti e a volte anche contro se stesso.

Questo album presenta cambi di ritmo, sezioni varie dentro gli stessi brani ma ciò che è importante è capirlo, non definirlo. E ancora oggi c’è da intendere cosa abbia dato origine a questa carrellata di gioielli senza tempo. Si evidenziano elementi metaforici, l’uso della fantasia come elettrodo, regalando scintille e punti di contatto tra situazioni spesso molto distanti tra loro. Tutto questo conduce alla presenza di elementi criptici che rendono complesso l’intendimento, ma senza per questo motivo annoiare o rendere impossibile il beneficio.

Questa è una musica che parte dalla testa per posizionarsi nel cielo, una musica che diviene fisica come conseguenza ma che non desidera rimanere terrena. Il disco contiene manciate di follia, riflessi di esagerazioni che trovano nello sviluppo un respiro che si gonfia di consapevolezze potenti.

Ascoltarlo è mettere la mente davanti ad uno scompiglio necessario: malgrado una produzione non eccelsa, questo diventa un pregio perché ci lascia il profumo degli anni 70, di una generazione che sapeva creare una serie di bing-bang intellettuali che il tempo non ha sconfitto, non ancora.

Lo studio, la versatilità, l’intenzione di una sperimentazione sensata diede a questo lavoro modo di conoscere mondi bisognosi di espressioni e ascolti. Una danza nella quale le sei damigelle hanno giocato a mosca cieca, a nascondino, a rubare il fazzoletto per far compiere all’album voli in assenza di gravità. Determinante, rilevante, curò le ferite e diede spazio alla bellezza, creò uno specchio fedele delle difficoltà umane del tempo.

È preziosissimo sin dalla sua copertina: è un investimento nel quale continuare a mettere ciò che ha valore, in cui inserire le monete dei nostri pensieri, atteggiamenti, modalità di espressione, facendone l’unica banca che non sfrutta i risparmi.

Le atmosfere mostrano attività ludiche e seriose, nella giostra dei gioielli seminascosti di cui Francesco Di Giacomo dipinge parole sulla nostra pelle piena d’olio.

Musicisti eccelsi a innaffiare l’indole di un insieme che genera dipendenza, trasporto, scuotimenti come indagini del pensiero con la bocca spalancata.

Che dire? Non si può perdere l’occasione di entrare nel giardino di questo mago con le sue damigelle e di esplorarne i frutti…



Canzone per Canzone 


In Volo


Il medioevo è il portatore sano di una damigella che si annuncia: l’inizio dona un brivido sinistro, dove Vittorio Nocenzi mostra la complessità del suo talento, creando un mantello dove il cavallo alato corre impetuoso. Un ingresso torbido che dà subito la misura di un album che scavalcherà la storia e gli stili, dove Astolfo deve decidere se ingannare con false immagini: non accadrà, perché sia queste che le prossime canzoni vivranno di immagini pure e vere. 


R.I.P. Requiescant in Pace


Il cavallo ora corre sul rock del suo tempo con il sudore che gronda dalle dita di Renato D’Angelo con il suo basso facoltoso, la chitarra blues inglese di Marcello Todaro e gli schizzi pianistici di Gianni Nocenzi. La voce di Francesco canta come un raggio di sole con gli occhiali che vedono e descrivono la gloria e il sangue caduto per farlo diventare brividi senza sosta. Si nuota dentro i pugnali che trovano le lance e che feriscono: la musica è un calvario leggero, dai passi sognanti. La malinconia, la forza, la dinamicità dei sei si amalgama in un lato descrittivo immenso degno degli eroi di quel tempo, Led Zeppelin su tutti. C’è modo e spazio per sconvolgere con il finale drammatico, applausi infiniti dentro il Colosseo.


Passaggio


La Psichedelia succhia dal Barocco e si tuffa sulla strada per lasciare il suo odore, in un breve passaggio di settantotto secondi che scuote mentre i secoli si accoppiano su note angeliche e un vocalizzo sacro tenuto quasi nascosto.


Metamorfosi 


Il cielo si riempie di colori, la quarta damigella balla, mentre tutto si fa sperimentale, in una pentola sonora dove troviamo l’immensità del talento dei sei maghi a rapporto con la strategia. 

Dai Deep Purple, ai Led Zeppelin, alle cantine buie di una Londra schizzata, arriviamo a un mappamondo scenico che brilla di avamposti, di idee che fanno del ritmo il signore dalla voce grossa e delle precipitazioni melodiche la scintilla di nuovi percorsi possibili.


Il giardino del mago


Un miracolo complesso che diventa qualcosa di più di grande di una canzone: una performance artistica di livello immenso, dove tutti si mostrano dotati di mani dai poteri incommensurabili, trame fuori dalla  comprensione ma piene di logiche che avanzano ascolto dopo ascolto. Quattro movimenti, quattro praterie a guardarsi da vicino, dove le doti tecniche sono il presupposto di un bagliore che illumina il giardino del mago così indaffarato a creare stratagemmi e illusioni dalla pelle lucida. Il canto, il controcanto, la storia che scivola sulle orecchie incredule, la chitarra e il piano che si fanno spiare dal basso e dalla batteria che diventano complici sublimi: c’è tutto e di più qui. Raggiunta la perfezione, l’incanto diventa storia infinita: gli spazi incontrati sono comete in avvicinamento, le schegge di chitarra e i tasti del pianoforte visitano l’ignoto e si resta sgomenti, in un coma lucido, vigile, ma che non consente movimenti. Quanta preziosità, allora, in questa composizione che mette l’attualità sociale di fronte alla sua collega di qualche secolo prima, in un precisare meticoloso che rende tutto chiaro.


Traccia


Meglio concludere la storia di un clamoroso miracolo con una canzone che non rinneghi i minuti precedenti ma che sia una sorta di memoria, un ribadire l’intensità usando la modalità di farlo in due minuti. Riuscendoci perfettamente. L’impeto, la lezione di scorribande piene di grazia di Paganini e la potenza evocativa di Beethoven fanno da annunciatori a questi tuoni dai canti settecenteschi in una cascata tumultuosa, torbida e magnifica. 


Ale Dematteis

Musicshockworld

Salford

8 Maggio 2022


https://open.spotify.com/album/1JTfLR9dGJp1VFSMoJ1ips?si=Kw8oTdr1S_uUttMde6kq0w






La mia Recensione: Midas Fall - Cold Waves Divide Us

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