Faust’o - Poco Zucchero
Il principe si aggira con libri musicali infilati sotto le dita, spaziando in un periodo gonfio di rinascimenti e attitudini a evolvere concetti, spiando dal palco di un teatro, sfiorando la seconda metà degli anni Settanta, trasportando il futuro su una tavola, dove l’uso di poco zucchero rivela gusti e retrogusti che non si pensava esistessero. Giovane, acerbo, profondo e adirato, conosce tuttavia la disciplina per continuare a essere un comico serio, un affabile vampiro diurno, con la testa abbassata su vinili, riviste, fanzine e idee che circolano in attesa di finire su un leggio, l’apripista di un cosmo da visitare.
Faust’o per questo secondo disco ruba, gratta, cita lungamente, passando dal cinema alla letteratura, finanche a una notevole dose di album, che sono stati aspirati nel circuito intenzionale del suo progetto. Un passo molto addentro al presente, per illuderci di una contemporaneità che si potesse lanciare nel destino di un terribile luogo chiamato futuro.
Con l’aiuto di Alberto Radius alla produzione (e anche alle chitarre) e quello di Oscar Avogadro, Fausto Rossi compie un sacrilegio, una serie di danze fameliche sul cadavere di una società su cui aveva già puntato i fari nel disco di esordio. In questo lavoro però abbiamo una potente escursione nel passato, una metafora che si percepisce cercare innesti soprattutto nei riguardi dei circuiti della approssimazione e dello sbando. L’impronta elettronica ci porta a ricordare il lavoro fondamentale dei Suicide e dei Cabaret Voltaire e poi, certamente, pure di David Bowie, ma non è questo il punto. Sono scatti, sniffate di note, che in seguito vengono prese e lacerate, bruciate sotto i pollici che premono, e riescono a mutare il dna generazionale sconvolto dall’enfasi, dal nuovo, dalla libertà acquisita dal 1968 ma che ormai è lesa, scucita, in un vuoto di senso che Fausto scova, portandolo a smarcarsi da una serie infinita di banalità.
Gioca con i generi musicali in modo serioso, avvolge l’Italia nel bacino di un emisfero musicale totalmente sbilanciato verso la Germania, gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Una serie di cliché da punire, utilizzando lo stratagemma di un singolo molto “catchy”, che arriva in classifica, negli spazi normalmente colti da una platea distante dall’impegno, dalla sperimentazione, che della musica fa un gioco.
Gioca pure lui, però, con questo album: spaziando da un primo lato più leggero, brillante, pieno di euforiche mutazioni ispirazionali, per poi, nell’incredibile seconda parte, sfondare la sicurezza con acciaio, martello e fiori di pietra.
La poetica robotica del primo lavoro qui viene catapultata nella frattura e nella distanza, un capovolgimento dei sensi per rendere il baratro una lunga fuga.
Il ritmo (si mettano in evidenza per cortesia i due batteristi che hanno dato un grande contributo, Walter Calloni e Tullio De Piscopo), la melodia e l’armonia (Piero Milesi al violoncello e Claudio Pascoli al Sax) sono l’anfiteatro di una serie di concetti che, attraverso un pentagramma sottile, arrivano a farci sentire quello che i Kraftwerk e i Devo sapevano fare perfettamente: preparare la tavola della follia, eseguendo sentenze sonore prima ancora che asserire o suggerire.
Poco Zucchero approfitta dell’ignoranza del tempo, del troppo finto rispetto, induce in tentazione, spalanca lo sguardo verso l’incredulità, portandoci nei bip elettronici di una serie di sostituzioni davvero notevoli.
La chitarra diventa un maggiordomo della tastiera, il basso un mago che gioca a nascondino, la voce è un inchino nevrotico, con perlustrazioni sui registri ragguardevoli, ingrassati da parole spiazzanti, con proiezioni protese verso una negatività controllata, come un piano da stabilire con la coscienza dell’ascoltatore.
Riferimenti, appunti, ricordi: sono impianti strutturali che non pretendono la genialità (per quanto, sia chiaro, siano presenti e abbondanti), piuttosto sono i semi di un non so che in cerca il dissenso. Litiga anche con se stesso, spinge il suo talento verso una strada tortuosa, per illuminare la malinconia e l’autocommiserazione, uno schianto che adopera la faccia del rock, ma senza muscoli, senza sudore, senza indossare giacche con lustrini, ma con la stessa caparbietà di Brian Eno: manopole, esperimenti, allucinazioni lasciate cadere su un pentagramma che deve asciugarsi, dimagrire, perdere liquidi…
Un album che ha l’odore del sangue in volo, con sacchetti di plastica e una tastiera sulle spalle, sbeffeggiando il tempo e la musica: c’è una lentezza di fondo che affascina e ci fa divenire, grazie a una serie di ascolti ripetuti, schiavi di un piacere doloroso.
Tutto sembra appassire nelle marce apocalittiche di queste congiunzioni, dello strapotere di una follia che per la prima e unica volta decide di scrivere canzoni che possano cadere nel dimenticatoio, se la scintilla non è passata a farsi vedere dentro questi inconfondibili solchi. Non il suo disco migliore, bensì l’unico in grado di farci intendere l’esordio e di garantirci la sicurezza che il successivo sarebbe stato ben diverso, come si è poi rivelato.
Ora spegniamo la luce dell’egoismo, delle pretese, dei giudizi e andiamo a caricare la nostra obesità intellettuale con la sua dieta, quella che, saggiamente, prevede poco zucchero…
Song By Song
1 - Vincent Price
L’esordio porta con sé Rino Gaetano a cena con la poesia cinematografica che usa il piano come se fosse una notte piena di alcol a New Orleans. Il basso funky è la coperta di un balbettio continuo di piramide sonore allegre mentre il testo naviga dentro il terrore e l’agonia. L’assolo di Radius all’inizio segue la successione di accordi e il cantato per poi grattare il cielo con le sue propensioni piene di magnetiche evoluzioni.
2 - Cosa rimane
La Motown si affaccia, miscelata a una modalità tanto cara agli Chic con un quasi funky unito a un vapore elettronico che utilizza due sole note per sposare questo vascello che, all’improvviso, attraverso il balbettio di un sax, ci ricorda i Roxy Music. Il cantato è deciso, la voce impastata, come un bulbo nel cervello, con una cadenza ritmica precisa. Il lungo finale ci porta a intendere come la vera storia scivoli nel silenzio di queste lucciole ripetute, che si conficcano nella testa…
3 - Attori malinconici
Prendi delle gocce, falle rimbalzare in uno specchio e poi mantienile vive, dentro una composizione sorniona, come un accenno, che immobilizza la stupidità, in un elenco di gesti e di volti che ci fanno sbiancare. Tetra, come i Cabaret Voltaire che si affacciavano alla sospensione metrica con l’intensità di esordienti loop, questa terza traccia abusa della pazienza, in un terremoto di echi soffocati e la brillante idea di camuffare la forma canzone, dandole uno strattone con un climax elettronico che ci porta a capire e ad afferrare con coscienza quello che accadrà, di lì a poco, con questo tipo di sperimentazione stilistica…
4 - Oh! Oh! Oh!
I primi secondi sono una slavina di riferimenti talmenti evidenti che è inutile elencarli.
Piuttosto: ciò che conoscevamo di questo pallottoliere di sentenze trova in questa occasione l’ironia e il fruscio di una follia che pare devitalizzare i rapporti con la noncuranza. Lo stesso accade con la musica che solo apparentemente si appoggia a un breve lavoro strutturale: a vincere è il suono, l’estensione che è messa all’interno di una gabbia sino a fare del riff di chitarra l’unica sicurezza piacevole. Pop in modo innaturale, selvaggia senza rabbia, riesce a portare una vocale al centro di una attività ludica che possa ipnotizzare le parole precedenti e quelle successive. Scheletrica ma efficiente, anticipa quello che poi sarà fondamentale per il terzo disco di Alberto Camerini. Ciò che fa del disimpegno un ingresso è, in realtà, l’uscita della coscienza verso l’inutilità di rapporti sterili…
5 - In tua assenza
Bowie, subito, poi la magnificenza di Fausto si alza verso i gradini colmi di lacrime di Rossi, con una voce gonfia di pietà e lamenti, come le parole, che sono scuri dentro la parabola (fallita) dei segreti. Una recita che arriva nei pressi delle pareti di Carnival dei Simple MInds, con la medesima teatralità, con un'incursione del sax che sarebbe poi stata utilizzata nel 1980 dagli Psychedelic Furs. Una danza tra le parole, le note, per mettere il bavaglio all’elettronica che stava sbandando: poche note, silenzi inglobati dai luoghi visitati dalle liriche, e un assenteismo che fa di questo brano un gioiello ancora incomprensibile…
6 Kleenex
Il trittico finale è un terremoto senza fine.
Si inizia da qui, da questa voce sussurrante, all’interno un tetro tappeto sonoro, con echi evidenti di una modalità cara ai Pink Floyd di Middle, per continuare con un cambio di registro, sotto il tintinnio di un organo, gli starnuti sexy del sax. Ma, più di tutto, pare di essere nello studio dei Can, in un laboratorio di oscena profondità, dove il sesso, la lacerazione del tempo, la fuga inadatta per essere totale, ci introducono al mistero di un favoloso fade away finale…
7 - Il lungo addio
Dio in mezzo a un addio: ed è tuono atmosferico tendente al giallo, cupo, gravido di noia, di liquori lamentosi, di una fuga che è riempita dal mistero, con note che non cercano di essere evidenziate, bensì si mettono addosso un cappotto fatto di brividi, con lampi reggae, con il futuro che fa capolino, con gli intarsi di strategie magnetiche a globalizzare il concetto espresso con incredibile saggezza. Si piange in solitaria, si arrotola il futuro negli scatti della voce, si trema con queste scariche elettriche tetre e malvagie.
Non un brano ma una sentenza, un testamento dell’intellighenzia che aveva già subodorato il tutto: c’è da chiudere le finestre in faccia al futuro e questo brano è l’unico suicidio qualificato per renderlo possibile…
8 - Funerale a Praga
Quanto futuro in questo pezzo che parte da un violoncello tzigano, come un’artrosi senza legittimità?
Straziante, cadaverico, tristissimo, è una marcia senza forze militari, per calpestare i movimenti di una modalità dell’esistenza che va decapitata. E sono incursioni rapaci, una pratica sovversiva di usare un circuito melodico che vada a snaturare la ricerca del piacere. Sono note pesanti, lente, che ci invitano ad abbandonare le energie, a rifiutare la deriva, consegnandoci un lungo film nella seconda parte, dove i giochi di potere vengono gestiti dalla glaciale tastiera e dal caldo sax.
La prima è lapidaria, precisa, ripetitiva e paradossale.
Il secondo è un volo nei piani emotivi, un condensato di possibilità che stringono il cuore, l’assenza del cantato ci induce alla memoria delle parole, e in tale frangente questa coda diventa un lunghissimo funerale, un congedo che raffredda la gioia e la mortifica.
In poche parole: oltre al capolavoro, in quanto il ripetuto ascolto di questo brivido è solo l’inizio di un ultimo respiro infinito…