Aursjoen - Strand
“La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono a caso” - Italo Calvino
Nella spettacolare forma artistica che prevede la progressione dentro i maremoti emozionali, la lentezza diventa l’unica coinquilina ragionevole, in una pacifica e collaborativa convivenza.
Ecco che uno dei membri della polivalente band Octavian Winters innesca un detonatore sensuale, coi bassi ritmi a collegare il cielo e l’osceno del mondo, una musicoterapia che, partendo dall’elettronica curva su scale empiree e segrete, capovolge il pop e scrive canzoni come meteore e statiche statue danzanti, calibrate dal suo canto, corretto in corsa da controcanti e strategie di una produzione attenta a riversare luce tra bagliori eterei e tuttavia colmi di quel nero che non snellisce bensì preoccupa. Su questa base tutto diventa un'esperienza non catartica ma protettiva: ci sono luoghi dell’anima che l’artista di San Francisco preferisce mantenere come gocce di vetro nei suoi percorsi creativi. Musica glaciale, dove i panegirici dell’uomo comune tendono a frantumarsi, perché Aursiøen è una telefonata di note sotterranee. Da cui tutto parte per spegnere incantesimi e follie.
Un E.P. che la libera, la rinforza, capovolge il conosciuto e diviene residenza di sperimentazioni fluviali, mantenendo il contatto, nel suo timbro vocale (pieno e oscuro), con quelle voci che in passato, nel suo precedente progetto, non trovavano adiacenza e possibilità espressiva. Arrivano Siouxsie, Sinéad O’Connor, Björk, Elizabeth Frazer a ricordarci come la ricerca ostinata di una originalità sia cosa stupida: ci sarà sempre qualcuno che troverà un nome che l’ha per gioire di una vittoria inutile e irrisoria.
Questa cantante ha delle grucce nell’ugola, la sua mano scrive testi che salgono nella sua bocca per essere fantasmi gentili nel buio di notti vogliose di una distrazione. Quello che racconta e il modo in cui lo fa la mette su una discesa temporale: composizioni come un allontanamento, come una ferita sibilante in cerca di un’armonia gradevole, con richiami alla musica classica, partendo da un trip-hop nerastro all’interno di allacciamenti gotici, con una chitarra e il suo delay a frantumare la purezza, facendolo divinamente.
Il pop alternativo diviene folk alleggerito, con stravaganze davvero radiose e sublimi, con balbettii che inquinano la sicurezza, rendendoci ascoltatori in stato di fragilità, con una meccanica compositiva che avvicina la possibilità di un bacino di accoglienza popolare, mettendo a tacere chi la vorrebbe solo per poche anime.
Le stratificazioni, gli arrangiamenti, le progressioni, l’enfasi e la leggerezza (quella di Calvino nell’introduzione) sono gli elementi che continuano a partorire grappoli, frammenti, scintille di idee che reclamano note, come se uscissero dal risveglio di una persona in coma.
Micidiale, caustica, rapitrice di melodie arcane e vicine alla mitologia, questa artista lavora concetti privati, semina una lastra di impeti con lo sguardo dentro le cartucce di una voce che spara i cambi di registro con attenzione e capacità.
E dei testi, dei richiami sognanti verso gli anni Ottanta, della sensazione che sei canzoni sembrino trenta non ne vogliamo parlare?
In questo si dovrebbe tirare in ballo la seconda parte della carriera dei Dead Can Dance, forse il sistema di misura più vicino alla ragionevolezza per inquadrare il grande percorso compiuto con questo lavoro, per riuscire a dargli una credibilità che merita di sicuro.
Per il Vecchio Scriba questo non è soltanto l’E.P. del mese e dell’anno 2024, piuttosto è l’augurio che le anime pensanti possano scoprire con queste delicate pennellate artistiche una serie di mondi non connessi tra loro ma in fase di annusamento, nella spettacolare modalità di circospezione.
E si scopre come la bellezza sappia essere violenta: davanti a tutto ciò un cuore sano perde efficacia e si accascia, felicemente…
Song by Song
1 -Nytär
Una terra senza acqua esce da questi aggeggi elettronici, chiamateli computer, tastiera, beats, non importa: l’inizio del brano è già un geyser che si precisa nelle orecchie, un geniale intro per la voce che sembra uscire da un concerto della 4AD in un attimo di distrazione della massa gotica.
Pj Harvey osserva attenta: capisce come Aursjøen utilizzi il registro alto non come acclamazione o preghiera, bensì come soluzione per portare sul suolo terrestre angeli e demoni. Esempio di come la musica eterea stia a suo agio con un temporale, lento, pieno di elettronica e suspense.
2 - Apollo
Eccoli gli Octavian Winters nell’intro di chitarra: una bordata gotica che butta giù il cielo! E poi è una duna del deserto nel battibecco dei Tuareg, a benedire il connubio tra darkwave e trip-hop, con il ritornello che sentenzia la facilità che possiede di permettere alla malinconia e all’allegria di convivere. Misteriosa, trasmette un prurito piacevole, dato dalla metodica del canto, raffinato ma potente.
3 - Lilypad
Si cambia, si dimentica e si prosegue: siamo ora tra i pilastri della world music in cerca di anime voraci, di sospiri con eco e riverbero che montano la panna di una forma canzone che lascia spazio agli accenni di chitarra e tastiera, nel dondolio di un pomeriggio che vede la voce più nascosta, come una meteora in cerca di una metafora. Ma poi nell’apertura del ritornello le note in maggiore ci portano equilibrio e godimento. E ci viene in mente la stessa attitudine al gioco canoro di una cantante che è ancora un missile in anticipo nel mondo trip-hop, quella Skye Edwards dei Morcheeba che echeggia spesso in queste sei canzoni.
4 - Suns Of Tomorrow
Poi esiste l’estraneità e il giocattolo diverso nei luoghi predisposti alla ludicità.
Eccolo questo brano che visita l’ignoto, il sacro, l’accartocciare la voce per fare posto a campane, a beats magnetici, e un velo triste ci copre perfettamente gli occhi. La sperimentazione qui diviene saggezza al pascolo, per perseverare con la brevità del giro di accordi, lasciando poi spazio a un cambiamento ritmico e scenico impressionante, tra sibili e suggestioni drammatiche di altissimo livello, con incursione di fiati che creano un terrore rappresentativo di una genialità impressionante.
5 - For Want Of
L’eco maestro del dramma interiore esce a fumare: canzone che ci penetra attraverso il chiaroscuro vocale, mentre la musica, compatta, siderea, plumbea, struttura l’ascolto all’interno della pazzia maniacale di Diamanda Galas. Si canta per colpire l’aria, per irritare e tenere buoni gli spiriti, come fate, come diavolesse. Aursjøen impressiona, ci travolge con il modo in cui usa la complessità per esplodere ma solo in lontananza…
6 - Strand
Dio mio. Una chiusura che mette il magone, che ci rende orfani, visto che la bellezza e la leggerezza decidono di partorire una figlia amorfa, stralunata e vicina alla fine prematura. Un incubo rappresentato come atto contemplativo, un trasporto nomade di antiche culture millenarie che qui trovano il benvenuto e si piange, di gioia, di gioia, di gioia mentre tutto si fa muto con queste praterie vocali che divengono l’unico vento su cui depositare il nostro grazie infinito…