White Rose Transmission - 700 Miles of Desert
Foglie, sterpaglie, avvisaglie, schermaglie.
La radura è folta, un fascio ombroso illumina l’emisfero del pensiero.
La musica permette di annullare la morte, di lasciare in vita le persone, con quello che hanno fatto.
Il secondo album del duo Adrian Borland e Carlo van Putten allarga i confini, accoglie musicisti in grado di aumentare le possibilità artistiche di questi illuminati pensatori e creatori di nuove stelle da ascoltare e ammirare. Un lavoro che fa male a posteriori, se si valuta cosa è accaduto al regista dei Sound, ma, se adoperiamo ciò che si è letto nelle righe precedenti, anche un benessere, un senso di quiete e di pace ci avvolge, attraverso la dolcezza di un apparato creativo in grado di seminare novità, modalità e grandi battiti pieni di luce.
Quattordici momenti colmi di fascino, in una sfera sad pop che non deprime bensì regala un viaggio all’interno di un testamento scritto con un sorriso e una pacca sulla spalla da parte di Adrian: Carlo raccoglie (ignaro, al tempo) quella confidenza che affermava che nel terzo disco i testi li avrebbe scritti l’ex leader dei Convent. Nel fitto progetto di ciò che ascoltiamo ci rendiamo conto che ascoltiamo musica e non canzoni: nulla è lasciato con l’intenzione di raccogliere consensi, in un piano di ruffianeria estrema, ma incontriamo piuttosto un allargare l’amore, la necessità e la progettualità per tastare il polso ai propri nervi, nella foresta di misteri avvolti e protetti dallo stile, dalla curiosità e dalla volontà di rendere infinito il piacere di veder colorare il tutto con una tinta lucida. Il fatto che si rende maggiormente evidente è quello di essere storditi, confusi, mai certi di quale sia stato il carico di sofferenza di Borland: si teme che sia stato un lascito come un testamento, e in questo caso le lacrime scendono senza arresto. Se invece si immagina questo secondo appuntamento discografico a nome White Rose Transmission come la maniera di trovare conforto, leggerezza, sfogo, distrazione o quant’altro, allora ci potrebbe scappare un sorriso e un abbraccio di ringraziamento.
Certamente, per tutti i sessantaquattro minuti rimane fissa nella mente che la direzione dei generi sia più ampia ma con la volontà di far rimanere il tutto come un profondo respiro, quasi silenzioso.
Il contributo di Rolf Kirschbaum, quello di Mark Burgess, come quello di David Maria Grams e la voce di Claudia Uman regalano la gioia di sentire una band di amici in una sala prove, mentre tutto scivola dentro il pentagramma. Compatto, dilatato, aperto, lasciando l’ingresso aperto ad alcuni timori, 700 Miles of Desert è un gioiello che non usa maniere forti per mostrarsi, perché pare entrare quasi di nascosto nell’impianto stereo con l’intenzione di rimanerci a lungo.
Getti psichedelici mascherati, schegge di Post-Punk ammaestrate, il brivido dato da un intenso palazzo acustico celato dalle orchestrazioni, confluiscono nella gloria e nella magnificenza di note senza bavagli, in una giornata nella quale la pioggia bacia la nebbia.
I testi (dodici su quattordici) di Adrian, sono apparentemente i più malinconici di sempre, come se quelle parole avessero abbandonato la bombola dell’ossigeno, in un lungo commiato. Non esistono congedi, moti di rabbia, forme esplosive che possono paralizzare, ma un soffio dolce-amaro per renderci tutti più consapevoli e in grado, con l’ascolto, di non fargli mancare il nostro amore. Profondo, intenso, l’album spazia dentro sorprese continue e il violino di David Maria Grams è un distributore di singhiozzi, nell’assoluta capacità di affiancare l’approccio della musica classica a quella pop.
In Wild Rain il duetto con Claudia Uman è uno schiaffo al rallentatore, un addio della natura nei confronti dell’uomo. Tutto schizza nella direzione del cielo dove i suoni perdono peso.
Pare di vedere la vita entrare nelle trame espressive per tatuarsi nell’indifferenza di chi non ha saputo riconoscere il valore di un percorso artistico iniziato nella seconda metà degli anni settanta: non seminando rancori e tantomeno accuse. Una penna sia limpida che misteriosa, con la solita incredibile voce a suscitare immense suggestioni. Carlo, per tutto l’album, sembra il miglior amico che sa ascoltare, consigliare, ma facendolo sottovoce, senza smanie di protagonismo. Canzoni come garze di velluto che si inchiodano sui tessuti della nostra riflessione, per riparare il dolore da altri disperati atti osceni: tutta la discografia di Adrian e di Carlo ha subito indifferenza da parte della massa, discografica, di critica e del pubblico.
E poi lei: InBetween Dreams, che da sola riesce ad andare oltre i suoi sette minuti perché il suo mantra è una sinusite, un colpo di tosse che ci tiene costantemente avvinghiati alla sua brutale bellezza. Pare proprio che i pezzi precedenti e quelli successivi siano l’anticipo e il posticipo di un clamoroso miracolo, umano ancor prima che artistico…
Vive per tutta la durata dell’ascolto il battito di una chitarra che sembra morire con l’ultimo brano, ma non è così.
Non si può negare che il concetto iniziale di queste composizioni fosse quello di un dipinto sulle superfici dei contrasti, dei dolori, ma con il tentativo, l’ultimo, di non negare chilometri di gioia che sono presenti, eccome se lo sono…
La produzione è un altro attestato di classe, in quanto avvolge gli stili e i generi musicali all’interno di un suono, di accordi, di propulsioni perfettamente assemblati, come un coro d’anime che con un’unica vocale ci inchiodano all’ascolto e alla devozione.
Gli scheletri dell’anima, perfettamente messi davanti al nostro sentire, durante Desert Bones, sembrano uscire da un viaggio psichedelico dei Doors con il supporto di Ennio Morricone, per un brano che scalcia via ogni gioia.
Con The Swimmer, testo di Carlo e musica di Florian Bratmann, siamo nei pressi di una danza elettronica che si intinge nella musica classica, con echi dei Church e dei Psychedelic Furs: un’ulteriore chicca che si stampa dentro il nostro stupore.
La canzone preferita del Vecchio Scriba, di cui è già stata descritta la grandezza, si presenta qui non in versione acustica ma in quella elettrica: Walking In The Opposite Direction è semplicemente la summa di tutto il pulsare emotivo e intellettuale dell’artista nativo di Hampstead, uno strappo carnale tra le ali di angeli che proteggono la sua aura vitale. Un capolavoro che bagna tutte le piume del mondo con il suo respiro lacrimevole…
Stando attenti ci si accorge che c’è un molto che si palesa, un poco che si nasconde, un mix perfetto di equilibri e squilibri che nella strada dell’estate di questo gruppo riesce a camminare nella direzione giusta: consentire a ciò che è contrario alla vita di essere dentro, di partecipare a quella che oggi è la celebrazione dell’ultimo lavoro in vita di Adrian.
Lasciate ogni modalità per poter ascoltare musica su questo album e date all’infinito la possibilità e il dovere di rimanere su queste quattordici ali: il volo perfetto abbisogna della perfetta colonna sonora ed è proprio qui…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
15 Ottobre 2023
https://spotify.link/AnW7u9U3UDb