The Slow Readers Club with Joe Duddell & No. 7 Ensemble
Live at Canvas
Manchester
Una bolla può riempirsi di emozioni volute, improvvise, e poi anche sospendere il respiro, vagabondare nello stupore? Se partecipi all’evento musicale dell’anno certamente sì, ed è esattamente ciò che è accaduto nell’elegante Canvas di Manchester, dove sul palco si è assistito a un miracolo generoso: l’unione di modalità, ruoli e approcci diversi alla musica, per un risultato che fa, questa volta, dello shock un beneficio multiplo. L’ipnosi ha toccato le spalle di ognuno dei partecipanti, tranne che di quelle poche persone che hanno preferito chiacchierare, pagando, finendo per disturbare pure Aaron. Ma è innegabile che il risultato sia penetrato negli animi sensibili e votati all’attenzione. Le canzoni scelte dai fan ed elaborate da Joe Duddell in pochissimo tempo hanno modificato l’interpretazione nei confronti di quelle originali: tutto si è trasferito su un altro piano emotivo e sensoriale, con la piacevole sensazione di una nascita notturna dentro i cuori. Struggevolezza, malinconia, tristezza, che sono spesso l’habitat naturale di queste composizioni, hanno spiccato il volo fasciate da un foulard di lino, per poter arrivare, indenni, all’interno dei raggi lunari. Pazzia, tremore, tensione ma mai senso di perdita hanno governato i sedici flussi pieni di magia per ritrovarsi in un’entrata diversa: una catapulta infinita di brividi ha stabilito che questa esperienza potesse creare con la memoria uno strumento infinito colmo di forza e vitalità. I cambiamenti, i ritocchi, la verve di un direttore davvero capace di intuire prima e di portare poi il tutto in uno status intoccabile fa di questa serata la rappresentazione di unioni che sono parti naturali, e di cui si può solo sperare in una continua proliferazione.
Gli archi, come già avvenne nel 2017, spingono sia verso l’addome che verso la volta celeste consapevolezze nuove, diramando nei sentieri dei pensieri nuovi luccichii. E si è fragili, avvolti da segreti interpretativi che esaltano l’individualità, mentre a pochi centimetri dalla propria persona altre sembrano essere riempite di scuotimenti simili. Su un piccolo palco undici persone hanno avuto la capacità di avvicinare il pop alla musica classica, di annullare eventuali distanze per esaltare il calore, il colore delle note e sintonizzare la passione all’interno di un circuito visitato densamente, e non per caso. La voce di Aaron, molto più attenta rispetto alla settimana scorsa, ha graffiato, fatto conoscere tumulti, spaccando vene e vertebre grazie a una intensità micidiale: come se si fosse accovacciato nella propria intimità e avesse deciso di lasciarla cadere nel microfono. Accordato ai toni grevi di sette musicisti perennemente in uno stato di grazia, di serietà, e pure di responsabilità, il frontman ha fatto scivolare la sua ugola sul tappeto di vibrazioni talmente appiccicate tra loro da far nascere un unico groppo in gola per tutta la durata del concerto. Il via libera al pianto, allo struggimento è stato semplicemente impressionante e devastante: tutte le parole che conoscevamo già a memoria, e che forse avevamo la presunzione di aver capito, questa sera sono state in grado di insegnarci nuovi elementi, sbattendoci per terra, nel caos, nella gioia, nell’abbraccio tra il bianco e il nero di un cielo stellato all’interno del Canvas. Il drumming questa sera, grazie a lunghe pause, ha messo in mostra un'efficacia notevole, perfetta, esaltando anche il basso, per un insieme che ha reso illuminante l’interpretazione: è stato così per ogni brano suonato insieme. Poi, a un tratto, Aaron è rimasto da solo con l’ensemble, ed è stato come prendersi un pugno caldo nel gelido della notte Mancuniana. La lentezza, la densità, l’energia fosforescente è uscita dagli amplificatori per baciare la nostra inerzia, l’immobilità, per produrre un diverso schianto nelle nostre percezioni. Le catene, quelle menzionate in Know The Day Will Come, sono cadute sulla nostra pelle, come un generoso atto liberatorio: a volte nelle contraddizioni si stabiliscono patti di saggezza infinita…
Nella nuova prigione, le ali della agognata libertà si sono trovate ridimensionate, insegnando, sprigionando l'entusiasmo mentre le lacrime bagnavano il pavimento. Quattro delle sei canzoni, che erano state pubblicate sei anni fa, dopo il primo contatto tra la band e l’ensemble, sono state riproposte ma anch’esse modificate, accarezzate e baciate da una nuova idea, attraverso una “vivacità” espressiva che ha donato loro ancora più l’impressione di una drammaticità in estensione.
Le luci hanno veicolato la rara capacità di connessione con le note: fatto che ha impressionato il Vecchio Scriba, che non ha rinunciato a chiudere gli occhi per volare, con precisione, in uno stato di assorbimento più che mai necessario. Il tempo è sembrato uno speleologo lanciato nel cratere dei brani per mettere in luce frammenti di meraviglia continua, con lo stupore in grado di correre nelle vene senza volontà di fermarsi. Il pubblico, entusiasta e inebetito, ha potuto ancora una volta legittimare il proprio amore e portarlo nello spazio di un ricordo dove poter bussare spesso: serate come queste non capitano spesso.
Un’esperienza che mette in risalto anche la fiducia della band di Manchester nel lasciare che qualcuno, esternamente, metta una lampada nel ventre di questi gioielli: se esiste una perfezione questa va cercata negli altri e i quattro lo hanno ampiamente dimostrato. La lotta, l’abnegazione, il limite e il suo opposto hanno stabilito una pioggia di lacrime e riflessioni che hanno generato paralisi e al contempo una “strana” gioia: parole come messaggi francobollate a note che hanno cambiato d’abito sono riuscite a spalancare il raggio d’azione delle nostre antenne consegnandoci la mappa di nuove verità. I sorrisi non sono mancati: durante l’esecuzione di Grace of God Aaron è caduto nell’esitazione, con il sostegno dell’adorante pubblico, per concludersi in un applauso ritmato che ha veicolato un’emozione incandescente: laddove esiste un errore, esiste anche un supporto…
Everything I Own, Sacred Song, Grace of God, Afterlife e All the Idols sono stati i momenti più spettacolari della serata, con Block Out The Sun a guardarle dall’alto. Ma innegabile è la qualità dell’intero concerto, un ammasso denso e generoso che ha spaziato nella discografia esaltandone ancora di più la bellezza, la forza, l'intensità per rendere preciso il senso di devota appartenenza alla band. Il lavoro di Joe è da premio Nobel per la letteratura emozionale, per aver consegnato ad Aaron lo scettro di angelo indiavolato ma rispettoso, e per aver consentito ai suoi ragazzi di lasciare un incredibile tatuaggio raffigurante l’arte al massimo livello su quel palco: la storia ha una data, una direzione e un incanto che renderà per sempre quelle catene libere di essere sentite come ali dei nostri sogni migliori…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
2 Dicembre 2023