Platonick Dive - Take a deep breath
Piccole percezioni definiscono lo spessore di un lavorio, guidato dall’istinto o meno poco importa. Ecco dunque determinare una serie di luci che confortano la visione di tutto questo.
La giusta prefazione per un’opera complessa, radicata nella purezza e negli spruzzi che rinfrescano l’attuale panorama mondiale di tre generi musicali in debito d’ossigeno, vede la band Platonick Dive nel tessuto narrativo che scavalca la comprensione in quanto colmo di trame ascensionali, sapendo però anche scendere all’altezza della inibita ricezione dell’ascoltatore. Canzoni che ci portano a sentire il vento sotto le onde, a percepire l’abbraccio di mondi confinanti ma sempre comunque distanti. I tre musicisti dipingono la scena come diamanti da trasferire al suono, imbevuto di una prospettiva scenica sapiente e calorosa. In certi istanti il Vecchio Scriba scorge antiche gemme provenienti dai Wishplants con il loro mastodontico Coma o l’artista australiana Laura con l’inarrivabile Radio Swan Is Down, album che la band italiana probabilmente non conosce, ma di cui hanno saputo sentire l’importanza: quanta magia esiste in tutto questo?
Un trio che sparge la sua idea di contemplazione, sogno, emozione, nel vortice di uno scivolamento pellegrino dentro armonie e melodie con le idee chiare, sviluppando metamorfosi continue con cambi di ritmo, l’uso intelligente di una elettronica non al centro bensì al servizio di un senso collettivo delle singole parti.
Un lavoro che non necessita di improvvisazioni e genuinità ma, fatto ancora più rilevante, di uno studio meticoloso attraverso il quale fare delle composizioni non un teatro bensì un silenzioso percorso, nel quale ciò che è adiacente e nebuloso si incrocia nel cilindro di un bisogno davvero potente.
Il Post-Rock guida, crea visioni, ma senza negare il bisogno di spaziare nei giochi sperimentali che includono lo shoegaze più delicato e un alternative (specialmente nel drumming) che consente formule piene di varietà, finendo per sedurre e rendere l’esperienza dell’ascolto quell’incontro con il vento sotto l’acqua, come affermato in precedenza.
Quasi del tutto strumentale, con l’impressione che le voci siano nascoste per necessità ma abili ad arrivare con raffinatezza e morbidezza.
Esistono battaglie dei suoni, ritmi prevalentemente lenti, spesso sincopati, e una prateria di arpeggi che impegna il basso e la batteria per creare la coesione perfetta, data la mole impressionante di trame chitarristiche sempre piene di energia e poesia.
La grande consolazione giunge dal non essere un capolavoro ma un album ancora più nutriente, in quanto sa nascondere parte del proprio volto e questo costituisce un fatto irresistibile, importante, e definitivamente più incisivo del capolavoro, parola e atto regalati con troppa fretta e non più credibili.
Il fiato che si usa in questa situazione è quello che serve per sentirsi trasportare, per un ascolto sempre nuovo, in quanto la chiave sta nella mole di alchemie sviluppate per non ripetersi. Ci sono drammi, tristezze, nostalgie e sommosse dell’umore in Take a deep breath, in un circuito consequenziale che vive nei pressi di una proiezione sonora che si sposa con immagini in accumulo e mai in transito.
Come dire: nulla si perde, ma tutto diventa un salvadanaio che si gonfia e rende il sorriso il vero guadagno di questa esperienza. Dodici storie mute (in apparenza) che sanno uscire dalla coda di favole intimamente devote alla solidarietà: in certi episodi si pensa davvero che la band sia in grado di scrivere un nuovo linguaggio, rafforzando la convinzione di chi scrive che questo sia un appuntamento meraviglioso con una serie di novità forse di non facile rilievo.
Con decisa personalità, le canzoni presenti si discostano di molto dai loro esordi e in questo passaggio del tempo ci sono segnali evidenti di consapevolezza e forza: basta approcciarsi all’ascolto purificando l’egoismo e l'errato esercizio della comparazione per notare come le pennellate siano solo l’inganno meraviglioso di fascine che cadono ai piedi dell’acqua. La robustezza è più nell’indole che non nel suono: ecco il Post-Rock della fine degli anni Novanta ricordarci come bastino poche note, non una infinita trama di accordi per elevare il contatto con la poesia.
Quanto beneficio nasce da questi minuti in cui ci si trasforma in orecchie che vedono e bocche che suggeriscono evasione? Moltissimo: il ventilatore delle emozioni si ritrova nei pressi di pensieri, in un idillio che diventa forza generatrice di nuove pulsioni, gravitando nella pacifica coabitazione di sogni e orizzonti, sì, perché il piano onirico pare essersi vestito per uscire da queste note suadenti.
La produzione è buona, sebbene esistano alcune imperfezioni e qualche piccolo errore nelle dinamiche dei volumi, ma credetemi sono elementi meravigliosi, che fanno capire quanto la dimensione Live sia quella più congeniale e dove gli errori sono sorrisi della dea della musica. Notevole la scelta di dare al minutaggio poche possibilità di dilungarsi: la noia non compare mai e la vitalità di alcune soluzioni che si avvicinano alla musica classica e a certi remix di Moby e degli Air rende il tutto una vitaminica constatazione della ricchezza che vive in queste tracce.
Spaziando dagli anni Novanta ai giorni nostri, questo vento sotto la pelle dell’acqua gioca a nascondere, a proteggere, sviluppa oscena bellezza rendendoci ricchi, quasi con vergogna. Molto italiano nella produzione e nelle ritmiche, inglese come attitudine di sviluppo, questo album offre riflessioni multiple: il senso di attesa, l’enfasi, la gioia e quelle lacrime piene di sole che sciolgono le paure. La tensione è una parte importante: queste favole cercano luoghi creandoli, affollando di suoni che spaziano come tecnica, come variazioni e l’ingresso, felicemente depositato, in un disco che sembra un cantiere aperto al pubblico.
Non avrà il successo: poco male, perché sarebbe la loro rovina, avrà, invece, la capacità di essere un solvente, una scossa emozionale e un vasodilatatore dei sensi per chi dall’ascolto sentirà che potrà entrare in connessione con questi notevoli musicisti, per poter sentire quella unicità che i Platonick Dive hanno di certo…
Andiamo, tuffiamoci nelle dodici onde: forse non impareremo a nuotare, ma conosceremo l’odore di un incontro davvero incandescente…
Song by Song
1 - Intro
Una turbolenza elettronica ci immette in un clamoroso inganno: nulla fa presagire cosa avverrà, le chitarre, le esplosioni contenute. Ma è proprio questo elemento di confusione che crea uno smacco dolcissimo: un'introduzione che pare una perfetta intrusione coi suoi algoritmi ascensionali, con l’elettronica che fa spalancare la bocca dallo stupore…
2 - Carpet Ceiling
Ecco giungere la farfalla di una sei corde che trama voli nel vuoto, sostenuta da un drumming vorticoso e militare, echi dei Leech amati dal Vecchio Scriba inducono il primo maremoto: una ninnananna che sembra acustica nelle intenzioni, ma in grado di essere un insieme caloroso di cavi…
3 - Faro
Moby pare essere incuriosito, nei primi secondi: ci sono punti di contatto con Play, ma poi è un airone che seduce per le zone basse degli istinti, questa molecola che esce dalla sei corde, il cambio ritmo, voci in sottofondo come se fossero in volo nel cielo toscano. E sono punte di contatto con il leader dei Durutti Column: la progressione degli accordi è pura catarsi…
4 - Anesthetic Analgesic
È notte, è timore, è uno scivolio sul manico della chitarra che spiazza, il basso che inonda le onde e la batteria che dà ordine, per un brano che è un insieme di spruzzi e di stop and go solo accennati: quando la poesia moderna riesce a presentarsi, come in questo caso, ci si sente come nei film di Truffaut, ricchi e sistemati per molti anni a venire. La trama ha la faccia del Post-Rock più umido, prossimo a vistose lacrime, grazie a un effetto che circonda l’ascolto e un loop feroce che assesta il colpo…
5 - Naked Valley
Rover prende appunti, come Bernard Butler: qui le note sono ruscelli e un dolore quasi invisibile tocca questi figli degli Adorable, quando lo shoegaze era una miniera infinita. Un film, un fremito e un basso che scivola ai piedi, una creazione davvero notevole…
6 - Too Beautiful To Die Too Wild To Live
Eccolo, il diadema, il nucleo di ogni partitura che entra nella zona della bellezza del cielo: enfatico, ermetico, benedetto dalle sue zone che sembrano necessitare di avamposti della forma canzone. Lo splendore di strofe e ritornelli senza voci è una emozione purissima…
7 - Interlude
La porta si apre lentamente, come un intermezzo con pennellate delicate, un tremolio che arriva alla punta delle dita, pochi secondi che sanno creare tensione: anacronostica, perversa grazie al suo abito lungo e nero in un giorno di sole. Sono frammenti di suono in fondo al mare…
8 - Falls Road
Il Vecchio Scriba non ha esitazioni: in questa traccia vive la maturità, lo studio, le ascensioni algebriche di tensioni alla ricerca di una perfezione che la band sa creare. Tutto fluisce nel delicato meccanismo di nuove pagine che si aprono secondo dopo secondo, spiazzando, generando intensità sino alla rullata: da quel momento è una penna di luce che scrive la storia, un brano lucente, glorioso, che merita il punto più alto del podio…
9 - Blue Hour
Immaginate Peter Gabriel in vacanza in Toscana, mentre cerca visi e strade, per trovare la pace dello sguardo. Improvvisamente, arriva Blue Hour ed è una cavalcata di notte che accende il sogno, la volontà di esserci e non di fuggire. Il brano è una sfera di catarsi tenute a mollo nella dolcezza, negli episodi di un crocevia che vede chitarra, basso e batteria parlare la stessa lingua, con ruoli che finiscono per essere un calendario del suono in ascesa…
10 - Santa Monica
L’inizio spiazza, sorprende, offre un lato non conosciuto della band, che pare aspettare il momento giusto per azzannare l’ascoltatore con un incipit elettronico di notevole fattura: semplice ma ben riuscito.
E invece no: Santa Monica è una proiezione futura della band, meno legata ai generi musicali amati ed esibiti, piuttosto un sondare ciò che verrà nelle loro anime così curiose. Perfetta per i pomeriggi in cui i vizi cercano spazio, la canzone gioca con gli innesti e con riferimenti quasi impercettibili. Un gioiellino che diventerà gioiello quando chi ascolta avrà imparato a vedere capacità multiple…
11 - Struggles & Feelings
Quindici secondi iniziali: come attendere la pioggia con due note e ritrovarsi poi con un pianto che cade dal cielo, una distorsione tra il riverbero che impasta la gola, il drumming che scuote e la tensione che visita gli arpeggi. La strategia della sonda è quella di avere la memoria degli incontri. Così fa questo pezzo, che estende il campo di azione per generare trambusti, ben voluti. Le cavalcate di The Edge degli U2, se utilizzasse questi effetti, saprebbero rimanere in eterno. Ci pensa la band italiana a prendere l’ossigeno e a circondarlo di perfezione…
12 - Tribeca
La conclusione è un brindisi con chitarre che sanno ricordarci il secondo album dei Cranberries e certe soluzioni di Matt Johnson dei The The, ma poi è tutta farina del sacco di questi ragazzi che terminano con il brano più epico, struggente, mettendo anelli di sabbia nei cambi ritmo, una vivace melodia che conduce alla danza e una trama che sembra costruita per chiudere i loro concerti. Poi: la sorpresa di un crooning, maschile, a generare il connubio ideale per enfatizzare ciò che si è appena ascoltato. Dove non osa il Post-Rock ci pensano questi magnifici Platonick Dive…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
13 Settembre 2024