Midas Fall - Cold Waves Divide Us
La corsia dell’eleganza ha nei sogni uno spazio ragguardevole, un pullulare di frammenti integri che appassiona le anime in ascolto e in visione, trasportando le ombre sotto i riflettori. Ciò che ne consegue è estasi in ripetizione, tra oscillazioni e tremori. La musica può rappresentare tutto questo come tramite, indagine e una fitta ragnatela contenitiva. Se a farlo è la band scozzese Midas Fall, allora la paralisi del miocardio è garantita all’istante, come genesi di fragilità in cerca di ossigeno. Il duo (ora trio) compie il miracolo più notevole che si possa solo lontanamente sperare: scrive una genuflessione dal vivo, un concerto invisibile, direttamente nelle nostre stanze, come una vicenda privata, unica, difficilmente evitabile, per segnalare un primo incandescente atto di totale innamoramento, come coda di una lunga carriera in cui il quinto disco non fa altro che raccogliere, seminare, inventare dalle ipotetiche oscillazioni umorali un impianto definito, preciso, una invasione di corsia del nostro finto equilibrio.
Tabula rasa sì, ma piumata, ossigenata di algida bellezza proteica, in mezzo al circolo di emozioni che sono solo la coda di un palazzo mentale che verbalizza istinti, radiose giornate in penombra e la fatica di manifestare il talento di queste composizioni che attraggono il battito verso la fatica del contenerle tutte.
Più intimo, meno sognante (pare un ossimoro, una bestemmia, ma prima o poi capirete che non è così…), crudo con la malinconia che sottolinea la potenza di queste gocce che, anche quando cadono forte, sanno usare il rumore come una piuma inzuppata di sole…
Elizabeth Heaton e Rowan Burn sono due fate che ignorano il successo, le pose, i bisogni pubblici che seminano solo dispersioni. Loro raccolgono i respiri, i pensieri, e, con una frusta da cucina, fanno condensare la loro intima ricerca in un casco dorato dove tutto viene amalgamato e messo nel frigo del cuore. Sono cresciute, hanno generato pillole sonore non come figli ma come pennelli e colori da gettare nel vento. Ora più che mai vivono di giochi continui, un andare e venire dal nucleo delle forme, un utilizzo attentissimo delle diramazioni, nel quale post-rock, progressive e shoegaze si incollano alla materia della penetrazione mentale, operando la scelta che ogni bisturi sia capace di non fermarsi sul primo strato della pelle di queste canzoni. Questo spiega l’intensità, la contenuta esplosione per generare, piuttosto, un fragore più silente, circostanziato dal bisogno di usare le note come colla, come carta su cui scrivere un dna incontenibile: quello della descrizione.
La volontà di chiamare a sé Michael Hamilton, anche lui polistrumentista e produttore, ha permesso l’ampliamento della fase di scrittura dei brani, come se davvero un membro in più rendesse questo “concerto” che è Cold Waves Divide Us un irripetibile scambio di doni, in un periodo non di grazia bensì di reali capacità in cerca di un fissativo permanente, per permettere a questa esibizione dal vivo di non terminare mai.
Ci si ritrova nella visione del mondo, nella serratura di una porta dove ognuno di noi vive la segretezza della sua esistenza, nella discarica di sogni sbiaditi, di volontà prive di mordente per poi anestetizzare la gioia al fine di farla rinsavire con queste piccole note che, incastonate, diventano massi pieni di fiori di montagna, in volo, incantato e incantevole, senza fine.
I tre sono l’imbuto nel quale cade ogni lacrima, ogni intima resurrezione emotiva, perché sanno scavare nelle peripezie delle singole espressioni delle note musicali, per correggere invece la scelta non astuta della musica contemporanea di cercare il successo. La vera arte dà sempre le spalle al pubblico…
Cunei, petardi, baci col rossetto blu e damigiane di vino entrano in queste canzoni per inebriare, stordire, commuovere e fare dell’ascolto un inferno roteante.
Musica eterea che scalda il fuoco sepolto nelle vene, adrenalina che esce dall’anestesia di ascolti mediocri, elaborazioni continue sulle strutture che rendono ogni secondo di ascolto un millennio nei battiti del nostro cuore. Angeli storditi, che vagano tra le culle di bisogni a noi non concessi, riproducono incanti e suggestioni, disegnando impeti e riflessioni, congiuntamente.
I movimenti, le torsioni, le conduzioni delle chitarre si legano agli archi, al drumming raramente potente, al basso che misura la condizione di forma dei sogni e li sorregge e poi all’espressione dell’ugola, su cui prima o poi il Vecchio Scriba scriverà un libro.
Ma, diversamente da tutti i colleghi, vorrei sottolineare che le parti musicali sono il vero pozzo pieno di petrolio, la miccia della voce, un abbraccio che consente a ognuno dei membri della band di esplorare un universo diverso. Certo, la sua è la migliore degli ultimi vent’anni e il suo cantato è di una bellezza semplicemente devastante, incontenibile, la madre di ogni lacrima dai brividi accesi, una molla sensoriale che imbratta il viso di liquidi in dispersione continua.
Ma non è sola. Non solo lei conquista e penetra. Si deve avere il coraggio di affermare che la musica perfetta suggerisce alla voce perfetta di stare sul medesimo palco e di portare l’ascolto laddove la mediocrità non ha accesso.
Arte come nuvola in attesa di un tuono, di un tuono in attesa di dormire su una nuvola, con un pianoforte in mezzo e degli archi a sillabare vocali desueti, nella fantasia di un incontro inverosimile.
Non è Dream Pop, non è gotica, non è un genere: ciò che è rimane relegato al mistero. Pellicole di film mai esistiti, dipinti in una bottega lontana dall’accessibilità, consentono al freddo contenuto nel titolo dell’album di tremare, di divenire frammento frenetico, di far evaporare le pretese e di conturbare l’animo. Incalzante, incastrato nella pillola magica del non conosciuto, questo percorso di note crea sinfonie prog in modo velato, tuffandosi nella modalità del goniometro e dell’inchiostro: definire, senza sbavature.
La grazia, la piuma che non accelera troppo, il dondolio della voce tra graffi e grappoli di svisate, introducono il pensiero in una locazione mai considerata prima: la confusione dello smarrimento davanti a questa bellezza insostenibile.
Gli archi, i synth, non solo aleggiano ma puntano i piedi, reclamano spazi e penetrano i timpani con quella dolcezza che disarma e sovrasta. Uniti alla voce e alla chitarra diventano piombo con i petali in bella vista…
L’avanguardia, l’originalità sono terreni che appartengono alla memoria (in ambito musicale sicuramente), ma quanto è bello constatare l'eccezione che vive in questo sciame, in questo alveare, in questo ruggito dalle corde gentili?
Armonie evocative, lampi di note, colpi di basso sincopato, patterns quasi invisibili e poi il lampo, in un sudore del sangue che dalla Scozia parte per fare un bel viaggio dentro la nostra oscena ignoranza. Ecco, quindi, questo disco divenire il maestro di una gioia perversa.
Il suono è onnivoro, divora le pareti del pentagramma, e descrive perfettamente quanto tutto derivi dalla musica classica, da quel pentolone che ancora oggi fa bollire l’acqua dell’arte musicale, senza tentennamenti. La quiete disturba chi vive maremoti, lo spettina e lo fa imbestialire. I tre, giovani marmotte nella foresta del dolore, cercano le foglie per far diramare le pellicole intuitive, oltrepassando i confini del conscio, immobilizzando l’inconscio, per poi stabilire i turni di lavoro dei pensieri che nascono, si inseguono, ci inseguono, e ci abbattono.
“Fredde onde ci dividono”: questa la traduzione del titolo, un inganno, una verità, una precisazione, un perfetto escamotage per convogliare l’attenzione sui rapporti, con se stessi, con gli altri, per creare una giungla emotiva nel polo artico. Il freddo non scioglie bensì sceglie solamente la temperatura migliore per conservare e, quindi, per ricordare. E l’album ci ricorda di come gli antichi fragori abbisognassero di un richiamo, come una cocaina mentale da tirare su, nel nostro cervello annebbiato.
Piangere è un regalo che l’anima offre alla tua convinzione di essere più forte di ogni cosa. Quando le canzoni cambiano il tuo umore e il flusso di pensieri diventa intollerabile e ingovernabile, allora ti rendi conto di trovarti davanti a un potere enorme, non uguale al tuo e quindi fai i conti con una fragilità enorme. In questo caso positiva e capace di renderti un pulcino nel suo primo giorno di vita. Queste sono informazioni ignote, non brani, pillole di atomi in una sfera quadrata, non brani, fiamme gassose in cui svenire per la bellezza e sicuramente non per la loro tossicità, ma mai brani: sarebbe ridurne il valore se pensassimo questo.
I Midas Fall giungono nell’emisfero del vuoto: il loro sublime talento (non toccabile, ma fruibile solo a patto di non entrare nelle loro discariche gassose), scende nel perimetro della perfezione con l’unico vero Capolavoro degli ultimi dieci anni musicali.
C’è un noto e un ignoto che insieme squarciano il certo e lo programmano per una fuga doverosa.
Se proprio vogliamo considerarlo un album, diciamo pure che le moltitudini forme di comunicazione qui vengono assemblate e amalgamate per lasciare del tutto esterrefatti.
Spostiamo la luce, dietro le nostre spalle, ed entriamo in questi crateri floreali, uno a uno…
Song by Song
1 - In the Morning We’ll Be Someone Else
L’inizio di questo capolavoro è un’indagine della forma stilistica, un accenno dei nervi, un battipanni che fa cadere la polvere: asciutto, melodico, nucleare nell'effetto di una intimità che frana, utilizza l’atmosfera del sogno, con la lentezza e il drumming che tenta di fare avanzare i pennelli di questi fragori tenuti lontani, mentre la voce prende per mano la parte elettronica del pezzo, nell’avamposto chimico di un’eterea manifestazione di luce che se ne va, abbandonando ogni paragone con quello che la band aveva scritto in precedenza. Ouverture e tortura: si piange subito con la chitarra shoegaze che alza le note verso un cielo lontano…
2 - I am Wrong
Il ritmo entra come lo spettacolo di una foresta decadente in fase di contenimento: il piano prospettico è quello di una corsa, invece, sebbene la cadenza musicale suggerisca una danza tribale, la tristezza e la malinconia governano queste pillole di chitarre antiche, molto prossime ai primi anni Ottanta, in cui per dire molto bastava poco… La coda del brano è un circuito elettrico di nuvole e drumming che ipnotizza la forma canzone, per concedere il ritorno di Elizabeth che rende giustizia con la sua disciplina vocale.
Diversi i generi musicali che qui fanno la muta, si incrociano per poi essere spettatori negli ultimi secondi dove tutto diventa sintesi…
3 - Salt
Memorie di Evaporate tornano, ricordandoci il loro ultimo album di cinque anni fa: vi sono composizioni nate per essere frastuono dentro la sei corde, con il supporto di vocalizzi eterei, archi quasi pudici e l’orchestrazione che passa dall’antico al moderno con disinvoltura, per poi divenire una pillola del post-rock più addentro alla tristezza e alla miseria…
4 - In This Avalanche
I testi di Elizabeth sono punture, la musica il tessuto su cui lei spazia nella sua contemplazione dolce e gentile solo all’apparenza. Un carillon, sotto forma di loop, spiana la strada a una armonia che centellina le energie, per poi esplorare il cielo quando la voce si chiude nel silenzio. Il pianoforte e il synth fanno l’amore con una chitarra che odora di Dream Pop ma scevra da condizionamenti. E infatti non manca l’appuntamento con un’attitudine fantasiosa che la porta altrove. Una ninnananna sa essere anche una perfida ma incantevole freccia…
5 - Point of Diminishing Return
L’unico brano strumentale è invece un coro gregoriano atipico: tutto si eleva alla preghiera, moderna, atea, sganciata dalla fede, per divenire un parto di post-rock vicino a quello dei Leech, per dare alle note uno spazio su cui inserire inserti e trame che ne concludano il percorso inventando la regola del limite improvviso. Glaciale, austera, di una tristezza sublime, la canzone fa da ponte perfetto tra la prima parte dell’album (attenta e premurosa) e la seconda (rantolante con un giacca di seta tra i capelli), al fine di stordire i sensi e captare l’attenzione: dove una splendida voce si assenta può esistere una musica che ne riproduce l’effetto e ciò accade, inesorabilmente, in questa occasione…
6 - Monsters
C’erano una volta i Mazzy Star. I Low. E una pletora di band che cercava la voce per perfezionare il percorso artistico. Accade, in questo caso, che due universi paralleli si frequentino. Nell’attesa tutto diviene uno straziante episodio in cui le chitarre guardano l’orizzonte sottile tra post-rock e shoegaze per divenire la forma progressiva di un rock antico. E quella di Elizabeth uccide ogni ritrosia, sino ad appannare il vetro di singhiozzi dati dal rullante e dalle chitarre in esplorazione gassosa…
7 - Atrophy
Dove finisce il cielo vive Atrophy: il senso di morte tra le bolle di un cantato che violenta il cuore e un’orma di chitarra che avanza sino a divenire un sogno etereo e rarefatto, ci convincono che questo episodio sia talmente in grado di distruggere le difese che l’anima si concentra nello straziante commiato di forze in caduta libera. Un mantra che lascia le bave nel mattino di una intuizione clamorosa: disegnare per davvero il luogo in cui tutto finisce…
8 - Cold Waves Divide Us
La sintesi, la profezia, la ventata passionale di un giorno in cui si stabilisce il contatto con il disagio: questo brano è la cassaforte del nuovo impeto della band, la sonda che dalla lentezza e dalla precisione concettuale esce allargando il ritmo, il perimetro visivo, e fa brillare il loop e il delay della chitarra per concentrare una verità musicale per loro indiscutibile, che è quella di non ripetere mai un giorno di pioggia senza concedersi ingressi multipli. Ecco che allora i generi musicali qui presenti sono diversi ma, data la fattura della composizione, nascondono il naso lasciando intravedere solo le braccia…
9 - Little Wooden Boxes
La natura diventa nota musicale.
Il respiro degli strumenti un battito di ciglia.
Parole come cigni in un volo inquinato.
Ciò che vive nella penultima composizione dell’album è un rafforzativo, gentile e pulito, della cifra stilistica di questo incredibile viaggio: dilatazioni, incursioni di singoli accordi e la lentezza della progressione così vicina al Post-Rock senza però entrare in quei parametri. La voce, con la sua modalità evocativa, esplora la progressione senza seguirne le ombre, ed è miracolo puro di un combo perfetto…
10 - Mute
L'incipit è cavernoso, un rottame su un’onda nervosa, un malessere che si affida alla voce per creare un boato breve, non secco, ma perennemente costretto dalle poche note di un piano stregato e pregno di malefica bellezza, per impedire al tutto di morire.
Non necessita di ritornelli, di espedienti beceri in quanto è del tutto simile alla modalità tipica dei vecchi Bad Seeds di Nick Cave: dare al basso lo scettro e poi investire sul mantello fluorescente di un apparato musicale che lo supporti.
Per approdare alla dilatazione, alla duttilità dello Shoegaze che governa il mistero e al Post-Rock, qui in veste di mago contenitivo.
Sacra, vergine, nefasta nell’accezione positiva, la canzone chiude come una goccia di rugiada questo Capolavoro: si festeggi la bellezza tra il roseto di lacrime senza fine…
Alex Dematteis (Vecchio Scriba - Old Writer)
Musicshockworld
Salford
7 Dicembre 2024
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