La mia Recensione:
Tout Debord - Ça ne veut rien dire
Ci sono città che dormono respirando la follia degli allori che impediscono agli arti della mente di muoversi, di ossigenarsi, di continuare a produrre cibo essenziale per giustificare il presente.
Parigi invece no: instancabile, intelligente, prosegue il suo cammino creando arte in tutti i settori, con quella dimestichezza che sicuramente è albergata nel suo DNA.
Poi, in quanto a originalità, possiamo benissimo chiudere entrambi gli occhi: la qualità non manca e la vittoria del movimento sulla pigrizia è accertata, verificata, sublimata.
Lo scriba scruta, bussa alle porte della città, tutte, ed entra soddisfatto in quella aperta da Leonid Diaghilev, colui dietro e dentro il quale vive l’idea di portare la musica di Tout Debord nella stratosfera sopra il polo artico.
In questa poltiglia di elettronica propensione alla danza schematizzata ed essenziale, vi sono schizzi sublimi di pennellate estasianti, un cercare il trucco per far pendere l’ascolto verso il sacro cerchio della dotazione crescente.
Sedici minuti scarsi, cinque composizioni e la certezza che siano più che sufficienti per inquadrare musica raffinata e potente da essere in grado di instaurare una felice dipendenza grigia.
Sì, grigia, come l’atmosfera che circonda le nuvole sopra i camini di fabbriche operative ventiquattro ore al giorno. L’elettronica basilare e contemplativa inglese della seconda metà degli anni ’70 sembra aver attratto Leonid, portando fuori asse il solito nazionalismo francese.
Quindi? Stupore in armoniosa proliferazione si presenta e cementa i grazie che abbracciano queste canzoni, che spaziano attraverso i generi musicali ma sono sempre pulsanti di buongusto e precipitazioni emotive.
La musica proposta è quindi generosa, vivace, dentro le particelle velenose di un presente che dimentica il sole, viaggiando sulle dance floors della capitale francese, come energetica dimostrazione di un ribaltamento nei confronti della concezione di quale sia la parte più desiderata di ogni giornata. Qui sicuramente è la danza, il desiderare occhi chiusi che producono sogni che sembrano essere stimolati da questo esercizio sonoro sempre attaccato alla minimal wave più contemplativa, alla Coldwave più raffinata, al Synthpop meno avvezzo alla facile digestione e ai parallelepipedi di un elettrofunk sublime.
Facile immaginarlo con gli occhi verso le sue tastiere, ricoperte di riflessi ’70 e ’80, instancabile, mentre studia la mappatura dei suoni di quegli anni per cercare libertà di manovra, indipendenza, per potersi staccare da paragoni che gli toglierebbero poesia, perché è proprio quest’ultima a regnare violentemente in questo Ep. E si presenta nella tessitura di trame spesse di storie, con strumenti e stili che già da soli sanno riempire gli occhi di acqua in movimento.
Ci si ubriaca di impalcature essenziali ma potenti, efficaci, mancine di sicuro, perché in questi brani il diavolo non ha bisogno di provocare facilmente dolore: altri sono gli obiettivi e te ne accorgi alla fine dell’ascolto, quando l’energia ti ha abbandonato.
Con richiami evidenti a fare dei loop i fedeli alleati per attirare consensi e slanci, tutto trova posizione nel delirio del piacere che modifica continuamente direzione e modalità.
Corriamo a guardare queste canzoni da vicino e potrete sicuramente celebrarne la bellezza…
Song by Song
1 Les gens sont les gens
Ed è subito Synthpunk a livelli acidi, in una pozzanghera dove al posto del fango vediamo danzare farfalle piene di bracciali Synthwave: tutto è robotico e gelido, la melodia però presenta il volto nel finale.
2 Ça ne veut rien dire
Si prosegue con un ritmo e uno schema apparentemente simili, ma in questo frangente il synth disegna volti cupi e il cantato fa da contrasto solo per quanto concerne le linee melodiche. Ma è un momento che viene anestetizzato da un suono metallico, capace di circondare i fianchi della canzone.
3 Aveugle
La canzone divina arriva ed è estasi glaciale, lo sbarramento del potere del sole. La parte ritmica è incessante, i toni bassi della tastiera sostengono il cantato che è un grumo di sangue ripetuto.
4 Le miroir
Il livello qualitativo si conferma a quote alte: il brano raggiunge le zone di una Darkwave timida ma robusta, un tracciato di attesa crea il pathos che governa e strega il nostro respiro. Il cantato si abbassa ulteriormente per scavare il terreno dove si balla tra gocce di nero.
5 QCH
L’ultimo visibilio sorprende: si cambia panorama, mood, saltando nella Yugoslavia dei primi anni ’80 e nel Belgio fertilissimo. È la testa che pilota il tutto, in un sentire l’ebm come un flash che si contamina con bisturi elettronici di grande capacità nel tagliare la pelle e concedere spazi al prurito di una selvaggia Coldwave francese.
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
22 Dicembre 2022
https://tout-debord.bandcamp.com/album/a-ne-veut-rien-dire-detriti
https://open.spotify.com/album/2zcnVLuMRh5h36iYTFTkv2?si=phzhk5YxTR-DCckZ8eypBA