Adrian Borland - Beautiful Ammunition
“Lo stress, l’ansia, la depressione nascono quando ignoriamo chi siamo e iniziamo a vivere per piacere agli altri “ - Paolo Coelho
Ci sono anni che assomigliano a delle tempeste, precipitose, vogliose di resettare il sistema Terra, in tutte le sue funzioni.
Nel 1994 uscirono Superunknown dei Soundgarden, No Need to Argue dei Cranberries, Grace di Jeff Buckley e venne registrato l’Unplugged dei Nirvana.
E poi Adrian Borland.
I cantanti di tutte queste formazioni sono anime che ora si esibiscono nel cielo, tra disagi, agi e perlustrazioni per noi inaccessibili.
Se il Vecchio Scriba deve scegliere quali, tra questi album, hanno saputo miscelare meglio il sogno, la positività, l’ombra, il gelo e il disgelo, il flusso di impeti in cerca di luce, è indubbio che quello dell’ex leader dei Sound sia quello a cui guardare con più profondità, dato l’enorme flusso di elementi che ha reso il suo terzo ma primo vero disco solista quello più vicino al miracolo umano.
Vi sono segnali di arcobaleno, schizzi di una mente che cerca di riparare i danni di un circuito leso e indebolito da abusi precisi, come sono anche presenti paracaduti, fionde, il sudore di una slavina che nella scrittura della musica cerca uno specchio sincero. Adrian crea un insieme di canzoni con l’intenzione di ripararsi ancora di più dalla disillusione, lui che aveva investito sogni e realtà per portare il suo talento sul palco del mondo. Non aveva fallito, così come i suoi compagni di viaggio che avevano fatto dei Sound dei cavalieri dalla bella divisa ma perdenti. Qui sembra di vedere (finalmente, aggiungerei) uno scrittore in grado di adoperare ponti e riflessi per attingere a generi musicali poco praticati o difficilmente associabili al suo percorso. Coraggioso, epidermico, intransigente, dolce, romantico, non manca di dare pennellate della sua psiche frustata e frustrata, ma con l’intenzione di mettere una candela nei versi e soprattutto nell’impianto sonoro, dove le chitarre semiacustiche prendono il sopravvento e prova a giocare con i cambi di atmosfera, di ritmo, per condurre la sua potente sensibilità nei bordi di una costruzione più pop e cantautorale, sfiorando i sentieri di Leonard Cohen, Tim Buckley e Neil Young. Niente paragoni, ma solo l’intenzione di mettere in evidenza la vera indole di un’anima che cerca di alleggerire le lame taglienti della sua chitarra elettrica e della sua voce, che, in questo lavoro, si attesta su un registro medio-basso e quando cerca il cielo lo fa senza gridare, piangere o intenta a far sentire la mancanza di ossigeno.
Il pronome personale Io viene utilizzato all’interno di una quasi totale assenza di interlocutori, e sembra di trovarsi nel vascello di uno Storytelling pieno di acqua da cullare, curare e spargere lontano da quelle dita che in questo disco preferiscono deviare la corrente elettrica per favorire luoghi in grado di offrire un minimo di serenità. Se si scava all’interno dei testi l’amarezza, la delusione, la rabbia vengono sostituite dall’impotenza, la rassegnazione e una incredibile positività che sbuffa, spinge, vuole emergere e nuotare in quei giorni che paiono costruiti per dare ai suoi piedi una strada più sicura su cui camminare.
Assistiamo a un processo concepito ed eseguito quasi totalmente da Borland, mostrando eclettismo, determinazione e la volontà di quella intimità che in qualche modo si era sempre negato. Rispetto ai primi due lavori senza i Sound questo pare essere un colloquio riservato con una mente che si sgancia dai propri cliché per strutturare nuove ipotesi. Certo, la produzione è vicina alla perfezione, le canzoni, pur non mostrando l’idea di essere inclini alla zona della conquista della massa di ascolti (non ha mai corso il rischio, per dire la verità, e sicuramente è stato meglio così), sembrano affermare una indipendenza, come se il momento dovesse essere storico soprattutto per loro. Ma si ha una strana sensazione: si avverte come le sedici edere siano piene di un veleno dalla faccia ingannevole, come una truffa che il rock non può più permettersi. Adrian cerca di scrivere ballate atipiche, spesso forza il colore del suono, alcune volte impasta la zona acustica e quella elettrica come un clown che gioca, maldestramente (ma solo apparentemente) con il dolore, per poi pentirsene e tirare giù la saracinesca e farle immergere nel solito buio…
Si piange, con una levatura spirituale indenne dallo scorrere del tempo, per sorridere e abbracciare il futuro e poi quella canzone nella quale sembra dipingere un raggio di sole mai visto prima: la porta è aperta…
Ma Beautiful Ammunition è un coriandolo che conosce il modo di perdere i colori, di cadere velocemente, di finire incastrato sotto il tappeto, di appiccicarsi alla pelle, come un piacevole fastidio da cui è impossibile separarsi. Il suo cantato fa flettere i famosi nervi, calcola spazi nuovi, perlustra traiettorie visive inimmaginabili e pare correre lentamente, in un ossimoro doveroso e alla fine straziante.
Niente da fare: la sofferenza non l’ha abbandonato ma gli ha permesso, perlomeno, di alzare lo sguardo e di fargli credere che il presente e il futuro non sono più nemici che si guardano in cagnesco.
Quando i toni si fanno drammatici, la paura ci stringe il cuore, si diventa complici della sua fragilità e le lacrime si mischiano.
Il lavoro più delicato nei testi è accompagnato da graffiti sonori che sembrano lontani dalla drammaticità, ma spesso si nota come nessuno possa rinunciare all’altro: la guerra delle parole, le quasi farneticazioni, i punti più bassi, vengono come redarguiti dal pentagramma che vorrebbe una scrittura svincolata dalla tristezza. Missione impossibile, ma tutto ha rischiato di raggiungere i colori della maschera di Arlecchino. Quanta bellezza, inconfutabile, offre questo esercizio, questa lotta con il tatuaggio di un armistizio, che si palesa nella totalità di un album che non fotografa ma scrive il destino, come una identità postdatata che troverà la sua precisazione e la sua eterna forma dolorosa il 26 Aprile del 1999…
Ora non ci rimane che uscire da quella porta aperta, prendere Adrian per mano e andare a fare una bella passeggiata con questo fiume dalla faccia pulita che, se però ti soffermi a guardarlo bene, nella sua oscena profondità, saprà farti tremare le gambe…
Song by Song
1 - Re-united States of Love
“Redraw the map, push the frontier back”
Un inizio che sembra un congedo: non c’è nulla di chiaro se non nelle note di una chitarra e di una batteria che cercano di stoppare le parole, ma niente impedisce alla voce, al coro con Vikki Stilwell (presente in diversi episodi nell’album), di tracciare un sorriso…
2 - Open Door
“I’ve felt the darkness of the world, but now I need some light”
Lou Reed si affaccia, come paiono fare i Church e gli Alarm, in una adunata che odora di anni Ottanta, con il canto che cerca appigli nel proprio passato. Incandescente in una giornata di pioggia.
3 - Rocket
“We could blast right of here if you put some thrust in me”
Gli applausi del cielo cercano i polpastrelli di Adrian e la sua ugola: come un racconto di Joyce, tutto pare anelare alla primavera. La chitarra elettrica sembra in odore di e-bow, ma poi scivola in un semi approccio blues…
4 - Stranger in the Soul
“But I don’t feel the pain that loneliness brings”
Uno degli episodi più toccanti di questa anima pungente: scava, annaspa, con una chitarra circolare che cerca di estraniare la solitudine dai suoi fianchi, in un groviglio di emozioni nel quale nulla cambia ma si vuole fingere il contrario. Lo stop and go ci mostra la delicatezza, note quasi spagnoleggianti, e un sole incline a cadere…
5 - Break My Fall
“You’ll break my fall and my heart will never know”
Echi iniziali dei Cocteau Twins vengono immediatamente stoppati dalla voce di Adrian che in modo cadenzato avanza nella trappola della realtà, sgomitando con leggiadria nel cunicolo della depressione…
6 - Station of the Cross
“I can’t relive each moment when I got too close to truth”
Il programming trova l’apoteosi, nuove soluzioni cavalcano la scena, in una veste musicale eccellente e piena di novità. Gli accordi del piano sono baratri, mentre la voce angelica vola nel labirinto sentimentale colorando la fiducia e fermando il dolore…
7 - Simple Little Love
“They took apart your simple heart with their calculating minds”
Il ritmo torna a farsi vicino al Country, con la spinta americana del sogno più famoso del mondo che entra nei versi, per poi catapultare l’attitudine australiana dei già citati Church in una girandola ritmica altalenante…
8 - White Room
“Can’t you see how this splits me then you’ll see how I crack”
I Radiohead hanno saputo trarre spunto, come molte altre band, da questo brano irresistibile e straziante: anche il dolore ha una poesia nel suo baricentro e Adrian l’ha trovata, registrata, esibita, con la musica che sembra uno scivolo che, partendo dall’infanzia, conclude il suo girovagare nella morte…
9 - Past Full of Shadow
“Between the lines you misread the signs”
Quando l’autore di Winning decide di toglierci il respiro non abbiamo scampo: la produzione perfetta conferisce al brano la giusta dose di drammaticità, in un circuito soffocante che brama la pelle bianca di un’anima ormai spenta. Segnali di arrangiamenti e di arcobaleni pieni di pioggia conferiscono al pezzo il premio Nobel per il maggior numero di lacrime versate…
10 - Ordinary Angel
“I tasted grace and got drunk on bliss”
Si corre, i suoni adiacenti al pube, si cade e si rotola nel prato alcolico di un sogno mai così apparentemente libero, con la chitarra elettrica che spinge Adrian verso il registro alto della voce per accarezzare le nubi dove gli angeli lo attendono…
11 - Lonel Late-nighter
“A song in the sad key from the heart of man tell me not to be ashamed to cry”
Come collegare le ballads degli anni Ottanta a quelle ancora da rodare degli anni Novanta: Borland cerca il ritornello, il cantato che oscilla, per trovare le lacrime libere di sciogliersi. Uno dei momenti più verosimilmente pop dell’intero album: splendido, innocente e crudele allo stesso tempo…
12 - Someone Will Love You Today
“Could be the man who sells you the paper a cynical sparkle of hope in his smile”
Gli U2 saranno gelosi (quelli di Gloria, per intenderci), in quanto Adrian Borland dimostra un talento che gli irlandesi non hanno mai avuto: come passare dall’ironia, alla goccia pop che invoca l’alternative per poi dilagare, con estrema semplicità, in un ritornello gonfio di aria da baciare, sino alle gocce finali di una chitarra in odore di J.J. Cale.
13 - Forgiveness
“But we are full of pollutants”
Arriva l’inverno della mente, i passi si fanno lenti e le ombre cupe, archi camuffati gettano le loro tensioni nel testo che sgomenta ma precisa il percorso di un’esistenza in cerca di aiuto. Quando i due registri di voce si trovano all’unisono non c'è più possibilità di resistere al dolore…
14 - Rootless
“I’ve been sawing through these chains”
Il brano più atipico di questo album, con le sue soluzioni in cerca di approdo, l’inventiva del cantato, una impalcatura che cerca sostegno nel talento. Tutto fugge e probabilmente fa di questo episodio il meno convincente…
15 - In Passing
“These yellow lights are not enough to illuminate this night”
Un arpeggio, un cielo, un bisogno che non trova identità e permanenza: la sensazione è di un doveroso tentativo di mostrare le crepe di una mente che ricorda i giorni passati e si ritrova con i calici vuoti…
16 - Shoreline
“And you wish you had a life at least somebody you could die for, why don’t you open up and breathe?”
Il momento più alto e toccante è riservato alla fine: chi non piange non ha cuore, non ha passioni…
Si entra nella psiche di un sogno, il contrasto con il rumore assordante della tragedia che imperversa nel calendario e la scommessa di non forzare la mano. Le parole vincono, rubano la scena, e la voce diventa il palcoscenico di un teschio che cade nella sabbia ancora ricoperto di pelle e di battiti del cuore. Quando si plana nel ritornello le lacrime si sono già ossidate…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
18 Aprile 2024