La mia Recensione:
Morrissey - Angel, Angel Down We Go Together
"It was written with Johnny Marr in mind and it is the only song that I have written with him in mind, post Smiths. I saw him in the music industry being used and being pushed around and being manipulated and I felt I was in a situation and I thought, 'Look at me, look at you - it's the same, it's a mess and this is as far as we will go' which wasn't quite true in the end but at that moment it felt pretty despairing for both, I felt despairing for both of us but I was wrong.”
Morrissey, 1992
Dovremmo imparare a guardare il cielo come un luogo dove le presenze si avvertono ma non si vedono, dando alla profondità del pensiero l’assenza della fisicità, che tanto banalizza e annulla la verità perché in grado di creare i presupposti delle scelte che si ritengono fondate, legittime, consequenziali.
E allora in questa volta celeste può trovare posto un angelo che accoglie inviti appassionati, profondi, disperati, in un cammino mentale con il piombo: dove esiste una disperazione tutto può divenire ingarbugliato, come un’edera, che non esclude la bellezza ma complica lo sguardo.
Stephen Street, musicista e produttore degli Smiths, mandò a Morrissey una linea melodica precisa, lui la valutò e decise di chiamare John Metcalfe e altri cinque violinisti per poter conferire al brano una poesia greve, dal sapore ottocentesco, da spedire al cielo. L’inizio di una bomba dalle piume color Disperazione trovò nel laboratorio mentale di Morrissey i suoi primi elementi essenziali per poter dare alla canzone l’unicità che era insita nella sua mente.
C’era bisogno di un vortice, di un limite, di poche note, le variazioni non erano richieste: avrebbero fatto tutto il testo e l’interpretazione del bardo di Stretford.
Accordata la voce con i petali di un disastro, date alle parole la guida per una scorribanda personale, i sei violinisti si ritrovarono a sudare di pelvica gioia innanzi a questa performance dove il tempo fu messo in pausa, dove il messaggio era essenzialmente uno solo, ma dalle tante diramazioni.
AADWGT è l’amore nei confronti di premure precise, all’interno di una amicizia andata persa dentro il deserto che secca tutte le cose. E da quel deserto Moz si è preso cura di una fine, l’ha gestita, mantenuta in vita solo per novantanove secondi, quelli che bastavano per dare al dolore la bellezza e l’ultima armonia.
L’invocazione a non commettere un suicidio nel sepolcro notturno è il primo elemento per capire l’enfasi, il dramma, la polvere da sparo che vorrebbe trasformarsi in quegli antichi gladioli che un tempo coloravano le stanze di due amici dalla pelle fresca.
C’è un vestito di dolcezza in questo involucro che sfida l’estate, perché il calore fa morire l’intensità dei colori e quello dell’amicizia più di altri corre il rischio di scomparire. C’è una quota di paura enorme che consegna sia alla musica che alle parole il ruolo di fertilizzare chi disunisce, chi gode nel separare ciò che voleva essere eterno. Ed è proprio l’eternità il ricevente di questa lettera dalle foglie caduche.
In un album come Viva Hate, dove la responsabilità era enorme (bisognava tener conto del percorso di cinque anni immensi e significativi), l’esordio solista era atteso con fiori, mitra, tuoni e tantissime paure da parte di chi aveva visto il ragazzo dalla penna dorata essere uno dei pochissimi portavoce di una classe così infinita e indiscutibile.
L’album piacque, conquistò, ma non uccise il lutto.
Ma Angel, Angel Down We Go Together fu un gladiolo che spuntò dalla sabbia del deserto e rese magico l’incontro per una modalità espressiva mai entrata nel campionario effervescente, potente, devastante degli Smiths.
Si finisce per diventare tutti genitori dalle lacrime in caduta libera, come quelle che Morrissey sparge nelle sue righe dalle rughe appena nate: si rimane sedotti da come la voce racconti questa necessità donando a se stessa il privilegio di una modalità mai cantata in precedenza, abbandonando il concetto di pop per avvicinarsi a quello della musica classica. Ipotesi, tentativi di avvicinarsi alla verità potrebbero suggerire che solo questo genere musicale abbia in seno la propensione verso l’eternità.
Ascoltare questo effluvio ferisce il nostro olfatto, perché i sapori buoni sono lontani dall’essere accarezzati, siamo in presenza di un addio che mostra i suoi polsi lacerati ma ancora innamorati. Allora davvero il pianto infinito può durare per novantanove intensissimi secondi, nei quali la clessidra sembra avere la grandezza di una pietra enorme di una montagna chiamata pena.
Si ha, all’ascolto approfondito e ispessito da una pergamena che affianca le parole di Morrissey, l’impressione che esse siano il luogo del cielo adibito alla melodia e alla frustrazione, con questa vena artistica che stordisce le nuvole. Si vive l’esperienza di una compattezza che vuole lasciare libero il rifiuto al nostro abbandono emotivo per poi sequestrarlo del tutto.
Tutta la vampa che scalda i muscoli dei nostri sentimenti ci indirizza verso la struttura della canzone, che è il vincolo essenziale, voluto, abbandonarsi al quale crea sensi in disunita propensione a fuggire da tutto ciò che eravamo abituati a conoscere del cantante Mancuniano.
Eccolo il rifugio della verità essere grattato da violini gravidi di pioggia dai fianchi graffiati, liberi di avere poco spazio per poter vivere questa storia dal viso scuro che abita le cellule del brano in modo appropriato.
E come uno scontro continuo, la velocità inchioda l’attenzione verso una forma canzone sottile che trova nella parte finale la modalità di farci inginocchiare insieme a un amore che è più forte della vita: l’apogeo diviene manifesto, divinamente.
Due sezioni separate di archi, con struttura e significato, avvolgono le parole per dar loro anche la sensazione che una guerra piena di pallottole melodiche possa finire in un devastante pareggio, dove a vincere è senz’altro il bisogno di tenere tutto perfettamente inserito nell’autostrada vergognosamente felice di un cuore isolato dalla mente.
Non sappiamo cosa abbia deciso l’angelo della canzone: rimane dopo trentaquattro anni il timore che non abbia ascoltato le invocazioni di Morrissey, che l’amore non abbia consegnato a se stesso il respiro che desertifica ogni bisogno di abbandono. Ci rimane in dono un volo con le catene sulle labbra di una canzone che da sola farebbe felice ogni essere umano dotato di buonsenso. Ma non abbiamo dubbi che l’uomo che aveva Wilde dalla sua parte abbia incominciato a creare a partire da questa canzone le tristi connessioni con una solitudine che invecchia anche la più angelica propensione alla protezione di chi si ama.
Abbiamo conosciuto attraverso questo brano la volontà della ricerca dei nemici di chi si ama, le avventure di una mente che, incollata alla sua voce, ha dato alla Storia della bellezza la corona, dalla quale per sempre scenderanno lacrime felici del loro addio al sogno eterno…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
2 Giugno 2022
Words: Morrissey
Music: Stephen Street
Don't take your life tonight
And they give you nothing real for yourself in return
But when they've used you and they've broken you
And wasted all your money
And cast your shell aside
And they've billed you for the pleasure
And they've made your parents cry
I will be here, oh, believe me
I will be here, believe me
Some people have got no pride
They do not understand the urgency of life
But I love you more than life
I love you more than life
I love you more than life
I love you more than life"
💗
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