mercoledì 26 giugno 2024

La mia Recensione: Frenchy and the Punk - Midnight Garden


 

Frenchy and the Punk - Midnight Garden


In una ipotetica giornata nella cucina della musica, non si può mancare all’appuntamento con New York, capace di spaziare nelle proposte, molto spesso succulente e attraenti. Hanno un fiuto pazzesco in quel luogo per riuscire a mescolare, creare, proporre nuove tendenze e lustrare il proprio passato per renderlo sempre eccitante.

Un matrimonio all’insegna della fedeltà verso qualcosa di più di un mero esercizio tecnico: si visita sempre il mistero, l'irrequietezza, il disappunto, la critica, la libertà di movimento culturale per non lasciare quest’arte per terra.

Ci pensa un duo, feroce nella modalità giusta, a spazzare via la noia, la paura, a giostrare la luce dentro un mantello pieno di elettricità e propensioni sismiche notevoli, come un insieme di ore fredde nel cuore dell'estate. Samantha Stephenson e Scott Helland li conosciamo bene: sono amanti della scommessa, mai propensi a copiare i cliché ma  inclini a generare diserbanti nei confronti del loro stesso cammino. Vulcanici, potenti, sperimentano la suggestione accattivandosi le simpatie della successione degli accordi e dei panorami umorali mettendo in combustione parole e tappeti pieni di calore e ipnosi continua, sfiorando i piani emotivi per congelarli in un manifesto ideologico turbinante che disturba l'effervescenza onirica, sviluppandone le onde, con ritmiche increspate di anellini e spilli argentati.


Un insieme squillante, amico della tenebra senza la propensione alla depressione, l’intera opera somiglia a una impronta piena di melma e sacrificio introspettivo, in un duro lavoro di analisi, per permettere ai due artisti di raggiungere vette mai sfiorate in precedenza, pur producendo sempre materiale di ottima fattura. Ma in questo ultimo episodio di una carriera eccitante si vedono eclissi, temporali, si sente l'odore di una sacralità moderna che attinge da simboli in evidente parata.

Una graticola celeste che parte dal Post-Punk per erudire il pubblico di stelle in libera uscita, dentro i meandri di un capogiro continuo, una radiosa avventura fatta di nove episodi, per far convergere il passato di quell’insieme urbano in un incontro dove l’elettricità pulsante di canzoni costantemente ad alto ritmo consentono di sudare e ritrovarsi umidi negli sguardi. Ma esiste un collegamento pieno di entusiasmo nel portare nelle note una teatralità che incorpora il cabaret e lancia frecce, in uno stato di assedio micidiale, acclamando la purezza di stilettate funky camuffate ma che sembrano figlie dei Talking Heads del primo incantevole album. La ritmicità, i giochi armonici di tastiere pazze e voluttuose inducono le dinamiche a essere sempre connesse con la follia. Si visitano territori orientali, si viaggia in Irlanda, ci si sposta nel tempo, ma i riferimenti, ed eventuali assonanze, sono inganni lucenti, meraviglia ed estasi scorticante. 

La furia assume i connotati di una sberla sonora erudita, votata all’insistenza e al non sprecare il calore del sangue nella sua stagionatura creativa. La voce di Samantha è un rosario tenuto tra i palmi delle mani, pronta a volare nel cielo, senza paracadute, priva di paura, modulata e nutriente, che è andata certamente a scuola, facendosi un’idea di ciò che è stato il canto in passato. Buttata la creta sul pavimento della sua cucina mentale, ha generato nuovi vascelli, usando l’ugola come un mulino a vento, dove la potenza e la determinazione sono compagni di viaggi pelvici e profumati di acini d’uva, in maturazione continua.


Il giardino, frequentato di notte dalla band, è un roseto dai colori mutanti: sono i sentimenti che modificano il loro dna e Samantha e Scott sembrano verniciare le indisposizioni, i tremori, i dubbi, con pennellate che sanno stringere il sodalizio con il fremito, circondando la natura e gli esseri umani, con i loro flash sensuali, per consentire al tutto un invito a condensare la vita nella improbabile  chance di sfuggire al loro disegno.

Una innegabile capacità di far sbattere le ali dell'esoterismo e della primitiva forma di esistenza degli impeti naturali umani fa sì che le canzoni siano collegate tra di loro, con una benedizione incessante data dalla melodica propensione a essere rudi ma raffinati, nel palco delle contraddizioni che finiscono per rendere beatamente confuso l’ascoltatore. Un album estasiante che rende il corpo una macchina danzante con le bave alla bocca: non ci si abitua mai ad accogliere composizioni che sembrano nascere mentre le note avanzano. Ed è miracolo puro, vitaminico, una gioia senza finestre che rimbalza sulle pareti di una estatica solitudine.

Entusiasma sino allo sfinimento l’impressione di un capitolo nuovo di questo duo: non solo una macchina da guerra con nuove strategie, non solo una meticolosa attenzione a non rendere le immagini le principali protagoniste, bensì un dipinto dell’istinto perfettamente collegato a un cratere che rivela atomi di terra che scivola dentro i loro frutti, prima acerbi e poi maturi al punto giusto.

Sono brani che si occupano di noi, dilatando i respiri nel loro imbuto, dove la velocità è pari alla intensità, in un gioco spettrale din cui la tensione non viene mai a mancare da parte del loro generatore, e le cellule di una memoria primitiva trovano il giusto tempo, nel candore del giardino di mezzanotte…


È pur sempre rock, un atto artistico, un qualcosa che giunge dall’emisfero del mistero per sostare e trovare residenza nella delirante e meravigliosa connessione con il suono, dove si trovano mini-assoli di chitarra (l’iniziale Midnight Garden, un abbaglio dentro l’ululato di lupi famelici), la massa di gramigna che cerca un luogo nel quale poter correre (Skip Boom), il gothic rock di provenienza Fields Of The Nephilim (Hypnotized), ma che poi vira in un fraseggio funky dilatato e saggiamente incupito.

Con Immortal siamo nel baricentro della perfezione: pop, art-rock, cabaret alzano calici di vino pieno di zucchero sospesi da una chitarra vibrante, con graffi rinfrescati da un arrangiamento perfetto.

Like In A Dream è l’unico brano che all’inizio ci fa pensare di averlo già sentito: Lucretia My Reflection della band di Andrew Eldritch (The Sisters Of Mercy) sembra riproporsi ma è un trucco, un piacevole inganno che dura poco per via del suo proseguimento che ci porta in altri lidi, i loro, di questa coppia artistica che disegna filosofiche strategie, rendendo l’ascolto una continua enciclopedia.

Le atmosfere della sesta traccia (Mr Scorpion) sono un candelabro d’oro, in un palco su cui la tragedia greca trova il suo giusto spettacolo, meticoloso, sensuale, graffiante, che rischiara le montagne in un giorno di eclissi lunare.

L’attacco iniziale di Sleepwalk Shuffle ci ricorda la voracità immaginifica dei Cramps, l’ecletticità degli Xtc, la spigliatezza delle Slits, il mistero dei Talking Heads, per dirigere i suoni in un portentoso riff di chitarra che con i vocalizzi assesta un bel colpo.

Che sia il vostro stupore a ospitare l’ipnotica messa di suoni e la tendenza al cambio di ritmi, di modalità e di atmosfere che fanno di Lighting Up The Sky un magistrale artifizio, con impronte di stivali da cowboy nella saga western di Sergio Leone, per arrivare a sfiorare la spalla di Lene Lovich.

La conclusiva End Of An Era è un processo di spostamento di altostrati nel cielo terremotato autunnale, con un doppio loop, musicale e vocale, che inchioda e ci fa razionalizzare l’esperienza dell’intero lavoro: un lamento gentile, un’acclamazione, un repetita iuvant implacabile e che materializza l’ossessione, fissando la perfezione e rendendoci davvero fortunati…

Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
26 Giugno 2024

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