Sons Of Viljems - Lithospheric Melodies
Ogni grazia offre responsabilità, oneri, consapevolezza e impegno. Quando, poi, è data da una forma artistica fuori dal coro, capace di assumere i volti di chi normalmente non pensa di traslare le percezioni in avamposti sonori, ecco che il tutto conferisce, almeno inizialmente, disagio e confusione.
Il Vecchio Scriba, invece, in questa pulsione, volontà, abnegazione e ricerca prova un’immensa felicità ed empatia per questi due musicisti che, con l’aiuto di altri, hanno creato un luogo di migrazione, di pertugi mentali, di terremoti con uno spazio di sicurezza.
È un danzare sulle onde di un magnetico laboratorio di analisi, una sonda continua che raggruppa le stagioni dell’esistenza, i trascorsi occupazionali, le sintesi e mai le esagerazioni, per dare forma a un concept linguistico ascensionale. Tutto è raggruppato nella intelligente forma mai didascalica di incontri filtrati, di esperienze con il messaggio recepito e trasformato in un dipinto affascinante che abbraccia epoche, generi e stili musicali come una rete che si appoggia al cielo.
Sette lunghe passeggiate tra ambienti che accolgono il beneficio di stratificazioni conosciute perfettamente e allineate una dopo l’altra senza necessitare della forma canzone, ma non per negare lo spirito e il bisogno che questa modalità possiede e determina, bensì al fine di strutturare l’allungamento dello spazio di manovra mentale, fuori da un concetto che sarebbe decontestualizzato per questi due poeti.
L’uso, millimetrico, della suggestione, avvalora il matrimonio del basso e della chitarra, qui amalgamati dal potente ardore di non chiudersi nella suggestione egoistica di un breve riff, di una pulsione, ma di rendere fertile il punto di partenza come il ruscello che sogna l’arrivo nelle braccia del mare. Solo così si può generare l’espansione, l’allungamento, lo stretching mentale per coniugarsi allo sguardo di un messaggio che non abbisogna dell’impiego dei testi per essere intuito. Occorre uno sforzo, ma poi la visione cinematica di questo album di debutto sarà un'incredibile massa di nuvole in piena emozione continua.
Si potrebbe affermare che siamo alla presenza di una maniacale cura dei dettagli: parrebbe un complimento, tuttavia sarebbe più gradito dare spazio alle enormi qualità di armoniose fantasie che fanno dei nostri occhi nuovi e storditi viaggiatori di un inconscio che, è bene ribadirlo, abita sempre lontano dalle nostre attenzioni. Le note sono particelle ibride ma piene di calore e disponibilità: la loro consequenzialità è consapevole, attiva nell’essere un incontro che non cerca l’equilibrio bensì il contenuto, in un impatto che estrapola i sensi dal loro tepore. Si palesano elementi di nu jazz, che però hanno la cortesia di non essere prevaricanti, di concedere spazio non tanto ad altre incursioni, ma piuttosto di abbandonare la propria soddisfazione di appartenenza per confluire in un circondario che parte dalla montagna percettiva per gettarsi nel mare olfattivo.
Il ritmo in questo strepitoso lavoro è il condensante cerebrale che celebra l’estasi, non facendo del nostro corpo un ballerino: apre il contenuto e lo specifica come fanno le nuvole nel cielo, per darsi coraggio innanzi alla immensità che le circonda. Ecco allora l’alternanza di forme tribali, di pattern precisi, di escursioni che non provocano lacerazioni e aumenti del battito cardiaco: la lentezza è quella tipica dei primi vagiti post-rock, dove le linee melodiche non desideravano strutture che le appesantissero.
Il dolore, come proposta di accettazione, è parte integrante di un universo cauto, mai precipitoso, per far avverare le riflessioni, dove non esistono indugi, lacerazioni o gravità insostenibili. Perché, in quanto peculiarità umana, questo sentimento è irrifiutabile: appare non attraverso lamenti o grida, scegliendo invece di non essere abbandonato gravitando attorno ai raggi solari, lenti, caldi, che tolgono l’umidità soffocante che tale cancro invece sostiene. Il disco è una fascina di onde sorridenti, figlie di studi e rarefazioni, un attraversamento pedonale dei sensi.
Solo in un brano (Silence) si presenta un cantato che sembra disarcionare il significato del vocabolo, per accompagnare il suo sussurro nell’acqua che porta queste entità sonore verso la magia che inebria, mentre il basso e la chitarra vivono di un arpeggio e di un pulsare pieno di fascinazioni nordiche.
Negli altri sei episodi vi sono piccole ma significative presenze di vocalizzi che diventano carezze dentro la necessità di unire le diverse propensioni date dai generi sessuali: uomini e donne nella piazza di un villaggio senza luci diventano un lampione per le anime attente. In Liminal esiste una voce femminile che canta, ma la sua brevità fa riflettere, mentre il timbro è decisamente sensuale. E il fatto che si riescano a sentire movenze dei paesi del medio oriente riesce a rendere il tutto ancora più attraente e misterioso.
Il synth, l’organo, la viola (perfetto ibrido tra il violino e il violoncello), il sassofono, il glockenspiel, il contrabbasso non sono più strumenti, ma i veri arrangiamenti sonori che contemplano il suono iniziale del basso e della chitarra per estendere il tutto all’interno di un concetto orchestrale in cui la musica è immersione ed elevazione. Si spiega in questo modo la sensazione che l’elettronica presente sia a suggerire questa epica volontà e non a sottrarre spazio: quando il moderno e l’antico si incontrano (Liminal), si vive un tumulto di sorprese continue.
The Nephew of Viljems è una suite deliziosa che abbraccia la spiritualità dei luoghi cari a Ryuichi Sakamoto, attraverso un cammino delle note sopra il limite della convivenza tra la dolcezza e l’intuizione, donando anche la sensibilità di Vini Reilly per come la sei corde diventi un ascensore sensoriale, dentro i circuiti di aggregazione di altri strumenti qui detentori dello scettro della estradizione di un corpo metafisico.
La bellezza del post-rock, coniugato a petali dream-pop, si palesa nella generosa Lithospheric Patterns, la quale sintetizza il profumo di pagine antiche che, passando da un fare orchestrale, si ritrovano all’interno di vesti elettroniche, per evidenziare la totale mancanza di esagerazioni. Quando la chitarra si affaccia, il basso sostiene il bellissimo combo di forza e delicatezza. Qualcosa di cupo e sinistro vive in queste forme oceaniche…
L’iniziale Lahar (mi si perdoni se non seguo l’ordine della scaletta ma un senso esiste, fidatevi di me), è un incandescente intro, dove gli archi tirano sassi che paiono arrivare dalla preistoria: la tensione, la paura, il disagio dell’ambiente qui viene pilotato per vedere se stessi attraverso uno specchio che rende chiaro come ogni ingresso sia un mistero da rispettare… Dopo quasi tre minuti il brano si scioglie e si trasforma in un pavimento dove le note combinate e il volteggio dei colori della chitarra, come quella del basso, portano a pensare che Michelangelo Antonioni si sarebbe accaparrato volentieri queste atmosfere per il suo film Il deserto rosso…
Con Morning Horn siamo all’interno della morbidezza elaborata, di delicati avvenimenti che stuzzicano la curiosità, fraseggi quasi impercettibili di una visione esplorativa che non si concede distrazioni, crescendo come una ouverture che reclama la luce dell'intelligenza che scruta senza emettere giudizio. Denso, voluminoso, fluttuante, il brano diviene una bombola di ossigeno che innaffia le molecole dei pensieri…
In merito alla già menzionata Silence, si può aggiungere la sensazione di come una giacca piena di ascensori umorali contempli l’autunno e la primavera dei nostri impeti.
La conclusiva Pulse-Resonance è il vascello in cui tutto il lavoro sino a qui fatto desidera un luogo dove conoscere l’immensità dell’eterno, in un gioco sacro in cui i Dead Can Dance degli anni Novanta hanno seminato esempi, per dirigersi altrove. No, non sono paragonabili, ma hanno la stessa programmata volontà di distribuire imbuti nei quali gli strumenti che si affacciano possano versare le loro qualità, senza disperdere una goccia, mentre il sassofono regala il brivido di dolcezza dentro un mare agitato dalla chitarra saggiamente inquinante e tenebrosa.
Un modo sublime di terminare uno studio, di colorare le tempie di onde che non si smagnetizzano tanto facilmente…
Alex Dematteis
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