mercoledì 6 novembre 2024

La mia Recensione: Aursjøen - Strand


 




Aursjoen - Strand

“La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono a caso” - Italo Calvino


Nella spettacolare forma artistica che prevede la progressione dentro i maremoti emozionali, la lentezza diventa l’unica coinquilina ragionevole, in una pacifica e collaborativa convivenza.

Ecco che uno dei membri della polivalente band Octavian Winters innesca un detonatore sensuale, coi bassi ritmi a collegare il cielo e l’osceno del mondo, una musicoterapia che, partendo dall’elettronica curva su scale empiree e segrete, capovolge il pop e scrive canzoni come meteore e statiche statue danzanti, calibrate dal suo canto, corretto in corsa da controcanti e strategie di una produzione attenta a riversare luce tra bagliori eterei e tuttavia colmi di quel nero che non snellisce bensì preoccupa. Su questa base tutto diventa un'esperienza non catartica ma protettiva: ci sono luoghi dell’anima che l’artista di San Francisco preferisce mantenere come gocce di vetro nei suoi percorsi creativi. Musica glaciale, dove i panegirici dell’uomo comune tendono a frantumarsi, perché Aursiøen è una telefonata di note sotterranee. Da cui tutto parte per spegnere incantesimi e follie.

Un E.P. che la libera, la rinforza, capovolge il conosciuto e diviene residenza di sperimentazioni fluviali, mantenendo il contatto, nel suo timbro vocale (pieno e oscuro), con quelle voci che in passato, nel suo precedente progetto, non trovavano adiacenza e possibilità espressiva. Arrivano Siouxsie, Sinéad O’Connor, Björk, Elizabeth Frazer a ricordarci come la ricerca ostinata di una originalità sia cosa stupida: ci sarà sempre qualcuno che troverà un nome che l’ha per gioire di una vittoria inutile e irrisoria.

Questa cantante ha delle grucce nell’ugola, la sua mano scrive testi che salgono nella sua bocca per essere fantasmi gentili nel buio di notti vogliose di una distrazione. Quello che racconta e il modo in cui lo fa la mette su una discesa temporale: composizioni come un allontanamento, come una ferita sibilante in cerca di un’armonia gradevole, con richiami alla musica classica, partendo da un trip-hop nerastro all’interno di allacciamenti gotici, con una chitarra e il suo delay a frantumare la purezza, facendolo divinamente.

Il pop alternativo diviene folk alleggerito, con stravaganze davvero radiose e sublimi, con balbettii che inquinano la sicurezza, rendendoci ascoltatori in stato di fragilità, con una meccanica compositiva che avvicina la possibilità di un bacino di accoglienza popolare, mettendo a tacere chi la vorrebbe solo per poche anime.

Le stratificazioni, gli arrangiamenti, le progressioni, l’enfasi e la leggerezza (quella di Calvino nell’introduzione) sono gli elementi che continuano a partorire grappoli, frammenti, scintille di idee che reclamano note, come se uscissero dal risveglio di una persona in coma.

Micidiale, caustica, rapitrice di melodie arcane e vicine alla mitologia, questa artista lavora concetti privati, semina una lastra di impeti con lo sguardo dentro le cartucce di una voce che spara i cambi di registro con attenzione e capacità.

E dei testi, dei richiami sognanti verso gli anni Ottanta, della sensazione che sei canzoni sembrino trenta non ne vogliamo parlare?

In questo si dovrebbe tirare in ballo la seconda parte della carriera dei Dead Can Dance, forse il sistema di misura più vicino alla ragionevolezza per inquadrare il grande percorso compiuto con questo lavoro, per riuscire a dargli una credibilità che merita di sicuro.

Per il Vecchio Scriba questo non è soltanto l’E.P. del mese e dell’anno 2024, piuttosto è l’augurio che le anime pensanti possano scoprire con queste delicate pennellate artistiche una serie di mondi non connessi tra loro ma in fase di annusamento, nella spettacolare modalità di circospezione.

E si scopre come la bellezza sappia essere violenta: davanti a tutto ciò un cuore sano perde efficacia e si accascia, felicemente…


Song by Song


1 -Nytär


Una terra senza acqua esce da questi aggeggi elettronici, chiamateli computer, tastiera, beats, non importa: l’inizio del brano è già un geyser che si precisa nelle orecchie, un geniale intro per la voce che sembra uscire da un concerto della 4AD in un attimo di distrazione della massa gotica.

Pj Harvey osserva attenta: capisce come Aursjøen utilizzi il registro alto non come acclamazione o preghiera, bensì come soluzione per portare sul suolo terrestre angeli e demoni. Esempio di come la musica eterea stia a suo agio con un temporale, lento, pieno di elettronica e suspense.



2 - Apollo



Eccoli gli Octavian Winters nell’intro di chitarra: una bordata gotica che butta giù il cielo! E poi è una duna del deserto nel battibecco dei Tuareg, a benedire il connubio tra darkwave e trip-hop, con il ritornello che sentenzia la facilità che possiede di permettere alla malinconia e all’allegria di convivere. Misteriosa, trasmette un prurito piacevole, dato dalla metodica del canto, raffinato ma potente.


3 - Lilypad


Si cambia, si dimentica e si prosegue: siamo ora tra i pilastri della world music in cerca di anime voraci, di sospiri con eco e riverbero che montano la panna di una forma canzone che lascia spazio agli accenni di chitarra e tastiera, nel dondolio di un pomeriggio che vede la voce più nascosta, come una meteora in cerca di una metafora. Ma poi nell’apertura del ritornello le note in maggiore ci portano equilibrio e godimento. E ci viene in mente la stessa attitudine al gioco canoro di una cantante che è ancora un missile in anticipo nel mondo trip-hop, quella Skye Edwards dei Morcheeba che echeggia spesso in queste sei canzoni.



4 - Suns Of Tomorrow


Poi esiste l’estraneità e il giocattolo diverso nei luoghi predisposti alla ludicità.

Eccolo questo brano che visita l’ignoto, il sacro, l’accartocciare la voce per fare posto a campane, a beats magnetici, e un velo triste ci copre perfettamente gli occhi. La sperimentazione qui diviene saggezza al pascolo, per perseverare con la brevità del giro di accordi, lasciando poi spazio a un cambiamento ritmico e scenico impressionante, tra sibili e suggestioni drammatiche di altissimo livello, con incursione di fiati che creano un terrore rappresentativo di una genialità impressionante.



5 - For Want Of


L’eco maestro del dramma interiore esce a fumare: canzone che ci penetra attraverso il chiaroscuro vocale, mentre la musica, compatta, siderea, plumbea, struttura l’ascolto all’interno della pazzia maniacale di Diamanda Galas. Si canta per colpire l’aria, per irritare e tenere buoni gli spiriti, come fate, come diavolesse. Aursjøen impressiona, ci travolge con il modo in cui usa la complessità per esplodere ma solo in lontananza…



6 - Strand


Dio mio. Una chiusura che mette il magone, che ci rende orfani, visto che la bellezza e la leggerezza decidono di partorire una figlia amorfa, stralunata e vicina alla fine prematura. Un incubo rappresentato come atto contemplativo, un trasporto nomade di antiche culture millenarie che qui trovano il benvenuto e si piange, di gioia, di gioia, di gioia mentre tutto si fa muto con queste praterie vocali che divengono l’unico vento su cui depositare il nostro grazie infinito…


Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
7 Novembre 2024

My Review: Aursjøen - Strand


 

Aursjoen - Strand

‘Lightness for me is associated with precision and determination, not with vagueness and random abandon’ - Italo Calvino


In the spectacular artistic form of progression within emotional tidal waves, slowness becomes the only reasonable housemate, in a peaceful and collaborative coexistence.

Here, one of the members of the multi-purpose band Octavian Winters triggers a sensual detonator, with low rhythms linking the sky and the obscene of the world, a music therapy that, starting from electronics curved on empyrean and secret scales, turns pop upside down and writes songs like meteors and static dancing statues, calibrated by her singing, corrected in the race by counter-notes and strategies of a production careful to pour light among ethereal flashes and yet full of that blackness that does not slender but worries. On this basis, everything becomes an experience that is not cathartic but protective: there are places of the soul that the San Francisco artist prefers to keep as drops of glass in her creative journeys.


Glacial music, where the panegyrics of the common man tend to shatter, because Aursiøen is a phone call of subterranean notes. From which everything starts to extinguish spells and follies.

An E.P. that liberates it, reinforces it, turns the known upside down and becomes a residence of fluvial experimentation, maintaining contact, in its vocal timbre (full and obscure), with those voices that in the past, in its previous project, did not find adjacency and expressive possibility. Siouxsie, Sinéad O'Connor, Björk, Elizabeth Frazer arrive to remind us how the obstinate search for originality is a stupid thing: there will always be someone who will find a name that has it to rejoice in a useless and derisory victory.

This singer has crutches in her uvula, her hand writes lyrics that rise into her mouth to be gentle ghosts in the darkness of nights longing for a distraction. What she narrates and the way she does it puts her on a temporal descent: compositions like a distancing, like a sibilant wound in search of a pleasing harmony, with hints of classical music, starting with a blackish trip-hop within gothic allusions, with a guitar and its delay shattering purity, doing it divinely.


The alternative pop becomes lightened folk, with truly radiant and sublime extravagances, with stutterings that pollute confidence, making us listeners in a state of fragility, with a compositional mechanics that brings the possibility of a popular reception basin closer, silencing those who would like it only for a few souls.

The layering, the arrangements, the progressions, the emphasis and the lightness (that of Calvino in the introduction) are the elements that continue to give birth to clusters, fragments, sparks of ideas that clamour for notes, as if they were coming out of the awakening of a person in a coma.

Deadly, caustic, an abductor of arcane melodies close to mythology, this artist works on private concepts, sows a slab of impetus with her gaze inside the cartridges of a voice that fires off register changes with care and skill.

And of the lyrics, the dreamy references to the eighties, the feeling that six songs sound like thirty, we don’t want to talk about it?

This is where the second part of Dead Can Dance's career should be brought into play, perhaps the closest reasonable metric for framing the great path taken with this work, to be able to give it a credibility it surely deserves.


For the Old Scribe, this is not just the E.P. of the month and year 2024, rather it is the wish that thinking souls may discover with these delicate artistic brushstrokes a series of unconnected worlds, but in the process of sniffing them out, in the spectacular mode of circumspection.

And one discovers how violent beauty can be: in the face of all this, a healthy heart loses effectiveness and collapses, happily...


Song by Song


1 -Nytär


A land without water comes out of these electronic contraptions, call them computers, keyboards, beats, it doesn't matter: the beginning of the song is already a geyser that is precise in the ears, a brilliant intro for the voice that seems to come out of a 4AD concert in a moment of distraction of the gothic mass.

Pj Harvey watches attentively: she understands how Aursjøen uses the high register not as acclamation or prayer, but as a way to bring angels and demons to earthly soil. An example of how ethereal music is at ease with a storm, slow, full of electronics and suspense.



2 - Apollo



Here are the Octavian Winters in the guitar intro: a gothic broadside that throws down the sky! And then it's a desert dune in Tuareg's bickering, blessing the marriage of darkwave and trip-hop, with the refrain sentencing the ease it possesses of allowing melancholy and cheerfulness to coexist. Mysterious, it conveys a pleasant itch, given by the methodical, refined yet powerful singing.



3 - Lilypad


We change, we forget and we go on: we are now among the pillars of world music in search of voracious souls, sighs with echoes and reverberation that whip up the cream of a song form that gives way to hints of guitar and keyboard, in the rocking of an afternoon that sees the voice more hidden, like a meteor in search of a metaphor. But then in the opening of the refrain the major notes bring us balance and enjoyment. And we are reminded of the same singing attitude of a singer who is still an early missile in the trip-hop world, that Skye Edwards of Morcheeba who often echoes in these six songs.



4 - Suns Of Tomorrow


Then there is the strangeness and the different toy in the places predisposed to playfulness.

Here is this track that visits the unknown, the sacred, the crumpling of the voice to make room for bells, for magnetic beats, and a sad veil covers our eyes perfectly. The experimentation here becomes grazing wisdom, to persevere with the brevity of the chord turn, then giving way to an impressive rhythmic and scenic change, between hisses and dramatic suggestions of the highest level, with incursions of wind instruments that create a terror representative of an impressive genius.



5 - For Want Of


The master echo of the inner drama comes out to smoke: a song that penetrates us through light dark vocal, while the music, compact, leaden, leaden, structures the listening inside Diamanda Galas's manic madness. One sings to hit the air, to irritate and keep the spirits good, like fairies, like devils. Aursjøen impresses, overwhelms us with the way she uses complexity to explode but only in the distance...



6 - Strand


My God. A closing that puts us in a mood, that makes us orphans, as beauty and lightness decide to give birth to an amorphous daughter, stunted and close to an untimely end. A nightmare represented as a contemplative act, a nomadic transport of ancient millenary cultures that find a welcome here, and one weeps, with joy, with joy while everything becomes mute with these vocal prairies that become the only wind on which to deposit our infinite thanks…


Alex Dematteis

Musicshockworld
Salford
7 Novembre 2024