Leech - If We Get There One Day, Would You Please Open The Gates?
Gocce di vita sulla grandine di ogni tensione scendono dalle Alpi, nella variopinta Svizzera, come un giorno lavorativo da spegnere solamente con l’urgenza di disegnare un quadro nel quale sia contenuta la creatività come risposta continua alla fascinazione della ricchezza del vivere da una parte e dall’altra di un fremito che ingloba miriadi di espressioni tra il grigio e il giallo, colori dal carattere acido ma pieni di calore, basta osservare bene.
Il vinile, 500 copie in edizione limitata, e la certezza di avere la storia delle lacrime tra le mani: le note al suo interno sono disciplina, accostamento al pudore, una corsa lenta dentro il mistero, un agitare il vetro di ogni paura per stabilire una necessità nuova. Ascoltare questo album è diventare gnomi, splendide creature alle quali l’altezza non impedisce realtà, altro che limitarsi ai sogni! E così, mentre la musica viaggia dentro il nostro corpo e nell’emisfero delle emozioni, ci ritroviamo piccolissimi ma eretti, perché i Leech (la miglior Post-Rock band di sempre) sono i maestri dell’equilibrio, sovrani del meraviglioso luogo dove tutto è residenza del dolore trasformato in ebbrezza respiratoria, continua.
E questo quarto epocale tratteggio sonoro è un dispetto clamoroso: non trovi spazio per discutere eventuali approssimazioni e sbagli, per sgridarlo o quant’altro. La band nata a Ofringen, nel cantone di Argovia, fa esplodere la genuina propensione all'architettura sonora, strabordando, coinvolgendo l’ascoltatore in un lago di sudore, per un bagno imprevisto dentro le proprie vene. Il vecchio scriba scrive mentre le lacrime avanzano verso il computer per definire con precisione l’enorme fascio di luce che queste dieci composizioni generano, in un crocevia delizioso fatto di entusiasmi, disperazioni, silenzi, luccichii continui e un senso di arrendevolezza, perché questa band disegna sul pentagramma una vistosa capacità di sorpassare i sogni: dalla musica si vogliono e pretendono molte cose, ma basterebbe l’ascolto di questo disco per tacitare l’egoismo.
L’approccio nei confronti di un album di questo genere musicale comporta già di sé per un grande sforzo, aumentato dal fatto di essere completamente strumentale. In un mondo avviluppato all’esagerato bisogno di parole, troviamo qui quelle mute, quelle straordinarie che provengono da strumenti in calore, assatanati e contemporaneamente capaci di carezze senza limiti.
Tutto è strutturato per essere un racconto visivo, una poesia senza voci se non quelle dell’anima che escono dagli amplificatori per dirigersi al cuore. Un lungo tintinnio, uno scampanellare la vita tra le montagne che dalla Svizzera si dirigono nei pressi dei nostri apparati uditivi non più dediti ad accogliere certe modalità stilistiche che contemplano perlomeno un piccolo sforzo. Il rischio con questo enorme quadro alpino è quello di sentire il trambusto del nostro ventre misurare le nostre gravi lacune: quanto siamo davvero disposti a rimpicciolire i nostri egoismi?
Volete sapere meglio cosa state ascoltando?
Domanda sbagliata: siamo dentro un film, un racconto che incontra la Filosofia più sottile, dove il baricentro è la consistenza di un sentire non comune perché siamo davanti a una miscela unica, altro che semplice Post-Rock…
Le Chitarre sono corsare, streghe, sirene, ortiche, lastre, rughe, balestre, lepri, abeti in un giorno di vento. Sono agenti atmosferici corrosivi, sono la febbre del cuore che trova pace e in grado di sostenere anche la guerra, con impeto e la volontà di estremizzare gli incroci tra il Rock, l’Hard Rock, il Progressive e il Dreampop. Sempre presenti come luogo delle trame, della melodia e del sogno che conosce anche bufere e smottamenti.
Il Basso è il Niesen, il Monte Svizzero che spesso scompare ma, quando lo vedi, con la sua forma triangolare, non puoi che sorridergli e ringraziarlo, perché sa essere efficace. Ecco, nell’album questo prezioso strumento è l’indiscusso pilastro, con i suoi cambi ritmo, per come nelle note sembra scivolare come un sassolino lungo il pendio del ghiacciaio, per come dirige il traffico di bellezza sonora con rigore e capacità.
Il Piano è un leone che sbadiglia e bacia le note con eleganza e stupisce per il modo in cui ogni suo movimento sa donare poesia e un grande piacere cerebrale: seppur poco pesante, rivela la sua importanza.
Il Sintetizzatore è il veicolo che equilibra la compattezza effervescente della band donando petali, coperte, tappeti, fiammate, sogni acidi, in una visibilità totale per dare colori diversi ma perfettamente sensati alle notevoli trame chitarristiche.
La Batteria è la Dea del senso, il pilota unico che è esteriore e interiore, il fluttuante che accoglie la melodia e la ingrossa, la educa, donando saggezza tramite i consigli delle sue bacchette e dei suoi pedali, in un ristoro continuo perché questo elemento non solo salda, ma amplifica le proprietà di note venute al mondo per avere il giusto ritmo.
Ecco che la loro musica diventa non soltanto un paesaggio perfettamente disegnato, ma anche un raccoglitore, prezioso di odori e impressioni, sentimenti, stati d’animo in pellegrinaggio verso l’incandescente incontro con il bacio di Dio. A volte spigolose, come rocce in sgretolamento, altre lievi come la stagione dell’accoppiamento tra anime pacifiche, le composizioni alla fine sono fiabe dagli umori saldati, con braccia possenti e mani delicate, cosicché è impossibile scappare dal progetto di libellule operaie sulla schiena della poesia.
Nulla può essere definito digressione elettrica dilatata, in quanto occorre qualificare il discorso con un ascolto che colga le scintille composte di particelle di vento e grandine che conferiscono alle note un senso di estraneità nei confronti, appunto, delle digressioni. Gli Svizzeri immergono l’intenzione e la piacevolezza del suonare nel mare delle possibilità, di incastri, di flussi di coscienza che non hanno sosta nemmeno quando il ritmo rallenta: tutto è pregno della volontà di essere veloci, di non tergiversare, di non illudersi che la lentezza sia la sorella gemella della qualità. Loro sono veloci dentro, nei pensieri, negli arti che, insieme, schizzano via verso il pianeta della magnificenza. Non più musica, né letteratura, tantomeno fotografia, ma dimensioni al di fuori dell’umano in cerca dell’abbraccio eterno, perché queste canzoni non invecchieranno mai…
Romantici, assassini, quieti e ribelli, i Leech hanno raggiunto l’infinito: ascoltare questo album è un po’ come illudersi di poterli seguire…
Avanguardia, teatro, cinema, fotografia, a tratti pure un insieme di accenni di un cabaret timido, fanno di questo percorso l’apertura del genere Post-Rock verso un cavallo che non vuole briglie, una vergine pura ma libera di infangarsi a suo piacimento. Suite non ve ne sono, però ne sentiamo il profumo, e nulla assomiglia a divagazioni, sperimentazioni del momento nel segno della libertà, che invece è presente nelle trame di questi grappoli di luce che miscelando gli strumenti producono il nettare del vino più pregiato: un liquido dalla pelle nebulosa ma dal gusto limpido…
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