La mia Recensione:
Tuxedomoon - In a Manner of Speaking
L’abbandono: questo mistero che parte dalla fisicità e arriva ai sensi, sostando nella mente come libertà, nel caso sia stato scelto. E allora tutto pare un nuovo cosmo che lubrifica le possibilità, arrivando ad essere pura genialità anche solo per averlo ritenuto possibile.
È quello che hanno fatto i Tuxedomoon nel 1985: nuove fiammate creative ma senza considerazione per quello che era stato composto in precedenza, per una carriera che aveva generato clamori, gemme di piena avanguardia sonora, trame artistiche poi studiate e copiate da molti, per un insieme perfetto di post-punk e cabaret sino ad approdare a espressioni di elettronica diversa, valida, sempre oscura. Avevano portato la paura e il terrore nei loro Live set e la loro musica era studiata, rispettata e in grado di sconvolgere.
Invece nell’album Holy Wars arriva l’eleganza, la ricerca della “bella” canzone e forme multiple di sentimenti a rendere le cellule sonore dipinti dall’ombra decadente e piovigginosa, il passo della vecchia Europa che si mette l’abito per andare a bere un cocktail tra la polvere grigia di una stagione con poca luce. Dove i Japan e i Wall of Voodoo sembrano presenze poco velate, i Tuxedomoon spingono verso la frammentazione degli antichi slanci e si rotolano nel fango della ispirazione per respirare progetti che li porteranno a separarsi dal passato in modo definitivo.
Il brano in oggetto è la summa dell’intero lavoro, lo specchio di una decadente propensione alla confidenza, il posare le maschere su un lettino dove l’amore risulta finito con in dotazione solo domande. Il fuoco dei ruoli, la responsabilità e le conseguenze di tutto questo viaggiano dentro la nebbia sonora della voce incatramata e piangente di Winston Tong, nel momento più lucente della sua carriera, con i lavori spigolosi/destrutturati di Peter Dachert e la meravigliosa esplosione di sibili taglienti di Luc Van Lieshout, il flauto spaziale di Bruce Gedulgig e il controcanto di Steven Brown a regalare maggior pathos.
IAMOS è una marcia che si prende subito una pausa, entra nella piramide egiziana per seppellire il dolore e parlare con l’eternità, il medico seduto accanto al lettino. Una cantilena che abbraccia togliendo il fiato, sbattendo contro il muro di parole che cercano il vuoto per morire, insieme a noi.
Quando una canzone arriva a sintetizzare una vicenda comune ecco che si genera il contatto con l’evidente stupore, il riconoscersi che non ci rende più unici. Il percorso artistico però fa proprio questo: il tema portante del testo si impossessa della pelle di molte anime, unendole.
La litania di Winston diventa il chiodo sulla pelle in una settimana fatta solo di lunedì, dove il riposo del weekend non si può nemmeno intravedere e la voce di Steven sembra quella di un Gavin Friday educato: tutto nelle parti cantate serve per conferire alla musica il ruolo di spatola e culla amniotica, in una aspra convivenza che gratta la luce.
Come una danza macabra di un film di Sergio Leone, le note musicali diventano immagini che escono dalla pellicola per sprofondare dentro una sconfitta dalla perfetta colonna sonora, con due mantra diversi che si dividono la strofa e il ritornello.
Il brano, lucente di una straordinaria declinante bellezza, sembra la raccolta di lacrime copiose che si sono date appuntamento proprio in queste note: tutta la frustrazione dell’ascolto ci porta a fasciare di rose l’involucro per non dimenticare il nostro destino che è incastrato perfettamente nelle parole “Give me the words that tell me nothing”, dimostrazione assoluta del vuoto di cui ci impossessiamo con la comunicazione.
Ci ritroviamo con i battiti ingobbiti e le mani arrese, con questo suono che sembra il canto del vento del funerale che viviamo giornalmente, senza alcuna consapevolezza. E la paura diventa una lezione conscia stabilita da questo pulsare tenebroso, questa mancanza della batteria che annulla il tempo ci priva di ogni danza per dondolare tristemente nella melodia che ci percuote molto di più. Il rimprovero accennato dal testo diventa anche quello degli strumenti, un vagare dentro spalle che si stringono perché è consapevole del fatto che sbagliare sia solo il frutto di una pochezza che sembriamo negare.
L’amore che non parla ma che definisce la realtà e forse la verità lascia nel testo un senso pesante di sgomento, un brivido che approda al terrore accennato, dove nessuna sentenza pare definire gli accadimenti. Fascino, attrazione, sconvolgimento si riuniscono nella gola di Winston per incendiare il buio di questa storia, vista dalla tenebre di una canzone che risulta alla fine una frusta su cicatrici in espansione. Ci possiamo accontentare della bellezza artistica quando poi ascoltando il brano siamo circondati da pallottole di vetro, quelle di uno specchio grande come il pianeta in cui viviamo, che ci mostra chi siamo in realtà? Allora sì che il nostro modo di sentirsi può essere sacrificato, come sentenzia il testo, per avere un mondo senza parole, un buio semovente che cancella l’udito. Come se provenisse dalla coscienza senza tempo del franare umano, la canzone sembra essere una Divinità che lascia cadere pillole di saggezza che dobbiamo imparare a masticare, digerire, sino a contaminarci di quella profondità che la condizione umana non ci permette.
I Tuxedomoon scrivono il comandamento che lo stesso Dio non ha osato creare: affannarsi per trovare il modo di dire parole che stabiliscono il vuoto forse è un processo evitabile e la meraviglia implosa di questo fiato sonoro che si chiama IN A MANNER OF SPEAKING potrebbe divenire la saggezza che dentro la culla del fiume Nilo ci porta a passeggio nel mondo, bocca chiusa, la speranza pura, sino a quando un flauto si spegnerà dentro di noi…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
23 Luglio 2022
In a Manner of speaking
I just want to say
That I could never forget the way
You told me everything
By saying nothing
In a manner of speaking
I don't understand
How love in silence becomes reprimand
But the way that i feel about you
Is beyond words
O give me the words
Give me the words
That tell me nothing
O give me the words
Give me the words
That tell me everything
In a manner of speaking
Semantics won't do
In this life that we live we live we only make do
And the way that we feel
Might have to be sacrified
So in a manner of speaking
I just want to say
That just like you I should find a way
To tell you everything
By saying nothing.
O give me the words
Give me the words
That tell me nothing
O give me the words
Give me the words
Give me the words
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