Gintsugi - The Elephant in the Room
“Non siamo mai così indifesi verso la sofferenza, come nel momento in cui amiamo.”
Sigmund Freud
Questo battito, pellegrino, stanco, voglioso, bianco, scende dal suo trono e si schianta sui piani scoscesi della mente, la centrale nucleare di ogni dolore. Storie, vicende, contorsionismi vari, ben assortiti e mal assortiti, si stringono nell’esistenza che cerca appigli. In questo contesto arriva una donna dalla lingua tagliente, dal polso di ferro, dalla disciplina che si posiziona in ogni gesto, pensiero, con la ferocia gentile, per permetterle un ampio raggio di azione. Si chiama Gintsugi, la voce che scioglie le crepe di metallo per appiccicarsi alla dolcezza, con un piano vivace volto a stregare le stelle, il creato, il tempo per unirli a un esercizio che abbaglia: portare l’oscenità del dolore a scuola, insegnarle la vita e gettarla in mezzo a note vergini ma già ferite… Le corsie immaginifiche, le espressioni mai troppo didascaliche lanciano la giovane artista italo-francese con continuità in un confine mai squadrato, dalle lunghe sponde incontrollabili. Si finisce per tremare, piangere, riflettere, con impianti di luce a visitare l’imprevisto del vivere, i suoi arti spesso poco graziosi, per entrare in una lavanda gastrica all’altezza del cuore. Ci si ritrova, sbagliando, con la presunzione che l’intera opera abbia propensioni oniriche: è la realtà, le verità e le menzogne del vivere che Gintsugi ci mostra, in un pentagramma accordato all’autenticità. Si incontrano modalità espressive che variano, ma che senza dubbio fanno dell’art rock il principale punto di riferimento. Non si possono negare altre matrici, impronte classiche e pop oliate, come garanzia di un progetto molto largo nelle intenzioni, sino a creare un clamoroso concept album, pur magari non avendone avuta intenzione.
Già a partire dal titolo (una frase idiomatica inglese davvero esaustiva e potente) per continuare con la toccante immagine di copertina, tutto si posiziona, sin dall’inizio, sul piano dell’impresa totalizzante, paralizzante, per concludere nello stato di necessità di continui ascolti. Non è un insieme sonoro fuori dal tempo attuale, non si confonda l’assenza di frastuono come un appiglio verso espressioni più antiche. La freschezza di questo incredibile talento sta nella maturità, per trasformare la clessidra in un doveroso esercizio di intese al fine di non sprecare nulla di ciò che sta accadendo. Quando, oltre al suo strumento principale (il pianoforte), si sentono gli archi, arrivano piccole vibrazioni nei parchi del suo sentire, posizionando perfettamente il concetto di fruibilità, continua e incessante. La sua dolcezza è una sonda che affonda, porta la schiuma alla bocca per essere sputata, con classe, sui tasti del suo pellegrinaggio emotivo, in un dinamico visitare gli animi, spostando accenti, sciogliendo torsioni e paure. Quattro singoli, due brani strumentali, una cover pazzesca, basterebbero per rendere inossidabile questo disco: difficile che possa subire graffi.
Si prenda Lilac Wine: la splendida cover di Elkie Brooks, del 1978, che parla della perdita di un amante con il conforto del vino ricavato da un albero di Lillà, rivela una portentosa attenzione ai colori della sua ugola e viene cantata come se quel dolore le appartenesse, orchestrando il tutto in una miscela di lacrime e speranze. È proprio questo magnetico bisogno di affrontare quello che è disagevole e contrario a insegnarci molto sul piano umano. Le musiche sono il suo primo vocabolo, il suo nascente nervo, il crescere confrontandosi con suggestioni senza freni, con il fiato infinito, il suo affiancarsi a riflessioni che trovano voce nelle note, perché non si attribuisca solo alle parole il ruolo di comunicare pensieri…
L’elettronica, i timpani, i tamburi, quello che sembra laterale alla struttura è invece un magnete quasi invisibile che compatta queste cascate espressive, emotive, razionali, che diventano spesso maree struggenti, incontrollabili. Ci si può schiantare davanti questo insieme, occorre essere preparati e molto forti.
Sono composizioni che rivelano impeti, capogiri, pianificazioni tenuti insieme da un arco equilibrato che sa scagliare frecce nel cielo di ogni imprevedibile bisogno. Gintsugi è una direttrice d’orchestra di un tutto che ci arriva addosso, adoperando momenti più accessibili ad altri nei quali ci si sente gettati violentemente a terra. Le sue peculiarità vengono, facilmente direi, riassunte da una voce e dalla modalità del canto che oscilla, come un’altalena mistica, nel tempo, per spostarsi, avendo grandi punti di riferimento, artisti che hanno fatto la storia dell’interpretazione. Doti naturali, innegabili, però si consideri anche che in questo album non possono sfuggire studi profondi, accurati e intensi: tutto doveva profumare di un odore prossimo alla perfezione. Quando i suoni dell’ugola si assentano (dopo aver procurato intensi traumi), la parte musicale fa altrettanto: non c’è competizione, bensì un acclimatarsi nell’unica direzione voluta che è quella di non essere solo performanti ma soprattutto efficaci. Si riscontrano momenti di grandi fragori (l’iniziale Mon Coeur e Hex), per poi sentire il fruscio delle nuvole accarezzare i nostri capelli, sino a penetrare il cranio e ad arrivare al cervello. In quel luogo, grazie a questi sfavillanti terremoti sonori, tutto si fa argilla, in uno stato febbrile. Si sfiorano attimi in cui la tensione pare prossima all’horror, dove le nuvole degli accadimenti umani sembrano schiantarsi e cadere sino a raggiungere il ventre del pianeta terra. Altri, invece, in cui le canzoni sembrano respiri invisibili, imprendibili, che veicolano colori pieni di vita. La sofferenza, in questo innegabile capolavoro, non è un impedimento: direi invece una occasione per imparare, trasformare il nero in un atto di vincita. Esiste lo spazio per i sogni, possono essere visti, coccolati, vissuti in queste tracce? Assolutamente no, ed è proprio in questo aspetto che si deve esaltare la grandezza di una donna che cammina a testa alta con il vento della contrarietà che l’affronta, uscendone a pezzi: Gintsugi ha una serie di armi dolci e potenti per vivere il presente come una volontà e attitudine. Il Vecchio Scriba scriverà presto una recensione sui testi: altri miracoli che rendono questo ascolto un beneficio doveroso e piacevole, soprattutto istruttivo. In un brano specifico vediamo emergere la sensazione che lei abbia imparato ad attingere da una fonte preziosa: il brano è To Grace, figlio splendido delle assurde capacità visionarie di Tori Amos. Molte sono le frequentazioni del suo potente background, ma nessuna poi così decisiva: il suo più grande merito è quello di possedere uno stile proprio, intrigante, strabordante, capace di una identità personale indiscutibile. Prodotto da lei stessa e dalla Beautiful Losers di Andrea Liuzza (anch’esso presente nell’album), questo vascello di piume risulta compatto, in uno slancio che pare portare dietro di sé scie di lacrime sorridenti in un giorno in cui tutto sembra essere sottoposto al duro giudizio di un cielo pieno di lampi. Nove esplosioni con le redini, dove tutto ciò possa andare all’interno di una pellicola per posizionare il proprio destino: un esordio così potente sarà una delle meraviglie che rimarranno nella sfera temporale per la durata dell’infinito.
Non scriverò la recensione canzone per canzone, perché non puoi entrare dentro il vento e perché per vedere una rosa sbocciare non puoi mettere le dita al suo interno…
Rimane la convinzione che questo sia il primo vero CAPOLAVORO dopo tanti anni, e per farlo rimanere tale bisogna essere discreti: lo si ami, lo si ascolti, lo si porti nel centro del nostro bisogno, ma si tenga sempre una distanza che si chiama rispetto, in quanto Gintsugi lo merita più di tanti altri…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
19 Ottobre 2023
In uscita il 20 Ottobre 2023
https://gintsugi.bandcamp.com/album/the-elephant-in-the-room-2
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