sabato 29 luglio 2023

La mia Recensione: The Slow Readers Club - The Slow Readers Club

The Slow Readers Club - The Slow Readers Club



Il boomerang lanciato da Tony Wilson e che aveva portato Manchester a divenire uno dei centri principali di spaccio di musica in grado di sconvolgere il mondo, tornò in città facendola schiantare contro il disastro del tempio giallo e nero dell’Hacienda. Giunsero, qualche anno dopo, gli Oasis, a completare il lavoro precedente, ma la qualità fu bassa e tutto morì: ci sono tragedie che non necessitano di morti…

Tutto prese una sola direzione: cercare di essere credibili agli occhi  dei Mancuniani, i veri giudici, e la temperatura dell’entusiasmo conobbe una discesa verso l’indifferenza e il menefreghismo. Poi arrivarono gli Slow Readers Club e nulla sembrò capace di dare la sveglia alla capitale musicale, totalmente in disarmo. Dopo aver sperimentato qualche successo (all’interno delle mura della città), con il nome Omerta, la band cedette, si sciolse, e, come si dice giustamente in questi casi, dalle ceneri nacque un ensemble che non aveva il coraggio e forse nemmeno la capacità di scrollarsi del tutto di dosso il breve ma intenso passato. Cambiò la line up, rimasero il bassista e il cantante compositore e, in una giostra della ricerca dell’identità, produssero da soli l’album, perché davvero nessuno credeva nelle possibilità di questa gelida e focosa formazione. Canzoni che mostravano Manchester dall’alto, con il microscopio di una crisi che diventava sicuramente impossibile da negare. La melanconia, la dedizione alla ricerca dei miracoli che la fede e l’entusiasmo possono produrre, sono alcune delle branchie in debito d’ossigeno che emergono da queste frecce sonore dalla pelle umida. Ciò che precipita su Manchester è un meteorite che non sconquassa, si sbriciola nell’indifferenza e cade nel cratere dove riposano tutte le ambizioni di decine di gruppi che in quel periodo tentarono il successo. Questo disco, indiscutibilmente, è colpevole: non è la verità che si cerca, bensì un'elevata estraneità che non intossichi il vuoto che avanza. Composizioni che, come alberi senza colori (non visibili), si piegano verso il dolore che li accoglie a braccia aperte, lacrimanti…

Eppure.

Siamo davanti a una distesa che contempla genialità, sperimentazione, rischi incolonnati e un’attitudine a generare uno stupore dal manto grigio. Un esordio che sacrifica i sogni. A raccolta, come semina senza dispersione, troviamo la sintesi musicale di Aaron, il compositore della maggior parte di questi brani, capace di allungare la mano verso il centro dell’Europa, scrivendo però testi che circondano la città: trattati di pericoli, richiami generosi, le fiamme mute che sovrastano la quotidianità, lo smarrimento, la crisi economica, l'oscurità di ogni indole. Sono solo una parte dei temi da lui trattati, ma ciò che conta è la funzionalità di una scrittura musicale in grado di evidenziarne i tratti, l’importanza. Dardi, proiettili, inviti, una sequenza quasi imbarazzante di tensione senza confine, con un voltaggio che cade nella sua voce.

Mai udita una che sappia essere come la sua: un aratro dalle lame smussate in grado di separare, dolcemente, gli affanni del vivere con i suoi disastri, e la voglia di affermare la legittimità del cuore. Occorre precisare che la scelta di dare all’elettronica il lato più visibile toglie apparentemente spazio alla chitarra che, lo vedremo più avanti, tornerà a essere dominante nell’album BUILD A TOWER. Ma è proprio qui il trucco: far compiere all’ascoltatore un percorso di perlustrazione, escogitare un piano per cogliere sovraincisioni, arrangiamenti equilibrati, spesso spiazzanti per l’intensità di una bellezza sconvolgente.

L’umore non è plumbeo, decadente, rivolto verso un ammissibile scoramento, vista la situazione del periodo di un centro abitato che dall’essere fondamentale era divenuto uno dei tanti, con la testa abbassata a contemplare il glorioso passato.

La scelta dell’electrodark come luogo permanente di oscillazioni sensualmente elettriche stabilisce un’unicità che, allegando un’indole indierock, conferirà al tutto un chiaro aspetto di effervescente stupore. L’amore per gli Smiths e David Bowie non si manifesta ancora, ma si avvertono già i semi di un raggio temporale che doveva necessitare di tempo.

Costruite come lampi dalla voce invernale, le canzoni sbarcano nel cuore come salti di pirati mai smarriti, mai esitanti. Suoni che, malgrado una produzione che li lascerà insoddisfatti, hanno il potere di separare la storia, di creare scintille di futuro con il fiato sognante. Un mantello di limpida frenesia stabilisce il contatto con la loro giovane età, mai scevra di scatti imperiosamente geniali. Questo lavoro è una discesa libera all’interno di pensieri concentrici, strutturati per conoscere il più violento dei setacci intimi. L’amore per il piano organizzativo e strutturale si evidenzia proprio per le clamorose dimensioni di una fantasia che, con la bava alla bocca, entra nei jack, nel drumming clamorosamente rock, nel basso che mai si allinea al passato Post-Punk del nucleo mancuniano. Le tastiere sono sibili, rantoli, punture che mettono a dieta la sicurezza veicolando spasmi di paure controllate… 

Non si hanno dubbi sul lato pop che viene tenuto per il colletto della giacca, e che però dimostra tutto il suo valore, nell’impeto dei singoli che spazzano via la tensione, nel tentativo di benedire l’esigenza di un lato gioioso che non stoni con quel piglio che fa abbassare lo sguardo. Un connubio, una miscela, che diventa una capacità perfettamente articolata. 

Spavaldi, sudati, tenebrosi, solari, giocano nella matrioska del dolore con sicurezza, dando alla fine dell’ascolto una generosa spinta verso il futuro.

Se Manchester oggi è tornata ad avere un sorriso, lo deve soprattutto a questa band, il diamante dalle labbra violacee, la macchina del piacere di una giornata lavorativa che non aspetta la domenica per piangere di gioia…


Song by Song 


1 One Chance


Brano che faceva parte del periodo Omerta, qui trova una compostezza assoluta: un arpeggio e una voce e la malinconia che si appiccica al testo (mappa dorata di un pessimismo che si vuole sospendere…), conducono al lacrimevole movimento del falsetto del ritornello, per conferire a questa semi-ballad il ruolo di farci entrare negli scricchiolii dell’essere umano…


2 One More Minute


Pure questa già con i suoi anni sulle spalle, trova nella chitarra di Kurtis (fratello di Aaron e subentrato al posto del dimissionario chitarrista precedente) il modo per respirare l’epopea degli anni Ottanta, nel gioco, spavaldo e scomposto, di piacevoli cambi di ritmo e di scenario. Un imbuto rock con le tapparelle malinconiche…


3 Frozen


Il primo singolo degli Omerta, in questo album cambia pelle: sarà per la decisione di dipingerlo con un arrangiamento pieno di archi (l’italiano Lorenzo Castellari compie un notevole lavoro), o di dare alla pelle musicale uno scatto verso il mediteraneo, fatto sta che, specialmente nel ritornello, la tensione diventa la palestra per i nostri pensieri viziati. Manchester ha trovato modo di gettare via il proprio specchio…


4 Block Out The Sun


Dio ha scelto gli alunni, li ha convocati, ha dato loro le chiavi della consapevolezza, e ha spezzato il cielo, facendoli entrare nel garage di una melodia piena di rughe, spine, consapevolmente grandiosa, per produrre uno slancio emotivo che renda l’ascoltatore un viandante senza bussola…

Con la voce che gela ogni condotto emotivo, la parte semiacustica e quella elettrica si danno appuntamento in un crescendo che, come un'altalena dispotica, ci fa vedere il buio sia da vicino che da lontano. Quando essere tristi e preoccupati diventa un merito…


5 All Hope, All Faith


Il pennello di Kurtis disegna traiettorie marittime sino a confluire in un robusto afflato rock, per poi tornare a nutrirsi di assurda malinconia. Aaron rivela tutto il suo impegno in un atto descrittivo che spaventa, sbigottisce, facendo sudare le convinzioni. Pragmaticità e fede in un Dio discutono, cercano un accordo, mentre il brano corre da Salford sino a Piccadilly, raccogliendo l’esempio scenico del glam rock imbevuto di Post-Punk. La parte elettronica qui scompare e tutto si fa più immediato.


6 Sirens


Quando un treno perde il controllo, il volume e il peso, sembrano impazzire, dirigendosi verso l’asfalto con grande forza. Uccidendo. Sirens uccide Manchester, la lascia cadente, frantumata. Questa chitarra arriva dalla passione di Kurtis per gli Stati Uniti, per il Glam Rock, ma la tastiera di Aaron è figlia dei Can: breve, distorta, magmatica e magnetica, per sostenere il canto verso uno schianto dove la melodia raccoglie i detriti del rock, e dare al brano la sensazione di poter spalancare gli occhi della nostra coscienza nei confronti di una società che ama la guerra… Sirens è un mantra ritmico che dipinge la poesia di una tremenda verità…


7 Feet On Fire


Arrabbiata, nervosa ma con doti di diplomazia melodica, questa composizione dona a tutti il difficile piacere di un uppercut sferrato contro il nostro ventre: come una marcia che conduce il condannato all’esecuzione, così le parole, la tastiera, la robotica batteria e il basso sporco di grasso, si compattano in modo chirurgico per fissare il tutto nella mente… 


8 Follow Me Down


Si scende, si precipita nella chitarra dalle chiari piume regalate da The Edge, per conoscere il peso della vita, tutto si complica, e ci si ritrova con una voce che, come una flebo piena di morfina, cerca di dare sollievo. Ma accade il contrario: in modo celestialmente stupendo, rende drammatica la situazione e il falsetto diventa una preghiera atea…


9 Lost Boys


Preceduta dall’intro dove canta Aaron, il brano vede Kurtis mostrare le sue potenti corde vocali, mentre la chitarra è un ronzio, mai fastidioso, che fa vibrare il cuore, consegnandoci la città di Manchester nella sua dissolutezza. Empatica, empirica, roboante, regala alla melodia il ruolo di farci deglutire il senso di smarrimento. Pochi accordi ma tanta poesia sonora: la canzone è una festa mesta che rassoda la convinzione che l’esistere sia una vicenda alquanto turbolenta. E il rock viene baciato da una timida elettronica: la perfezione vola sottile nel centro del nostro cuore…


10 Learn To Love The System


Il pianeta Marte scende nei transistor dei Readers, bacia il ritmo rockeggiante, distribuisce una melodia pandemica, facendoci ammalare di questo delirio: una marcia, mai marziale ma piena di pallottole di consapevolezze varie, ci porta nei territori di una profonda invettiva, piena di maschere e di metafore. Lo stesso fa la musica: è un tripudio di soluzioni che, arricchite da un arrangiamento minimalista, stabiliscono una tensione che trova nelle rullate della batteria la capacità di trascinarci in una danza scomposta…


11 She Wears A Frown


L’episodio meno convincente, con un tocco di esagerata propensione verso territori musicali distanti dal loro dna, non intacca la convinzione che si stia ascoltando un gioiello incompreso. Tutto qui è all’interno di un cilindro che nasconde i colori. La canzone è meno immediata delle altre. Solo il tempo saprà forse farci vergognare di quello che sembra un giudizio negativo. Ma si avverte la sensazione di una mano che forza, spingendo le gambe verso una strada mai battuta in precedenza…


11 Stop Wasting My Time


Quello che non ti aspetti giunge alla fine: una ballad acustica che suscita il paragone con il Bowie del 1974, per poi sbarazzarsi di questo pericoloso atteggiamento e trovare la modalità per manifestare una modernità che pareva impossibile dopo i primi secondi. Parole mature, grevi, che suonano più come una scusa che non come una critica, vengono messe nel cuore di una voce che sa benedire l’incanto del tormento, per erudirlo e portarlo nella consapevolezza. Tornano gli archi, e le lacrime, calde e silenziose, scendono da questi accordi, dalle parole, per manifestare la capacità di una ipnosi che si fa sempre più malinconica e necessaria…


Alex Dematteis

Musicshockworld

Salford

30 Luglio 2023


https://open.spotify.com/album/1h96U4Q5wLr400o0RsCgg5?si=wwEcguH7T_m_le0989JY3A




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