Julian Cope - Peggy Suicide
Leggende e miracoli prendono corpo all’interno di una raccolta agitata e folta, nel laboratorio mentale di un’anima in contatto con spiriti che aleggiano sulla città resa nota dai Beatles. Il protagonista di questo lavoro è un luogo magico dove tutto accade, all’interno di una nube acida, un quantitativo notevole di droghe ingerite per portare i pensieri verso atmosfere in attesa, dal fare folk nello stile, estremamente Hardcore per quanto concerne la durezza di testi che non guardano in faccia a nessuno. La penna di Julian diventa poetica nell’intenzione, per scrivere sbilenche storie d’amore, nelle quali tutto capitola verso la disperazione e la confusione. Un album nel quale il ritmo e la ricerca melodica si spostano, rispetto ai logori e finiti Teardrop Explodes, verso un piano nel quale la psichedelia e il rock più educato trovano un bacino espressivo che possa contenere quella dolcezza che mai prima poteva essere attribuita a questo cervello dalle piume piene di raggi stralunati. Julian, attraverso parole scritte sulla pietra riscaldata da un generoso sole nordico, riesce a vestire i panni del druido disonesto e confuso, lasciando nelle canzoni tracce del suo malessere, insieme alla sensazione che tutto viva di uno stato febbrile, spossando il compositore, ma mettendolo in condizione di scavare nel suo intimo.
Le soluzioni sono molte: si spazia per necessità, in quanto nulla di questo album assomiglia a un progetto, bensì a una collezione di impeti educati dal suo stile unico, riconoscibile per il modo in cui la voce recita, interpreta i testi come se il palco del teatro su cui mostra il corpo fosse improvvisamente illuminato da note molto distanti tra loro.
Sceglie accuratamente le erbe da mettere nel pentolone, fa cuocere tutto per il tempo necessario per poterle sbucciare e ciò che incide e ci concede di ascoltare è il frutto di un percorso che rifiuta di essere catartico bensì un continuo segreto, per poter essere un geroglifico di antica provenienza. Gioca con il tempo, per una profonda allucinazione, ed è proprio il folk inglese degli anni Cinquanta che gli consente di avvicinarsi al genio consumato dagli acidi che aveva creato i Pink Floyd…
È proprio Syd Barret che pare il suggeritore di Promise Land, il punto di non ritorno dell’album: da quel momento le canzoni successive si vestiranno di un processo metabolico incomprensibile, ma in grado di illuminare il cielo delle nostre fantasie. Avanzano strati di polvere sulle chitarre, le melodie si fanno più vicine alla West Coast Americana degli anni Settanta, gli assoli arrivano, come arrivano melodie che fanno sudare gli occhi di emozioni senza freni. Si piange, si contano battiti illuminati da assoli, da richiami della foresta, si assiste all’uccisione della canzone Pop che spesso, invece, aveva attirato Cope già in passato. Gli strumenti sembrano trovare una linea, un confine che si ingrassa di un rock lento, elevando la capacità dell’autore di concedersi a un crooning quasi trascinato.
Numerose le tappe, i cambi, per riuscire a rendere il tutto verosimilmente come il suo monte spirituale: non è un caso che è proprio dall’album successivo che Julian smarrirà la capacità di creare opere piene di rivisitazioni, di riferimenti, di traversie continue alla ricerca di un niente di cui cantare…
A morire non è Peggy ma il desiderio contorto, l’eccesso di dolore che annulla la quotidianità. Cope è tremendo: incendia e ferisce con stile tutto ciò che funziona, per ricomporre dalle ceneri brandelli di lucidità, per portare allo schianto una città che non ama la periferia. Ma è lì che ambienta queste storie, per accendere falò pieni di brividi, spegnere la luce della gioia e dipingere allegrie con la faccia liscia: non illudetevi, è solo un inganno, perché a lui piace dare alla sua chitarra il ruolo di condottiero, tutto sale su quel manico e il circostante diventa lo schiavo di turno per regalare una effimera gioia.
Questo lavoro è un trattato di follia che si scioglie all’ascolto: lui ci sfida all'innamoramento, alla esaltazione, ma ogni singolo lato dei vinili è una guerra andata a male, in cui l’entusiasmo apparente in realtà è una scusa per poter affogare il suo delirio. Si può collocare questo album tra quelli che non è facile maneggiare, vuoi per le condizioni precarie di trame che non riescono a svilupparsi garantendo la continuità, vuoi per l’eccessivo ermetismo dei testi. È però questa la ragione per la quale può essere portato serenamente su un’isola deserta: pieno di imprevisti, di scosse elettriche, di brezze primaverili, non si assume la responsabilità di essere credibile generando una libertà pazzesca e incontenibile. Senza tempo, senza precise definizioni sullo stile, ci pare evidente che siamo per la prima volta dentro il luna park inquieto di un recipiente che cammina, sa far vedere, ma non trattiene nessun desiderio, come se fosse un poderoso vomito artistico senza alcun senso.
Individuato il suo nonsense, la sua sfuggevolezza, il suo disincanto, non ci resta che trovare una ragione all’interno di questa matrioska sotto i colpi del vento: ogni personaggio di Peggy Suicide ha la vita breve ed è piena di pendii. Non è difficile immaginare che diverse parti di noi potrebbero trovarsi direttamente a contatto con la disumana abbondanza di menti barcollanti, ma se questo lavoro sta conoscendo la vita eterna è proprio per questo motivo.
Lampi di Art-Folk, di Art-Rock, di magnetica psichedelia col combustibile tiepido giungono all’interno di questi solchi che hanno decretato il suo genio, compreso dai folli ed evitato da coloro che si tirano fuori, per generare, alla fine dell’ascolto, una percezione estrema: il druido è riuscito a drogarci e ora quelle erbe aromatizzate rimarranno per molto all’interno del nostro stupore…
Alex Dematteis
Musicshockworld
Salford
9 Aprile 2023
https://open.spotify.com/album/556FTYkC3q0gRnMa2fXQsO?si=z9cvzFg9QmW8qKBDrYBb0Q
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